VESCOVO
. Episcopato (dal greco ἐπισκοπεῖν; lat. superintendere) è vocabolo corrispondente all'italiano soprintendenza o ispettorato, e significa nella Chiesa lo stato ecclesiastico insignito dei poteri speciali che occorrono per continuare la missione degli apostoli, cioè per governare o amministrare la Chiesa.
Origine dell'episcopato. - Gesù ha edificato la sua Chiesa sul fondamento degli apostoli (Ephes., II, 20) affidando loro la missione di istruire, guidare, pascere il suo gregge. Gli apostoli, pur conservando l'alta direzione della Chiesa, preposero da principio ai varî gruppi di fedeli, man mano che venivano costituendosi, dei pastori, preti e diaconi, detti promiscuamente così negli Atti, come nelle Epistole, ἐπίσκοποι o πρεσβύτεροι. Ben presto però nei centri più importanti scelsero i più degni, comunicando loro la pienezza del sacerdozio e per essa la facoltà di imporre le mani (χειροτονεῖν), cioè di ordinare sacerdoti, confermare, e tutti i poteri di magistero e di governo. I primi vescovi creati dagli apostoli si potevano considerare come loro coadiutori o delegati; ma in seguito, durante la loro vita, furono stabilite vere e proprie sedi episcopali, con residenza fissa dei loro titolari. La prima di queste sedi è Gerusalemme, con a capo l'apostolo S. Giacomo; quindi Antiochia, cui S. Pietro diede per vescovo Evedo; poi Roma, retta da Pietro e poi affidata a Lino, successore di Pietro nel primato; infine Alessandria, il cui primo pastore fu S. Marco. E poiché la potestà ordinaria conferita agli apostoli doveva di sua natura perpetuarsi nella Chiesa, i vescovi si debbono dire in qualche modo loro successori. Ne consegue che l'episcopato è un grado preminente al presbiterato e che i vescovi sono per diritto superiori ai semplici sacerdoti, come si desume anzitutto dai varî testi delle Lettere degli apostoli in cui i vescovi si dicono: "posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio" (Atti, XX, 28). Verso la fine del sec. I S. Ignazio di Antiochia nelle sette lettere, che di lui ci rimangono, parla evidentemente di nel senso attribuito a questo termine dal Concilio di Trento: i tre ordini del clero, vescovi, preti e diaconi, sono opposti alla massa dei fedeli, cioè ai laici (ad Ephes., II, 2; ad Philad., VII,1): il vescovo è sempre unico: ad es., Onesimo è il solo vescovo di Efeso (Ad. Ephes., I, 3); Damaso è il vescovo di Magnesia (Ad Magnes., II); Policarpo è il vescovo di Smirne (Ad Polyc., titolo). Il vescovo concentra nella sua persona i poteri religiosi (Ad Magnes., VII, 5) e riassume e rappresenta la comunità cristiana (Ad Ephes., I, 3). S. Clemente di Alessandria (150-217) racconta che S. Giovanni si trasferiva di città in città per fondarvi nuove cristianità e "stabilirvi dei vescovi" (Quis dives salvetur, 42). S. Ireneo (verso l'anno 180) dichiara essere da tutti conosciute le liste complete dei successori degli apostoli da Pietro a Paolo fino ai suoi tempi (Contra haer., I, III, 111,1-2). Tertulliano è anche più esplicito, affermando che, come la Chiesa di Smirne attribuisce a Giovanni la nomina di Policarpo; come la Chiesa di Roma produsse Clemente, ordinato da Pietro, così tutte le altre fanno risalire agli apostoli i vescovi da cui ripetono la propria origine (De praescript., 32). Infine S. Gerolamo, dopo aver detto che i vescovi hanno soli il potere di ordinare sacerdoti e destinarli alle varie comunità, riconosce in questo fatto la ragione per cui essi sono successori degli apostoli (Commentar. in Titum, I, 5).
Da queste testimonianze si rileva: 1. L'istituzione apostolica, non di questo o quel vescovo, ma dello stesso episcopato; 2. l'esistenza dell'episcopato unitario (non simultaneo) come il grado supremo della gerarchia (non democratica) dell'episcopato, che riassume in sé i poteri necessarî pel governo delle singole chiese in dipendenza dal pastore supremo, il romano pontefice (per la questione dell'episcopato, v. roma, XXIX, p. 655 segg.).
La questione dell'origine dell'episcopato ha dato origine, dalla Riforma in poi, a vivaci discussioni non solo tra riformati in genere e cattolici, bensì tra le varie confessioni riformate stesse, trattandosi di giustificare l'ordinamento ecclesiastico, di tipo episcopale o presbiteriano, adottato dalle une o dalle altre. Da ciò le polemiche intorno all'epistolario d'Ignazio d'Antiochia. A nuove discussioni diede origine la scoperta della Didaché (v. apostolo, III, p. 710).
I varî sistemi proposti hanno in comune il carattere evoluzionistico: tutti si propongono di delineare il processo per cui da un ordinamento con una forma di governo collegiale, si sarebbe svolto l'episcopato cosiddetto monarchico. F. C. Baur pensava che già l'ordinamento collegiale fosse il risultato dell'unione nella medesima comunità delle varie chiese domestiche. Secondo J. B. Lightfoot, la necessità di un capo unico si sarebbe rivelata nelle controversie tra i varî gruppi cristiani, provenienti dal giudaismo o dal gentilesimo, e nella lotta contro le eresie. E. Hatch invece pensò che i presbiteri fossero caratteristici dei gruppi provenienti dal giudaismo; essi rappresenterebbero gli anziani delle sinagoghe, mentre l'episcopo sarebbe stato, nei gruppi convertiti dal paganesimo, l'equivalente del tesoriere dei thiasoi o dei collegia. A. Harnack contrappose la gerarchia "carismatica" di apostoli, profeti e maestri, di carattere universale, attestata dalla Didaché, a quella locale, formata di presbiteri-episcopi, e risultato della fusione di due organizzazioni, con funzioni in origine diverse. Secondo J. Réville, invece, che ereditava a sua volta dottrine precedenti (p. es., di E. Renan) intorno all'organizzazione puramente democratica delle varie Chiese primitive, le funzioni spirituali si sarebbero a poco a poco fissate in un gruppo di "notabili", i presbiteri; ma l'episcopo, che con i diaconi avrebbe costituito una specie di organo esecutivo dell'assemblea dei fedeli o del collegio presbiterale, con funzioni proprie, avrebbe poi accentrato in sé tutte le funzioni.
La storiografia più recente riconosce che non vi fu nell'organizzazione ecclesiastica primitiva uniformità assoluta, e che anzi vi furono in origine tipi diversi di organizzazione, p. es. a Gerusalemme, ad Antiochia, ad Alessandria, nelle chiese fondate da S. Paolo, e in quelle dell'Asia soggette all'influsso di S. Giovanni. Questa tendenza, ammessa anche da F. Prat, è stata di recente sottolineata da B. H. Streeter, il quale ha anche cercato di determinare con maggior precisione le varie forme di organizzazione. Ma queste determinazioni, che si fondano in buona parte su una discutibile localizzazione geografica delle fonti, non hanno incontrato la stessa approvazione. Se si chiede come sia avvenuto il passaggio dal governo collegiale all'episcopato monarchico, la risposta più semplice - dice H. Lietzmann - è anche la più giusta: si riconobbe cioè che in tempi difficili il riunire il potere in una sola mano è garanzia di una migliore direzione (Führung). V. anche roma, XXIX, p. 655 seg.
Questioni teologiche. - Secondo i principî affermati dal Concilio di Trento (sess. XXIII, c. 6) e confermati dal Concilio Vaticano (Costit: Pastor aeternus, c. III) i vescovi debbono considerarsi come successori degli apostoli, superiori ai semplici preti, incaricati per diritto divino di governare un determinato gregge, ossia una porzione dell'ovile di Cristo detta diocesi (v. diocesi) sotto l'autorità e direzione suprema del romano pontefice, pastore dei pastori. Nella consacrazione episcopale, in quanto si distingue dall'ordinazione sacerdotale, si conferisce un vero e proprio sacramento, contenendo essa il rito sacramentale descritto da S. Paolo nella lettera a Timoteo ed essendo il fondamento della facoltà riservata ai vescovi di amministrare la cresima e conferire gli ordini sacri. È oggi sentenza comune fra i teologi e già data dal Bellarmino come certissima. Essa però non induce nel soggetto un nuovo carattere, ma amplia il carattere preesistente rendendolo capace delle funzioni inerenti al grado episcopale. È nota la distinzione fra potere di ordine e potere di giurisdizione: il primo si riferisce all'amministrazione dei sacramenti e alla celebrazione dei sacramentali; il secondo comprende tutti i diritti e tutte le facoltà richieste per il governo e l'amministrazione della diocesi. Entrambi vengono conferiti nella consacrazione, ma il primo emana dal carattere episcopale, mentre il secondo deriva ai vescovi dalla pienezza di ogni potere che è nel capo visibile della Chiesa.
Questioni canoniche. - Oltre la divisione dei vescovi in patriarchi, metropoliti, arcivescovi, vescovi propriamente detti, essi si distinguono in residenziali e titolari, in suffraganei ed esenti, in coadiutori e ausiliari.1. I residenziali (così detti dalla residenza nel territorio della propria diocesi, cui sono astretti) sono i pastori ordinarî e immediati della diocesi loro affidata. Per l'esercizio valido della giurisdizione si richiede la presa di possesso, che si fa mediante l'ostensione della Lettera apostolica con cui vengono istituiti al capitolo della cattedrale. Ai titolari viene assegnato un territorio abitato in massima parte da scismatici o da infedeli: essi non possono esercitare nessuna giurisdizione nella propria diocesi, della quale neppure prendono possesso (Cod. iuris can., can. 334, 348) 2. Si chiamano suffraganei i vescovi soggetti a un metropolita, nel cui Concilio provinciale hanno diritto di voto: esenti quelli che dipendono immediatamente dal romano pontefice. 3. Il coadiutore è un vescovo aggiunto all'ordinario di una diocesi per aiutarlo sia nell'amministrazione della diocesi, sia nell'esercizio dei pontificali. Quando è dato alla persona dell'ordinario, è quasi sempre con diritto di successione di nomina. Rendendosi vacante la sede episcopale, il coadiutore con diritto di successione diventa senz'altro ordinario della diocesi per cui fu costituito, purché ne abbia preso legittimo possesso (Cod. iuris. can., can. 350-356).
Creazione dei vescovi. - Bisogna distinguere fra designazione della persona e istituzione dei vescovi: la prima avviene o per libera nomina del romano pontefice, ed oggi è la forma più consentanea al diritto canonico; o per elezione del capitolo della cattedrale confermata dal papa; o per presentazione del soggetto ritenuto più degno da parte o del sovrano o dei vescovi comprovinciali, soli o in unione al clero: nei quali casi si usa presentare una terna di nomi. L'istituzione però di qualsiasi vescovo è sempre riservata al sommo pontefice, nel qual senso va interpretato il can. 329, secondo il quale "il r. pontefice li nomina liberamente". Nel candidato si esigono: nascita legittima, età di almeno trent'anni, onestà, prudenza, dottrina sufficiente e almeno cinque anni di sacerdozio. L'eletto deve ricevere la consacrazione entro tre mesi da che ha ricevuto la Lettera apostolica, sotto pena di decadenza se la consacrazione viene ritardata di altri tre mesi.
Diritti e privilegi dei vescovi. - In forza del potere legislativo il vescovo può promulgare leggi e fare decreti che sono obbligatorî per tutti i suoi sudditi. D'ordinario però le leggi vescovili si promulgano nel sinodo diocesano o nelle adunanze pro-sinodali, alle quali intervengono i vescovi foranei. Per il potere giudiziario il vescovo, nella propria diocesi, è giudice di prima istanza ed esercita la sua autorità così nelle cause d'ordine spirituale, come in quelle d'ordine temporale connesse con la disciplina ecclesiastica e col governo della diocesi.
Contro la sentenza del tribunale vescovile (v. curia: Curia vescovile o diocesana) si dà l'appello al tribunale del metropolita o il ricorso alla Sede apostolica (cfr. Codex iur. can., lib. IV, tit. 2°). Quanto al foro interno, spetta al vescovo l'approvazione dei confessori nel territorio diocesano, come pure la riserva dell'assoluzione di certi peccati particolarmente gravi, detti peccati riservati. Del potere coattivo si vale il vescovo non solo per sancire le proprie leggi, ma anche per punire la trasgressione, così della legge divina, come di leggi promulgate dall'autorità superiore e vigenti nel proprio territorio (can. 2221). Fra i privilegi dei vescovi, sia residenziali sia titolari, vi è la facoltà di celebrare dovunque si trovino sull'altare portatile; di far uso dell'altare privilegiato personale quotidiano; di benedire in ogni luogo il popolo more Episcoporum; di scegliere per confessore proprio o dei familiari qualsiasi sacerdote, che in tal caso, qualora non abbia giurisdizione, l'ottiene ipso iure; di predicare dappertutto la parola di Dio col consenso almeno presunto dell'ordinario; di portare le insegne episcopali, ecc. Ai vescovi residenziali è riservato il diritto di percepire i redditi della mensa (v. appresso), di concedere l'indulgenza di 50 giorni nell'ambito della propria giurisdizione e di elevare in tutte le chiese della propria diocesi il trono col baldacchino (can. 349).
Bibl.: G. Sebastianelli, Praelectiones iuris can., Roma 1896: De personis; F. Segna, De Ecclesiae Christi constitutione et regimine, ivi 1900, capitoli 13-16; D. Munerati, Elementa juris ecclesiast. publici et privati, Torino 1903; F. Cavagnis, Institutiones juris publici, Roma 1906, I; D. Bouix, De Episcopo, Parigi 1873; E. Berardi, De Episcopo, Bologna 1891.
Per ciò che riguarda l'origine dell'episcopato, v.: I. Döllinger, Christenthum und Kirche in der Zeit der Grundlegung, Ratisbona 1860; J. B. Gams, Series episcoporum ecclesiae catholicae, Monaco 1873; C. De Smedt, Dissertationes selectae in primam aetatem historiae ecclesiasticae, Gand 1876; id., L'organisation des Églises chrétiennes jusqu'au milieu du IIIe siècle, in Revue des questions historiques, XLIV, l, Parigi 1888-91; S. de Dunin Borkowski, Die neueren Forschungen über die Anfänge des Episkopats, Friburgo in B. 1900; A. Michiels, l'Origine de l'Épiscopat, Lovanio 1900; G. Semeria, Dogma, gerarchia e culto nella chiesa primitiva, Roma 1902; P. Batiffol, L'Église naissante et le Catholicisme, 5ª ed., Parigi 1911; H. Bruders, Die Verfassung der Kirche von den ersten Jahrzehnten der ap. Wirksamkeit an bis zum Jahre 175, Magonza 1903; H. Dieckmann, Die Verfassung der Urkirche, Berlino 1923; F. C. Baur, Über den Ursprung des Episkopats, Tubinga 1838; E. Renan, Les évangiles, Parigi 1877; id., L'église chrétienne, ivi 1879; J. B. Lighfoot, Dissertation on the Christian Ministry, nel suo commento a Filippesi; E. Hatch, The organization of the early Christian Churches, Londra 1881, 6ª ed., 1901; A. Harnack, Entstehung und Entwickelung der Kirchenverfassung und des Kirchenrechts in den zwei ersten Jahrhunderte, Lipsia 1910; F. Prat, art. Évêque, in Dictionn. de théol. cathol., V, ii, Parigi 1913, rist. 1924; C. Guignebert, Le christianisme antique, Parigi 1921, c. 8; B. H. Streeter, The primitive Church, Londra 1929; H. Lietzmann, Geschichte der alten Kirche, II, Berlino-Lipsia 1936, pp. 47-51.
Diritto ecclesiastico italiano. - Nomina del vescovo. - Abolito l'antico "exequatur" (art. 24 concordato lateranense), col quale lo stato italiano riconosceva, almeno agli effetti civili, la nomina del vescovo, fatta dal pontefice, si è introdotto il sistema del nulla osta preventivo, detto da alcuni prenotificazione ufficiosa (art. 19 concordato). La scelta degli arcivescovi, dei vescovi e dei coadiutori cum iure successionis spetta alla Santa Sede; ma questa, prima di procedere alla nomina, fa noto, riservatamente, al governo italiano il nome della persona prescelta, per assicurarsi che il governo stesso non abbia ragioni di ordine politico da sollevare contro la nomina. A tale proposito la legge 27 maggio 1927, n. 848 (art.1), dispone che il ministro dell'Interno sottoponga al consiglio dei ministri le ragioni che, a suo parere, possono ostare alla nomina dell'ordinario, e che se ne dia poi comunicazione all'autorità ecclesiastica per ottenere altra designazione, sulla quale sia possibile raggiungere l'accordo. Tale sistema è stato seguito anche in altri concordati. Dopo la nomina, e prima di prender possesso della sua diocesi, il vescovo deve, nelle mani del capo dello stato e alla presenza del ministro dell'Interno, prestar giuramento, siccome si conviene a un vescovo, di fedeltà allo stato italiano, promettendo di rispettare e far rispettare dal suo clero il re e il governo stabilito secondo le leggi costituzionali dello stato; di non partecipare, né permettere che il suo clero partecipi, a accordi o consigli che possono recar danno allo stato italiano o all'ordine pubblico; di cercare di evitare ogni danno che possa minacciare lo stato, preoccupandosi del bene e dell'interesse di esso (art. 20 conc.).
L'arcivescovo di Rodi può prestare il giuramento nelle mani del governatore dell'Egeo (decr. legge 25 novembre 1929, n. 2108). Resta poi ferma la regola generale che gl'investiti di benefici debbono essere cittadini italiani (art. 22 conc.). Le suddette disposizioni non si applicano a Roma, né alle diocesi suburbicarie, sulle quali la Santa Sede ha piena e libera disponibilità (art. 21 conc.).
Poteri e obblighi del vescovo. - I vescovi possono comunicare liberamente con la Santa Sede e col loro clero, per tutto quanto attiene al ministero spirituale; possono fare affiggere alla porta delle chiese e degli edifizî destinati al culto lettere patenti, pastorali, bollettini e altri atti concernenti il governo spirituale dei fedeli. È imposto l'uso della lingua italiana o di quella latina, con facoltà, però, di aggiungere al testo italiano una traduzione in altra lingua. I poteri disciplinari e, in generale, quelli canonici dell'ordinario sono riconosciuti nella legislazione vigente. Al vescovo spetta la nomina dei parroci, con le garanzie stabilite nell'art. 21 del concordato. A lui si deve pure ritener mantenuta la vigilanza sui benefici, sulle confraternite, sulle fabbricerie. È necessario il nulla osta dell'ordinario diocesano, affinché un ecclesiastico possa accettare un impiego o un ufficio dallo stato o da altri enti pubblici (art. 5 conc.). Si riconosce piena efficacia giuridica, anche agli effetti civili, alle sentenze e ai provvedimenti dell'autorità ecclesiastica, ufficialmente comunicati all'autorità civile, circa persone ecclesiastiche o religiose, e concernenti materie spirituali e disciplinari (art. 23 del trattato lateranense); ciò significa che, in questo campo, tali provvedimenti possono avere conseguenze civilmente dannose anche per i laici, purché però non si tratti di un diritto soggettivo garantito dal diritto pubblico italiano. Il procuratore del re deve dare avviso al vescovo del deferimento di un ecclesiastico o di un religioso al magistrato penale per delitto, e trasmettere poi allo stesso ordinario sia la decisione istruttoria, sia la sentenza terminativa del giudizio, di primo grado e d'appello (art. 8 conc.). È richiesto il preventivo accordo col vescovo per l'occupazione di un edifizio aperto al culto (art. 9 conc.).
Alla dignità e all'alto ufficio vescovile corrispondono le disposizioni dell'art. 33, n. 1, dello statuto del regno, il quale fa degli arcivescovi e vescovi dello stato una delle categorie nelle quali si possono scegliere i senatori, e la disposizione dell'art. 2 del r. decr. 15 dicembre 1929 sulle precedenze, che pone gli arcivescovi dopo i funzionarî della quarta categoria, e i vescovi dopo quelli della sesta e altre.
La questione, se il vescovo possa considerarsi, in generale, quale rappresentante degli interessi religiosi dei fedeli della sua diocesi, come il diritto canonico ammette, questione che era stata risoluta già favorevolmente da alcuni scrittori, sembra che si debba risolvere più che mai in senso affermativo oggi, poiché la legislazione vigente riconosce più ampiamente e completamente la gerarchia ecclesiastica, coi poteri che a essa conferisce il diritto della Chiesa.
V. anche curia: Curia vescovile o diocesana; diocesi.
Bibl.: R. Jacuzio, Commento alla nuova legislazione in materia ecclesiastica, Torino 1932; V. Del Giudice, Corso di diritto ecclesiastico ital., Milano 1933, II; A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Città di Castello 1933; U. Mozzoni, I vescovi nel diritto eccles. ital. concordatario, Roma 1935.
Ordinariato militare.
Un vescovo cattolico - denominato ordinario militare per l'Italia - presiede al servizio dell'assistenza spirituale presso le forze armate dello stato, istituito per integrare la formazione spirituale dei giovani secondo i principî della religione cattolica. Alla dipendenza del vescovo, vi provvedono, anche in tempo di pace, sacerdoti cattolici, quali cappellani militari. Per la M.V.S.N. ed altri organismi militari statali il servizio è disimpegnato da cappellani di un ruolo ausiliario. L'art. 3 del concordato fra la Santa Sede e l'Italia ha disposto che i sacerdoti, soggetti ad obblighi militari, siano esenti da ogni servizio in tempo di pace, e - in caso di guerra - siano incorporati nelle unità dell'esercito, conservando l'abito talare, per essere impiegati quali cappellani militari.
L'ordinario militare per l'Italia ha per suoi diretti collaboratori un vicario generale e due ispettori. La nomina degli ecclesiastici che debbono assumere l'ufficio di ordinario militare, di vicario generale e di ispettore, è fatta, su designazione della Santa Sede, con regio decreto proposto dal primo ministro capo del governo. La nomina dei cappellani ha luogo con r. decr. su designazione dell'ordinariato militare. L'ordinario militare - assimilato di rango al grado di generale di divisione - prima di prendere possesso del suo ufficio, presta nelle mani del capo dello stato giuramento di fedeltà secondo la formula stabilita dal concordato.
Lo stato giuridico dei cappellani militari è costituito dal loro stato di sacerdoti cattolici. Essi sono assimilati di rango al grado di capitano se cappellani capi, ovvero al grado di tenente se cappellani. I sacerdoti che rivestono il grado di ufficiale, pur essendo inscritti nel ruolo dei cappellani militari, conservano il grado medesimo. In caso di mobilitazione generale ai sacerdoti esuberanti al numero di cappellani militari necessarî (circa 4000), è attribuita la qualifica di "aiutanti cappellani" con l'equiparazione al grado di sottotenente.
Tutti gli ecclesiastici hanno l'obbligo dell'osservanza dei doveri gerarchici e il diritto agli onori proprî del grado. Ai cappellani spetta integralmente - secondo il grado e la qualifica di assimilazione - il trattamento economico degli ufficiali delle forze armate; a tutto il personale ecclesiastico in servizio permanente sono applicabili, per quanto riguarda le pensioni, le disposizioni in vigore per gli ufficiali dell'esercito.
I posti permanenti di ruolo per le forze armate dello stato sono oggi di 42 cappellani capi e 30 cappellani. Le spese per l'assistenza spirituale sono a carico del bilancio dell'amministrazione dalla quale dipende il relativo personale; quelle per l'ordinario militare e per il personale della curia sono a carico del bilancio dell'Amministrazione della guerra. I cappellani hanno il loro ufficio e alloggio negli ospedali e nelle infermerie. All'ordinariato militare fu data in Roma (1° gennaio 1930) come sede la chiesa di Santa Caterina a Magnanapoli.
Mensa vescovile. - Con questo nome s'indica il complesso di beni (parte del patrimonio ecclesiastico, anticamente indiviso) che è destinato al mantenimento degli ordinarî diocesani (vescovi arcivescovi, primati) e alle spese della curia vescovile. La mensa è soggetta al pagamento del cosiddetto seminaristico, tributo a favore dei seminarî (Cod. iur. can., can. 1356, § 1). Le cause relative ai beni della mensa sono portate, col consenso del vescovo, al tribunale diocesano, ovvero al giudice superiore (can. 1572, § 2) e la rappresentanza in giudizio spetta al vescovo, al quale, però, il canone 1655 impone l'obbligo di richiedere, in certi casi, il parere del consiglio diocesano.
Nella legislazione italiana e particolarmente nelle leggi eversive del 1866-67 i beni della mensa vescovile erano soggetti alla quota di concorso e alla tassa straordinaria del 30% oltre che alle imposte proprie degli enti morali. A favore della mensa è stabilito il supplemento di congrua concesso dalla legge 14 luglio 1887 sull'abolizione delle decime sacramentali quando in seguito a quest'abolizione la rendita della mensa divenisse minore di una certa somma annua (L. 6000 nel 1887: limite portat0 dalle leggi posteriori fino a L. 17.000 e 18.000).
Per i vescovi della Sicilia si è sostenuto da qualcuno che in base al concordato delle Due Sicilie del 1818, rimasto in vigore almeno parzialmente per la Sicilia, e che stabiliva che i vescovi non dovessero avere una rendita annua inferiore a 3000 ducati, i vescovi siciliani potessero eventualmente chiedere la differenza al Fondo per il culto. Altri però hanno osservato che tale obbligo incombeva alla S. Sede e non al sovrano e quindi non poteva gravare sul Fondo per il culto. Data la somma a cui è stata portata la congrua, tale questione è da un pezzo sorpassata.
Il concordato lateranense ha disposto (articoli 17 e 23) che in caso di riduzione delle diocesi dovranno rimanere inalterate le risorse economiche di esse, compresi gli assegni statali. L'art. 30 esclude per i patrimonî ecclesiastici e quindi anche per le mense vescovili l'obbligo della conversione. E per le mense vescovili delle diocesi suburbicarie esclude l'intervento dello stato, ammesso in via provvisoria per i beni delle altre diocesi italiane negli atti eccedenti la semplice amministrazione.
Bibl.: F. Scaduto, Diritto ecclesiastico vigente in Italia, 2ª ed., Torino 1892, I, p. 265 segg.; 4ª ediz., Roma 1923; J. B. Sagmüller, Lehrbuch des katholischen Kirchenrechts, Friburgo in B. 1909, p. 874 segg.; N. Coviello, Manuale di diritto ecclesiastico, 2ª ed., Roma 1922, II, pp. 109 segg., 36, 113 segg.; R. Jacuzio, Commento alla nuova legislazione in materia ecclesiastica, Torino 1932, pp. 427, 514; V. Del Giudice, Istituzioni di diritto ecclesiastico, Milano 1933, II, pp. 62 segg., 250 segg.; G. Forchielli, Il diritto patrimoniale della Chiesa, Padova 1936.