VESTA (Vesta)
Divinità romana del focolare domestico.
Il significato del vocabolo greco corrispondente (ἑστὶα = fuoco) e l'identità del culto indussero gli antichi a ricercare anche un rapporto etimologico con la Hestìa (v.) greca (Vestae nomen a Graecis; ea est enim quae ab illis ἑστία dicitur, Cic., De nat. deor., ii, 67). Tuttavia il culto di V., profondamente radicato nello stato romano, presenta caratteristiche originali che ne farebbero escludere l'introduzione dal mondo ellenico, sia pure mediata attraverso le colonie dell'Italia meridionale. Due aspetti, in particolare, sono da rilevare: l'arcaicità del suo culto (ora provata anche archeologicamente dalla scoperta del pozzo del VII sec. a. C. entro il tèmenos del tempio di V. al Foro Romano) e delle cerimonie - le Vestalia ad esso connesse; l'assenza di un tipo iconografico originale, aspetto, questo, in cui taluni autori hanno ritenuto di poter individuare un elemento rivelatore delle origini indogermaniche di V. (culto aniconico del fuoco presso i popoli germanici). Il culto del focolare, comune presso i popoli primitivi, è nato dalla necessità di mantenere permanentemente attivo almeno un braciere, cui la comunità potesse ricorrere in caso di necessità, nei villaggi di pastori ed agricoltori che per cause di lavoro e di sostentamento si allontanavano dalle abitazioni: è naturale che ciò avesse un'importanza eccezionale nella Roma primitiva e che un gruppo di donne, non distratte da altri doveri familiari, fosse dedito unicamente a mantenere perennemente acceso il focolare comune. Gli aspetti del culto di V. sono perciò tipicamente femminili; invocata come Vesta mater, essa rappresenta la donna nell'ambito della famiglia romana e già nel vecchio culto latino è collegata ai Penati familiari. Tuttavia ancor maggiore importanza ha V. nel culto statale: i magistrati romani all'inizio ed al termine della loro carica si recano a Lavinio a sacrificare a V. ed ai Penati, i quali vi erano giunti da Troia con il Palladio (Dion. Halic., Ant., i, 67, 4) e costituivano i sacra principia, le memorie più antiche e venerate dello stato. Anche se non vi sono elementi sostanziali a sostegno della tradizione varroniana (De Lingua Lat., v, 74) circa l'origine sabina di V. - il cui culto sarebbe stato introdotto dal re sabino Numa - essa è radicata nei più vetusti centri cultuali del Lazio: ad Alba Longa un collegio di sacerdotesse - le virgines vestales arcis Albanae alimentò per secoli il suo culto, e lo stesso avvenne a Tivoli, ad Ariccia (dove V. è associata a Diana Nemorense: C.I.L., xiv, 2213; Serv., ad Aen., ix, 406), a Lanuvio dove, come a Carsoli, è stato rinvenuto vasellame con dediche a V. (Vestai pocolom). Nonostante la sua posizione nell'olimpo romano ed il particolare carattere di culto domestico collegato con quello dei Penati, le testimonianze della venerazione privata sono piuttosto scarse anche in quei luoghi dove - come a Pompei - più frequenti ritornano le rappresentazioni di Lari e di genî familiari.
A Roma la sede ufficiale del culto era l'antichissima aedes Vestae nel Foro, con vasto fabbricato annesso destinato ad abitazione delle sacerdotesse; nel tempio rotondo ardeva soltanto il fuoco perenne la cui vista era preclusa a tutti salvo nel periodo delle Vestalia (dal 7 al 15 giugno) in cui era accessibile alle sole donne (V. aperit): in tale occasione l'edificio era purificato con acqua sorgiva e venivano ornate con corone la macina - con cui si otteneva la farina per la mola salsa, la speciale focaccia preparata dalle Vestali - ed il somaro, che con il suo raglio aveva salvato la dea dalle insidie di Priapo (Ovid., Fasti; vi, 331 ss.). Il 9 giugno era sacro a V., giorno festeggiato anche dai fornai di cui era patrona; delle Vestalia rimangono rappresentazioni in pitture pompeiane (cosiddette dei Vettii). Il culto di V. fu, con quello dei Penati, uno dei più tenaci e resistette a lungo anche dopo la totale sconfitta del paganesimo.
Attendevano al culto della dea le sei sacerdotes vestales il cui compito precipuo era la cura dell'ignis perpetuus del tempio. La consacrazione (captio) delle fanciulle, scelte fra il sesto ed il decimo anno di età, era fatta dal pontefice massimo con una formula speciale (Fabio Pittore, Pr. Gellio, i, 12, 14). Legata da simboliche nozze al pontefice, che abitava nella Regia accanto al tempio di V., la vestale portava indumenti speciali, come il bianco velo (suffibulum) che le copriva anche le spalle. ed era simile al vermiglio velo della sposa, ed una specie di diadema di lana diviso in sei cordoni (infula) che le cingeva il capo; nel corso della captio la chioma le veniva recisa ed appesa ad un albero di ‛‛loto'' (giuggiolo). Essa doveva avere i genitori viventi e di condizione libera, ed essere esente da imperfezioni fisiche. Prestava servizio per trenta anni e doveva osservare la castità; allo scadere del trentennio avveniva la exauguratio e la vestale dimessa dal culto poteva anche contrarre matrimonio. Non è sicura la divisione in decenni nell'ordinamento del sacerdozio, tuttavia le più giovani costituivano le apprendiste mentre alle tre più anziane (tres maximae) erano affidati speciali compiti e la più rispettabile per età e per onori era la virgo vestalis maxima. La vestale godeva di una posizione privilegiata nello stato, prendeva parte alle principali cerimonie del culto ufficiale accanto al pontefice massimo ed era onorata anche dalle supreme magistrature; ma se incorreva in qualche negligenza era severamente punita e se veniva meno al voto di castità era sepolta viva nel campus sceleratus (presso Porta Collina). Nel peristilio della Casa delle Vestali, al Foro Romano, si conservano basi con iscrizioni e statue-ritratto di alcune Vestali.
Di V. non è nota alcuna rappresentazione anteriore al periodo imperiale: non abbiamo, infatti, elementi per poter risalire ad un tipo statuario dalla testa velata di V. che è effigiata nelle monete di Q. Cassio Longino (6o a. C.). La mancanza, almeno per il periodo repubblicano, di una statua di culto ufficiale sembrerebbe confermata dalla tradizione letteraria (Ovid., Fasti, vi, 289 ss.); che, d'altra parte, esistesse già in quel periodo una rappresentazione figurata della dea all'esterno del suo tempio nel Foro si è indotti a crederlo dalle affermazioni di Cicerone (De orat., iii, 3, 10; De nat. deor., iii, 32, 80) il quale riferisce come il pontefice massimo Q. Muzio Scevola venisse ucciso ante simulacrum Vestae. Ma anche per l'età imperiale il tipo iconico ufficiale rimane indeterminato: pare che un tipo statuario affine alla Hestia greca rappresentasse V. stante, in aspetto matronale, indossante un lungo chitone ed un mantello che le copriva anche il capo, in atto di libare sul fuoco acceso al suo fianco (statua di Xanten con dedica deae Vestae: Bonner Jahrb., cx, 1903, p. 76, tav. v, 9). Più chiaramente definito è il tipo riprodotto sui rilievi, in pittura e sulle monete, tipo che è documentato dall'inizio dell'età imperiale ed il cui diffondersi è forse da porre in relazione con l'arrivo a Roma da Paro, in epoca tiberiana, della statua di Hestia opera di Skopas (Plin., Nat. hist., xxxvi, 25): V. assiste seduta in trono, con il capo velato, al sacrificio che si svolge in suo onore nel recinto del tempio; essa tiene lo scettro nella sinistra e la patera sacrificale nella destra. È questa la rappresentazione che appare sulla base di Sorrento e che, secondo G. E. Rizzo, riprodurrebbe la statua ufficiale di culto posta da Augusto nella sua dimora palatina; è ripetuta, con poche varianti, nei rilievi del Museo Nazionale di Palermo e di Villa Albani (meno sicura l'identificazione con V. della figura seduta di un altro rilievo, noto soltanto da un disegno dell'Anonimo Destailleur); isolata dalle scene di culto ritorna identica - con la sola variante del Palladio al posto della patera nella mano destra - sui tipi monetali del I e II sec. d. C. e denota l'esistenza di un tipo iconico ufficiale ormai fissato dall'inizio dell'età imperiale, ma di cui non è stato ancora rintracciato l'archetipo. E ancora la stessa rappresentazione di V. come dea matronale velata e seduta che ritorna isolata su altri rilievi, spesso indicata da dediche oltre che dagli attributi (asino, focaccia, spighe, ecc.): rilievo di Wilton House (dagli Orti Mattei di Roma), ara del Museo Nazionale di Napoli. Su quest'ultimo monumento è rappresentata, con identico schema, anche la Bona dea; né è questo l'unico esempio di comunanza di culto fra le due divinità particolarmente venerate nell'ambiente femminile, anzi in età ciceroniana è ricordata la vestale Licinia che dedicò una edicola alla Bona dea (Cic., De domo, 136). Nel già ricordato rilievo di Wilton House, V. è rappresentata con la cornucopia nella sinistra in luogo dello scettro mentre un serpente si abbevera alla coppa che tiene nella destra; è questo il tipo della Bona dea, ed è facile quindi rilevare la difficoltà di identificazione quando manchi la dedica. La cornucopia è anche, con il rhytòn, il simbolo degli altri genî familiari - i Lari - la cui personalità si confonde con quella dei compagni di V., i Penati; ed ecco che V. è rappresentata affiancata dai Lari in varie pitture pompeiane, generalmente in ambienti destinati alla lavorazione del pane. In un quadro, notevole per l'esecuzione, rinvenuto nel pistrinum di una casa e pubblicato dal Jordan, V. è assisa in trono, tiene la cornucopia nella sinistra e la patera nella destra sopra una tavola sacra; dietro al trono è rappresentato l'avancorpo di un somaro, ai fianchi le stanno i Lari con il rhytòn e la situla. In alcune altre rappresentazioni della stessa classe, V., sempre associata ai Lari e caratterizzata dalla presenza del somaro, reca attributi diversi (scettro in luogo della cornucopia, spighe, corona di fiori). La presenza di V. nel consesso degli dèi maggiori (pittura dei Dodici Dèi a Pompei, dove è raffigurata con il fedele somaro al fianco, scettro nella sinistra e patera nella destra), od il suo frequente abbinamento con l'una o l'altra divinità (Vulcano, Venere, Bacco, ecc.) ne dimostrano la popolarità e la diffusione nel culto pubblico, sebbene sia di preferenza venerata nell'ambito della famiglia in stretta unione con i Lari. Il Bulard, riprendendo in esame testi classici che ricordano una rappresentazione aniconica di V. in forma di pila (Festo, p. 263, M), è stato indotto a riconoscere il simbolo di V. nell'omphalòs raffigurato su alcune pitture parietali di Delo; l'omphalòs, cui s'attorciglia il serpente apotropaico, è anche il simbolo frequentemente associato ai Lari e ad altre divinità nella pittura campana. Ma pur senza impegnarsi in troppo elaborate interpretazioni, la non ben definita iconografia di V. lascia aperta la possibilità di riconoscere la dea del focolare nella figura femminile che - variamente interpretata - sovente accompagna quelle dei Lari.
Bibl.: H. Jordan, Vesta u. die Laren auf einem pompeian. Wandgem., in 25. Winckelmannspr., Berlino 1865; E. Samter, in Röm. Mitt., IX, 1894, p. 352 ss., tav. VI (rilievi di Palermo e di Villa Albani); C. Pascal, in Not. Sc., 1895, p. 44 ss.; M. Bulard, in Bibl. Ath. Rome, CXXXI, 1926, p. 278 ss. (culto di V. a Delo); G. E. Rizzo, La base di Augusto, in Bull. Comun., LX, 1932, p. 7 ss.; A. Greifenhagen, in Röm. Mitt., LII, 1937, p. 233 (rilievo di Wilton House, ara del Museo Naz. di Napoli); G. Wissowa, in Roscher, VI, 1937, c. 241 ss., s. v.; A. Cederna, in Not. Sc., 1951, p. 213 s. (vasi di Lanuvio e di Carsoli); P. Hommel, Studien z. röm. Figurengiebeln d. Kaiserzeit, Berlino 1954, p. 19 ss.; C. Koch, in Pauly-Wissowa, VIII A, 1958, c. 1717 ss., s. v.; A. Bartoli, in Mon. Lincei, XLV, 1959, c. 19 ss. (pozzo arcaico di V.).