VESPUCCI
– Le origini dei Vespucci – provenienti da Peretola (nel contado fiorentino) e inurbatisi forse alla fine del Duecento nel ‘popolo’ (cioè nella parrocchia) di S. Lucia d’Ognissanti – si fanno discendere da Vespuccio e da Spinello, senza che, tuttavia, si possa risalire a un antenato comune.
Il più antico tra i due rami fu probabilmente quello derivante da Vespuccio, padre di un solo figlio maschio, Lapo. Suo figlio, Cisti di Lapo – notaio della Signoria nel 1312 – morì senza figli, e nessuno dei suoi tre fratelli (Giraldo, Salvi, Lorenzo) ebbe una discendenza tale da garantire la continuità della stirpe. L’intero ramo si estinse così nel giro di tre generazioni, precisamente con il bisnipote di Lapo, Domenico, vissuto nel primo Quattrocento.
Ben più duraturo si rivelò l’altro ceppo Vespucci. Le origini vanno fatte risalire al quasi eponimo Vespino, figlio di Spinello, da cui si diramarono le linee dei due fratelli Bruno e Bartolo. Quest’ultimo è l’antenato in linea diretta del celebre viaggiatore – fu il bisnonno del nonno di Amerigo –, ma fu la linea discesa da Bruno a rendere inizialmente celebre il nome dei Vespucci.
Suo nipote Lapo di Biagio, nato tra il 1362 e il 1367, visse tra la fine del Trecento e gli inizi del secolo successivo e fu tra i primi della casa degni di rilievo pubblico. Membro delle arti minori – iscritto ai vinattieri prima, ai ritagliatori poi – fu il primo di questo ramo a essere eleggibile per l’esecutivo. Minore nel 1392 alla prima estrazione per il priorato, fu più volte estratto per gli uffici del governo e delle arti, dal 1397 in avanti. Dopo l’iscrizione all’arte del cambio, probabilmente ai primi del Quattrocento, ne fu console nel 1421. Dal primo decennio del secolo fino alla metà degli anni Venti (le fonti lo danno per morto dal 1426), il suo nome ricorre con regolarità nella copertura di uffici in ruoli di tipo amministrativo e finanziario.
Apparentemente non dissimile il profilo di suo fratello Piero di Biagio, qualificato come mercator almeno dal 1402. Iscritto all’arte di Calimala dal 1404 e, successivamente, a quella del cambio (Archivio di Stato di Firenze, da qui in poi ASF, Manoscritti, 542), Piero fu spesso estratto agli uffici per l’arte e per l’esecutivo; di fatto tuttavia, la sua partecipazione a tali cariche fu molto modesta perché, proprio per la sua fiorente attività mercantile, era spesso fuori città. Socio di Giovanni Orlandini a Bruges nel 1420, dopo la morte di questi e la liquidazione della loro compagnia, si legò ai Borromei (Guidi Bruscoli, 2012, pp. 22-23, 33). Per decisione di Alessandro Borromei gli fu intestata (almeno dal 1423) la filiale di Bruges della compagnia di Londra. Quando Piero morì a Bruges nell’agosto del 1425, è probabile che al suo posto sia subentrato il fratello Lapo in veste di esecutore, ma poiché anche costui venne a mancare poco dopo, tutto si concentrò nelle mani del figlio di Lapo, Giuliano.
Giuliano di Lapo, a sua volta immatricolato all’arte del cambio, ne fu console almeno quattro volte tra il 1439 e il 1460 (ASF, Manoscritti, 542). Al Catasto del 1427, giovanissimo, figurava già come capofamiglia del suo nucleo, con a carico le due sorelle minori. Con loro, nella casa di Borgo Ognissanti risiedeva anche un familiare adulto di riferimento (era cioè tutore informale di Giuliano e delle sue giovani sorelle), il lontano cugino Piero di Simone Vespucci. Come suo padre Lapo, anche Giuliano fu in società con i Borromei, tra Bruges, Valencia e Londra. Nel 1431 si sposò con Bice Salviati, dalla quale ebbe un solo figlio maschio (Piero) e almeno cinque femmine (Tommasa, Maria, Checca, Maddalena, Ginevra). Fu eletto gonfaloniere di Compagnia nel 1440, 1452 e 1460; fu dei Dodici buonuomini nel 1444 e 1449, e priore nel 1443, 1448 e 1454. Fu infine il primo Vespucci gonfaloniere di Giustizia, nel 1462. In aggiunta, tra il 1440 e il 1464 ricoprì vari uffici di tipo finanziario; tra gli incarichi specificamente legati alle sue competenze spicca quello di console del Mare, che ricoprì dal marzo del 1447. Fu inoltre podestà di Pistoia nel 1459-1460 e 1466. Morì nell’agosto del 1466.
Il lontano cugino citato nel Catasto del 1427, Piero di Simone, era nato alla fine del secolo precedente da Simone di Piero Vespucci e Giovanna di Francesco da Sommaia. Suo padre, anch’egli mercante e uomo d’affari, era probabilmente, al tempo, il Vespucci più noto alla cittadinanza di Firenze da quando aveva fatto edificare a sue spese l’ospedale laico di S. Maria dell’Umiltà (terminato nel 1388), che nel testamento avrebbe poi affidato in gestione alla Società del Bigallo. La fama dell’edificio, poi conosciuto come ospedale d’Ognissanti, sarebbe rimasta lungamente associata alla famiglia. Accanto a Lapo, Simone era il solo della casa a figurare da fine Trecento nelle borse per gli uffici intrinseci, cioè per gli uffici amministrativi interni alla città di Firenze. Setaiolo di professione, sebbene non si conosca granché sulla sua attività mercantile fu chiamato a rivestire incarichi amministrativi, soprattutto in campo annonario (ASF, Tratte, Uffici intrinseci, 900, ad ind.), e, come il cugino Lapo, ebbe cariche nell’esecutivo. Quando, il 12 luglio 1400, ormai malato, dettò il suo testamento nella casa di Borgo Ognissanti, privilegiò, oltre ai suoi discendenti diretti, i parenti Lapo e Piero del fu Biagio Vespucci, i soli della casa con cui condividesse l’attitudine al commercio e la residenza stabile in città.
Gli altri Vespucci del tempo di cui si ha testimonianza, infatti, avevano un profilo decisamente più modesto e periferico. Dei cinque figli maschi che Simone menzionava nel testamento (Antonio, Piero, Giovanni, Andrea e Giuliano) è soprattutto di Piero e di Giovanni che si hanno notizie.
Piero di Simone si era immatricolato all’arte del cambio nell’aprile del 1417, all’età di ventun’anni. Mercante e imprenditore, era titolare di alcune quote dei ‘mulini’ di Ognissanti (un complesso di edifici industriali, impiegati come gualchiere, posto alla confluenza tra Arno e Mugnone, edificato alla metà del Duecento dagli Umiliati). Nel 1428 viveva con la moglie, Piera di Francesco Guiducci, i due figli Bernardo e Simone e la madre Giovanna. Dalla metà degli anni Venti in avanti, ricoprì vari incarichi per il Comune, tutti strettamente connessi alle sue competenze finanziarie e assicurative nonché alle sue esperienze di navigazione. Fu inoltre uno dei primi della casata a ottenere incarichi diplomatici: alla fine del 1433 fu ambasciatore «ai Malatesta» e «al Conte da Poppi» (ASF, Signori, Legazioni, 9, cc. 86v e ss.), e nell’estate del 1435 commissario della Signoria presso Francesco Sforza.
Giovanni di Simone, suo fratello maggiore (era il primogenito), diversamente da lui e dal padre si mostrò più orientato per l’attività politica che per la mercatura. Si sposò in età matura con Antonia di Uberto di Domenico Ugolini, dalla quale ebbe tre figli, Guidantonio (1436), Simone (1437) e Piero (1438), ma la sua presenza nelle cariche dello Stato era ben precedente. Se già nell’aprile del 1419 era stato eletto ufficiale di Buggiano, il primo incarico di rilievo fu certo quello di castellano della Rocca Nuova di Livorno, nell’estate del 1421 (ASF, Tratte, Uffici estrinseci, 984, c. 77v). A Livorno tornò come commissario nell’estate del 1431, durante una delle difficili fasi della guerra contro Genova. Anche a Firenze partecipò con successo agli uffici amministrativi e di governo. Le estrazioni per l’esecutivo, infine, lo videro attivo dal 1426 fino almeno alla metà degli anni Quaranta: fu dei Dodici buonuomini nel 1426, priore nel 1430, gonfaloniere di Compagnia nel 1432, ancora dei Dodici nel 1433, 1436 e 1439, estratto per l’arte della seta nel 1440 e, infine, ancora gonfaloniere di Compagnia nel 1443. Fu il primo Vespucci per cui sono documentati rapporti con gli Aragonesi di Napoli.
Sebbene si fosse formato negli anni in cui Firenze era dominata dalla famiglia Albizzi, Giovanni di Simone partecipò alla Balìa filomedicea del 1434, che richiamò a Firenze Cosimo de’ Medici, esiliato l’anno precedente. Al rientro di Cosimo la sua partecipazione al governo rimase immutata, e almeno sulle prime egli continuò ad alternare incarichi nell’esecutivo con ruoli amministrativi o nel territorio.
Nel gennaio del 1436 fu a Borgo San Sepolcro in rappresentanza della Repubblica; nel maggio del 1438 ebbe un incarico diplomatico presso il «re di Aragona» (ASF, Signori, Legazioni, 10, cc. 154 e ss.), ancora nel 1441 fu ambasciatore a Siena e inviato presso Aldobrandino II Orsini, conte di Pitigliano. Nel 1443 fu di nuovo in carica nel territorio fiorentino, come podestà di Arezzo.
Quando però la Balìa del 1444 si decise a esiliare gli oppositori di Cosimo colpevoli di non averne appoggiato il governo, Giovanni fu incluso tra i nemici del regime e imprigionato nel carcere delle Stinche. Fu certo il legame stretto con gli Aragonesi – presso i quali si era recato almeno due volte come rappresentante dello Stato (Amerigo Vespucci, 1991, p. 71; Tripodi, 2018, p. 60) – ad avere probabilmente il maggior peso nella sua ostracizzazione. Dopo quattordici mesi di carcere, la prigionia fu commutata in esilio a Roma, ove si recò in una data successiva al dicembre del 1445 (dopo aver fatto testamento). La condanna ebbe un impatto enorme sulla sua immagine sociale e sulla sua carriera: le ultime due estrazioni per i Dodici, nel 1446 e 1447, effettuate ormai non più nell’anonimato della ‘tratta’ ma nella piena discrezionalità del potere centrale, certificano che la sua cedola venne «rigettata e dilaniata». Da Roma scrisse a Giovanni de’ Medici, nella primavera del 1448, per ottenerne la grazia (ASF, MaP, VI, nr. 41, 9 marzo 1448). Morì a Firenze il 20 aprile 1456, dopo essere sopravvissuto di quasi una ventina d’anni al benché più giovane fratello Piero. Appena il giorno prima, nel dettare il suo testamento, aveva designato eredi i figli Guidantonio, Simone e Piero.
Nonostante la sventura di Giovanni, sul finire degli anni Cinquanta del Quattrocento i Vespucci erano ormai riconosciuti di indubbia affiliazione medicea, amici del governo e partecipi dello Stato. Benedetto Dei (Benedetto Dei..., 1984, p. 66), nella sua cronaca, li menziona come «partigiani de’ Medici» (al pari dei Tornabuoni, Capponi, Pazzi, Gianfigliazzi ecc.), anche se non è chiaro a quali Vespucci si riferisca: forse ai nipoti del Simone fondatore dell’ospedale d’Ognissanti (ma non ai suoi figli, dato che Piero era morto nel 1437 e Giovanni aveva ormai subito l’infamia del carcere); più probabilmente, Dei pensava al ramo disceso da Giuliano di Lapo, al tempo il più allineato al regime mediceo. Certamente non si riferisce al ramo da cui discese Amerigo, che poteva contare al tempo solo su un umile notaio, Nastagio, da poco giunto in città.
Piero di Giuliano di Lapo, il solo maschio nato dal matrimonio tra Giuliano e Bice Salviati, nacque nel 1432 (per notizie più dettagliate sulla sua vita, v. la voce Vespucci, Piero in questo Dizionario). Nei primi anni Cinquanta sposò Caterina dei Benci, figlia di Giovanni, un collaboratore di Cosimo. Mostrò sempre un vivo interesse per la politica, e aspirò a entrare nell’entourage dei Medici.
Coinvolto nei traffici marittimi, ricevette nel 1463 l’incarico di capitano di galea (poi più volte reiterato). Ebbe in seguito vari incarichi nel territorio fiorentino, che fino ai primi anni Settanta alternò a sporadici uffici amministrativi in città. Fu priore per la prima volta nel 1463, poi podestà di San Gimignano nel 1468, membro dei Dodici nel 1469 e ambasciatore a Napoli nel 1470 (in tale occasione fu insignito da Ferdinando d’Aragona del titolo di cavaliere). Nel 1471 fu vicario del Mugello. Nel quadro della guerra che nel 1472 il Magnifico ingaggiò contro Volterra per il monopolio dell’allume, Piero fu inviato a trattare con Iacopo III Appiani, signore di Piombino (favorevole ai volterrani), perché a questi legato da familiarità personale.
Nello stesso 1472 fu gonfaloniere di Compagnia. Nel marzo del 1474 ricevette l’incarico di podestà di Milano, ma in novembre riuscì a ottenere dal Magnifico di scambiarlo con quello di podestà di Bologna, più sicuro e meglio remunerato. Rimase a Bologna fino al 1476.
Nel frattempo, nel 1468, suo figlio Marco (nato nel 1452) aveva sposato la bella Simonetta Cattaneo. La popolarità di cui questa godeva presso i Medici (era oggetto delle attenzioni tanto del Magnifico quanto di suo fratello Giuliano) apparve forse a Piero, sempre a caccia di opportunità da sfruttare a suo vantaggio, come una carta da giocare per ingraziarsi il Magnifico, ma nel 1476 la ragazza morì.
L’aspirazione di Piero a entrare nella cerchia laurenziana venne vanificata a seguito della congiura dei Pazzi. Il 1° maggio 1478 Piero fu arrestato, con l’accusa di aver favorito la fuga di Napoleone Franzesi, un congiurato a cui era legato per affari, e venne condannato all’ergastolo. In realtà si era trovato a fare le spese del logorarsi dei rapporti tra il Magnifico e Ferrante d’Aragona, precipitati con la congiura. Venne imprigionato nel carcere delle Stinche e – benché molti amici e parenti (i figli Marco e Ginevra, Luigi Pulci, Roberto Sanseverino, probabilmente anche Benedetto Dei) chiedessero al Magnifico di intercedere per lui – fu liberato solo nel 1480, in seguito alla conclusione della pace con Ferrante d’Aragona (Tripodi, 2018, p. 125). La condanna venne commutata in esilio perpetuo, e, poco dopo, anche il confino gli fu condonato.
Ormai privo di prospettive a Firenze, Piero prese la via di Milano, in una sorta di esilio volontario e, raggiunti i domini di Sanseverino, prese servizio come capitano a Lugano tra la fine del 1480 e l’inizio del 1481. Nell’autunno del 1481, al culmine del suo soggiorno luganese, iniziò il progressivo deteriorarsi dell’amicizia con Pulci. Di lì a poco anche la sua posizione professionale finì per precipitare: agli inizi del 1482 fu sottoposto a sindacato da parte della comunità della Val di Lugano e condannato per appropriazione indebita di denari pubblici e abuso di potere. Costretto a lasciare Lugano, dopo aver soggiornato in varie città ottenne, alla fine del 1484, l’incarico di commissario di Alessandria e Tortona.
Fu ad Alessandria che la sua vita rocambolesca giunse a un tragico epilogo. Nel culmine delle lotte tra fazioni locali, Piero, già sotto accusa per abusi di giurisdizione, finì vittima della ritorsione ghibellina; catturato, venne barbaramente impiccato il 12 maggio 1485.
Suo cugino Guidantonio (1436), primogenito di Giovanni di Simone e Antonia Ugolini, fu nipote del Simone fondatore dell’ospedale d’Ognissanti. A metà degli anni Sessanta sposò Taddea di Simone Canigiani, che però morì pochi anni dopo; già nel 1469 Guidantonio figurava risposato con Maria di Alessandro Del Vigna, di quasi vent’anni più giovane. Studiò diritto canonico a Bologna e si laureò in civile a Ferrara nel 1462; si distinse presto per le doti di giureconsulto e per le capacità diplomatiche.
Nonostante un avvio poco promettente (alla prima estrazione all’esecutivo nel 1458 era ancora minore, e due anni dopo si trovò ‘a specchio’, ovvero tra i cittadini fiscalmente insolventi), fu l’esponente della casata più pienamente inserito nella classe dirigente laurenziana.
Iscritto all’arte della seta, per la quale ricoprì almeno sei volte cariche ufficiali negli anni tra il 1465 e il 1492, fu priore nel 1473 e 1491, e gonfaloniere di Giustizia nel 1487. Rivestì inoltre numerosi incarichi amministrativi, soprattutto ruoli di sindacato e consultivi, esercitati nei rari momenti in cui si trovò a Firenze, tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Novanta. Ma ciò che più contraddistinse la sua esperienza professionale fu l’incessante attività diplomatica svolta dalla fine degli anni Settanta.
Nel luglio del 1478 (proprio quando il cugino Piero si trovava in carcere per sospetta connivenza con la congiura dei Pazzi), Guidantonio venne inviato dalla Repubblica a Roma per avviare trattative con il papa Sisto IV in riparazione degli effetti della congiura. Al suo ritorno ebbe un nuovo incarico diplomatico in Francia, in sostituzione di Donato Acciaiuoli morto in viaggio (nell’occasione Guidantonio condusse con sé il giovane nipote Amerigo in veste di segretario). Rimase in Francia per quasi un anno e mezzo, e al suo ritorno fu di nuovo inviato ambasciatore presso il pontefice, finendo per divenire il protagonista della graduale ripresa delle relazioni della Repubblica con Roma. Una terza missione romana si protrasse dal febbraio al maggio del 1482, dopodiché quando, nella primavera del 1483, tornò a Roma come rappresentante di Firenze, rimase presso la Curia pontificia sino alla fine del 1485.
A tale periodo risalgono la concessione della badia di Passignano a Giovanni de’ Medici (figlio del Magnifico e futuro papa Leone X), la fase finale del pontificato di Sisto IV e l’elezione del suo successore, Innocenzo VIII (il genovese Giovanni Battista Cybo).
Anche quando, nel 1486, Guidantonio venne sostituito da Pier Filippo Pandolfini come ambasciatore residente presso il papa, la sua collaborazione con il Magnifico e con Firenze non si interruppe: nella seconda metà degli anni Ottanta fu gonfaloniere di Giustizia e, qualche anno dopo, priore.
Le conseguenze della morte del Magnifico nel 1492 (avvenuta mentre Guidantonio era in carica a Poppi, nel Casentino, come ufficiale della Repubblica) e l’ascesa del figlio Piero de’ Medici, gli imposero un massiccio ritorno all’attività diplomatica. Dopo la scomparsa del Magnifico, infatti, come altri suoi concittadini Guidantonio cominciò a distanziarsi dall’erede Piero, il cui governo non era privo di tratti dispotici. Egli fu così associato dagli storici del tempo a quegli oligarchi – come Bernardo Rucellai (che del Magnifico era il cognato), Paolantonio (o Paolo Antonio) Soderini, Tanai de’ Nerli – che si schierarono con Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco, appartenenti al ramo dei Medici (detto ‘dei Popolani’) alla guida dell’opposizione.
Con Domenico Bonsi, Guidantonio lavorò all’estensione delle 27 clausole della conventio tra Firenze e il re di Francia Carlo VIII, che Piero Capponi e Francesco Valori avrebbero sottoscritto come sindaci e procuratori della Signoria. Nell’aprile del 1494 fu (appunto con Capponi) ‘oratore’ (ambasciatore residente) nel Ducato di Milano e poi ambasciatore presso Carlo VIII, la cui discesa in Italia (dal settembre del 1494) coincise con una nuova fase della vita politica di Guidantonio.
Dopo essere stato per un anno tra gli accoppiatori – ufficiali incaricati di eleggere la signoria a mano (e non per sorteggio) –, nello stesso 1494 fu podestà di Castel San Gimignano e, all’entrata di Carlo VIII a Napoli (febbraio del 1495), fu di nuovo inviato presso di lui come rappresentante della Repubblica. Al termine di una missione ad Asti, Guidantonio venne fermato ad Alessandria, su ordine del duca di Milano Ludovico Sforza, detto il Moro, e portato in stato di arresto a Milano; da questa prigionia poté sottrarsi solo grazie all’intervento di Carlo VIII. Tornato a Firenze, nel 1498 ebbe di nuovo incarichi diplomatici, prima a Milano (maggio) e poi a Venezia (agosto-ottobre, insieme a Bernardo Rucellai). Nel 1498, in pieno governo repubblicano, fu per la seconda volta gonfaloniere di Giustizia.
Morì di lì a poco, dopo la primavera del 1501: in dicembre il figlio Giovanni, sposato a Nanna di Bernardo dei Nerli, ne accettò l’eredità.
Nella seconda metà del Quattrocento le fortune politiche dei tre principali nuclei dei Vespucci di città si erano dunque rivelate molto disuguali. Il ramo di Giuliano di Lapo si era estinto nella tragica sorte del figlio Piero. Il ramo politicamente più fortunato era stato quello dei figli di Giovanni (Guidantonio, soprattutto); nel ramo infine dei figli di Piero di Simone, solo Bernardo di Piero ebbe un modesto accesso alla vita politica in età laurenziana, ma una discendenza numerosa grazie a cui perpetuare il proprio asse familiare.
Il ramo da cui discese Amerigo, detto il Navigatore (v. la voce in questo Dizionario), era invece uno di quelli ancora molto ‘periferici’ agli inizi del Quattrocento. Il nonno (e omonimo) del Navigatore, ser Amerigo (1394-1471), era figlio di un certo Stagio (o Nastagio, entrambi diminutivi di Anastagio, versione toscana del nome Anastasio). Nel 1427 risultava ancora accatastato a Peretola, con il fratello Giovanni; solo nel 1435 acquistò a Firenze la citata casa nel ‘popolo’ di S. Lucia d’Ognissanti. Dalla moglie, Nanna di Piero degli Onesti da Pescia, Amerigo di Stagio ebbe almeno sette figli: Nastagio (1426/1427), Bartolomeo (1429), Giorgio Antonio (v. la voce in questo Dizionario), Jacopo (1440) e tre figlie femmine. Il primogenito, ser Nastagio, si specializzò, come il padre, nella professione notarile, mentre i fratelli minori presero altre vie: Bartolomeo si diede all’attività mercantile; Giorgio Antonio, invece, portato per gli studi umanistici, seguì la vocazione ecclesiastica, divenendo canonico del duomo e poi frate domenicano. Dall’unione di Nastagio con Elisabetta (detta Lisabetta o Lisa) – figlia del notaio Giovanni Mini, proveniente da Montevarchi – nacquero Antonio, Girolamo, Amerigo, Bernardo e Agnoletta. Alla morte di Nastagio, anteriore al 15 ottobre 1483, il primogenito Antonio – notaio come il padre e i due nonni – era il solo ad avere un’occupazione regolare a Firenze; Girolamo – in precedenza impiegato presso l’arte della lana – si trovava a Rodi come frate gerosolimitano; Bernardo – anch’egli iscritto all’Arte – era mercante in Ungheria; mentre Amerigo – la cui educazione era stata affidata allo zio umanista Giorgio Antonio e alle cure di Guidantonio – era al servizio di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (Luzzana Caraci, 2007, p. 54).
Fonti e Bibl.: Florentine Renaissance resources: online tratte of office holders 1282-1532, a cura di D. Herlihy - R. Burr Litchfield - A. Molho - R. Barducci (http://cds.library.brown. edu/); Archivio di Stato di Firenze, ASF, Manoscritti, 542; Mediceo avanti il Principato, ad ind.; Tratte, Uffici estrinseci, 984-986; Tratte, Uffici intrinseci, 900-905; Signori, Legazioni e Commissarie, Missive, Istruzioni e lettere a oratori, 9, cc. 86v ss., e 10, cc. 154 ss.
M.E. Mallett, The Florentine galleys in the fifteenth century with the diary of Luca di Maso degli Albizzi captain of the galleys 1429-1430, Oxford 1967, ad ind.; L. Martines, Lawyers and statecraft in Renaissance Florence, Princeton (N.J.) 1968, ad ind.; Benedetto Dei. La cronica dall’anno 1400 all’anno 1500, a cura di R. Barducci, Firenze 1984, ad ind.; Amerigo Vespucci: la vita e i viaggi, a cura di L. Formisano et al., Firenze 1991; I. Luzzana Caraci, «Per lasciare di me qualche fama». Vita e viaggi di Amerigo Vespucci, Roma 2007; F. Guidi Bruscoli, Mercanti-banchieri fiorentini tra Londra e Bruges nel XV secolo, in “Mercatura è arte”. Uomini d’affari toscani in Europa e nel Mediterraneo tardomedievale, a cura di L. Tanzini - S. Tognetti, Roma 2012, pp. 11-44; C. Tripodi, Prima di Amerigo. I V. da Peretola a Firenze alle Americhe, Roma 2018.