Vedi VETRO dell'anno: 1966 - 1973 - 1997
VETRO (vitrum)
Sommario. 1. Il v. come sostanza. 2. Industria del v. nell'antichità. 3. Sviluppo delle officine: a) v. a sabbia; b) v. alessandrino a stampo, levigato e a ruota; c) v. soffiato e a matrice. 4. Tecniche decorative: a) fusione a stampo; b) lavorazione a caldo; c) appliques; d) taglio e incisione; e) pittura; f) v. dorato. 5. Oggetti di vetro. - Bibliografia.
1. - Il v. come sostanza. Il v. si ottiene da un amalgama di ingredienti riscaldati in una fornace. La maggior parte del v. antico è della varietà "calce di soda" e consiste del 60-70 per cento di biossido di silicio (quarzo), 14-20 per cento di soda, 5-10 per cento di calce e piccole quantità di varî ossidi di metallo, o presenti accidentalmente o usati come agenti coloranti.
Nell'antichità la potassa fu usata raramente al posto della soda, se mai fu usata; ma il suo uso divenne normale nell'Europa occidentale durante il Medio Evo (Harden, Singer, Turner). Il v. di cristallo di piombo è un'invenzione comparativamente recente, ma qualche v. antico (specie quelli rosso opaco) contiene molto piombo. Il v. antico, quando è rinvenuto oggi, è spesso, anche se non sempre, più o meno iridescente o macchiato, o coperto da una ingubbiatura biancastra, lattiginosa o simile a smalto. Questo è dovuto all'esposizione a acqua, sole, acidi e altri agenti esterni. A volte, il v. presenta screpolature all'interno o venature in superficie, causate da una difettosa tempera (il processo con il quale il v. era raffreddato dopo la manifattura) o da scorretta composizione dell'amalgama.
2. - Industria del v. nell'antichità. Non esiste ancora alcuna trattazione generale aggiornata sulla storia del v. nell'antichità. I riferimenti dati nella bibliografia daranno il più utile resoconto che si possa reperire, ma va tenuto presente che il testo di Eisen è pieno di improprietà e comprende, nelle illustrazioni, v. non antichi. (Si veda anche vitrarius).
Negli antichi scrittori (principalmente greci e romani) si trovano frequenti notizie intorno al v., alla sua storia ed ai suoi usi, ma esposte in maniera spesso confusa e contraddittoria; generalmente si tratta di soli accenni. Non sappiamo quando, dove e da chi il v. sia stato per la prima volta fabbricato. Esso, dal punto di vista chimico, è come la pasta vitrea, l'uso della quale risale al tempo della cultura preistorica Badaria (V millennio a. C.) in Egitto, e probabilmente a una simile data, in Mesopotamia (Lucas, Beck). In un primo tempo una ingubbiatura vetrosa fu usata per ricoprire varie specie di pietre, di preferenza quarzo e steatite, o un'anima di quarzo in polvere, cioè quella che noi chiamiamo ceramica invetriata o faïence egizia. Questa invetriatura che era alcalina (un composto di calce di soda), non era adatta a coprire la ceramica della cui brillante lucentezza, ottenuta con una invetriatura di piombo, non si sente parlare prima del XVII sec. a. C., quando una tavoletta cuneiforme da Tell Omar sul Tigri dà una ricetta mesopotanica per il processo (Gadd-Thompson, Moore). Gli esemplari che ci restano, di epoca assira e neobabilonese, mostrano che questa primitiva invetriatura piombifera non aderiva bene alla sua base ceramica e solo in tarda età ellenistica l'invetriatura piombifera venne usata con successo per la ceramica. (La cosiddetta invetriatura sui vasi greci e sulla terra sigillata romana non è vetrosa, ed è meglio indicata come vernice lucida, cfr. terra sigillata).
L'uso di una sostanza vitrea non aderente ad una base, cioè, il v. vero e proprio, cominciò per quanto ne sappiamo finora, durante il III millennio a. C. sia in Egitto che in Mesopotamia, per scarabei ed altri oggetti minuscoli. Recipienti di v. non si trovano fino a 1000 anni più tardi, circa il 1500 a. C., sotto forma di piccole coppe e balsamarî ottenuti modellando il v. allo stato vischioso su un'anima di sabbia, che poi veniva eliminata. Essi sono usualmente decorati con solchi di altri colori spesso disposti a festoni e zig-zag. La maggior parte dei recipienti di v. prima del 100 a. C. era ottenuta così; ma dal tardo secondo millennio a. C. in giù recipienti e grandi oggetti erano talvolta tagliati a freddo ed estratti da un solido blocco di v. come i recipienti di pietra, o fusi o pressati in una matrice. Il passo successivo nella tecnica vetraria fu la scoperta che il v. nel suo stadio vischioso poteva essere lavorato soffiandovi sopra. Questo fatto costituì una vera rivoluzione nell'industria del v. e la cambiò da un commercio di lusso a una produzione di massa. Questa nuova tecnica probabilmente fu attuata in Fenicia verso la fine del I sec. a. C. In ogni modo è lì che visse il primo vetraio di cui conosciamo il nome, Ennion, che fece e firmò quelli che possono essere considerati i più antichi v. soffiati, databili all'inizio e alla metà del I sec. d. C. La data di inizio di questa nuova tecnica è abbastanza sicura. Nessun v. soffiato è noto in rinvenimenti datati prima dell'èra cristiana, ma subito dopo i v. cominciano a trovarsi in grandi quantità.
Il nuovo processo si diffuse rapidamente in regioni, come per esempio l'Italia, dove la creazione di recipienti di v. con metodi antichi era già praticata, o come la Gallia, dove la lavorazione del v. se pur nota, era riservata alla fabbricazione di scarabei ed altri piccoli oggetti. Al tempo di Claudio, se non prima, sembra che Ennion abbia aperto una fabbrica nell'Italia settentrionale e non v'è dubbio che la lavorazione del v. soffiato fosse ivi praticata prima della metà del secolo, come sappiamo dai ritrovamenti di Locarno (Simonett) e di varie località della valle del Po e delle coste settentrionali dell'Adriatico. La quantità di paste vitree di mosaico e di altre belle suppellettili a stampo rinvenute, suggerisce che essa era praticata anche al sud (forse in Campania), come pure in Egitto.
Fu all'incirca in questa stessa epoca che la soffiatura del v. deve essersi diffusa in Gallia e nelle altre province occidentali, perché le origini di una fabbrica a Colonia, che durò per tutto il I sec., poterono essere datate, in base a dati stratigrafici, al regno di Augusto e se l'industria del v. soffiato raggiunse Colonia così presto, essa deve sicuramente essersi stabilita anche altrove in Occidente.
Poi, durante il periodo imperiale l'industria si sviluppò ovunque lungo direttrici parallele. I segreti di fabbricazione erano gelosamente custoditi e le vetrerie occidentali mantennero sempre uno stretto contatto con quelle dell'Oriente di dove pare che spesso siano stati reclutati operai. Nuove forme e tecniche, sviluppate in un posto, si diffusero rapidamente altrove. Si notano alcune differenze di stile per soddisfare i gusti del mercato locale; ma in generale possiamo trattare lo sviluppo del v. romano dal I fino al V sec. come un tutto omogeneo.
La caduta dell'Impero d'Occidente causò una frattura: le vetrerie occidentali furono lasciate a se stesse, così che le forme e le tecniche in Oriente ed in Occidente si differenziano grandemente durante la seconda metà del I millennio d. C. Un riavvicinamento ebbe luogo al tempo delle crociate, quando operai orientali mossero nuovamente verso Occidente, ma la completa unità dei tempi romani non fu più raggiunta.
3. - Lo sviluppo delle officine. A causa della serrata organizzazione industriale, lo sviluppo dei tipi, di fabbriche e rifiniture delle vetrerie possono essere discussi come un solo processo storico senza dare speciale attenzione, eccetto che occasionalmente, ad aree geografiche. È invero spesso molto difficile distinguere i prodotti dei diversi paesi e ci sono discussioni, a volte, fra gli studiosi sui luoghi di produzione, discussioni che non si possono risolvere fino a che un più profondo studio della distribuzione dei motivi non sia stato intrapreso.
a) V. ad anima di sabbia e altre tecniche preromane (v. tav. a colori a p. 1150). Luoghi di lavorazione per v. con anima a sabbia del XVIII sec. a. C. sono stati rinvenuti a el-᾿Amārnah ed altrove in Egitto. Tali v. erano fatti in Mesopotamia dove i tipi differiscono da quelli dell'Egitto e forse in Fenicia (luogo di nascita tradizionale del v.) perché anche lì (come nella vicina Cipro) si trovano alcune forme che non sembrano essere proprie all'Egitto (per esempio bottiglia a forma di melograno). La produzione di v. ad anima di sabbia sembra che abbia avuto una sosta verso il 1100 a. C., ma difficilmente essa può essere finita, perché l'anima di sabbia riappare in considerevole quantità in tutte queste regioni dal VII sec. a. C. in poi. Ma le forme ora erano greche (alàbastra, oinochòai, anphorìskoi, arỳballoi) e queste si trovano in progressione fino al I sec. a. C. in tutta l'area mediterranea e del Vicino Oriente. La produzione doveva avvenire nei varî centri, per la maggior parte forse in Fenicia e probabilinente anche a Rodi. Non è difficile riconoscere e differenziare queste forme di v. a sabbia del I millennio da quelle del millennio precedente che si adeguano alle forme contemporanee dei recipienti di pietra e ceramica. Anche la decorazione aiuta, perché, anche se il sistema delle strisce policrome non cambia, i colori sia delle strisce che dei recipienti variavano da secolo a secolo. Tutti questi oggetti dovevano senza dubbio contenere cosmetici e unguenti e la loro diffusione nel mondo civile fu dovuta anche al loro contenuto oltre che al loro valore intrinseco.
Data la rarità degli esemplari non è facile a definirsi la distribuzione e la tipologia dei v. tagliati e affilati, o fusi o a stampo di questo periodo. Uno dei pezzi più antichi tagliati a freddo è la bella testa in v. blu di Tutankhamon (XIV sec. a. C.) ed il più importante gruppo di v. oggi riconosciuto in questa tecnica è il gruppo verdemare dell'VIII sec. a. C. che include l'alàbastron di Nimrud con il nome di Sargon II (fine dell'VIII sec. a. C.) a caratteri cuneiformi, sul quale i segni a spirale dell'arnese col quale la massa di v. è stata scavata sono visibili nella parte interna; un'anfora fenicia del VII sec. rinvenuta con il tesoro d'oro di Aliseda in Spagna ed il bell'anphorìskos del VI sec. al museo di Bologna. Questo verde-mare era anche usato per scarabei sferici e per motivi decorativi in v. recentemente rinvenuti a Olimpia (vedi sotto). Dei v. fusi o a stampo da matrici, uno degli esempi più antichi è probabilmente (Fossing) la coppa blu frammentaria da Kakovatos nel Peloponneso (XIV o XIII sec. a. C.). Questo pezzo può benissimo essere stato lavorato in Grecia (anche se con materiale importato) poiché scarabei e pendenti di simile v. scuro furono certamente fatti in Grecia ed a Creta nei tempi micenei (Haevernick).
Le coppe modellate divennero più comuni nel I millennio a. C., e ne abbiamo esemplari da Gordion, Nimrud, Fortetza-Cnosso e nella Tomba Bernardini a Preneste, tutte datate nel VII sec. a. C. Qualcuna di queste coppe, compresa quella di Gordion, sono di v. senza colore, sicché è chiaro che anche in questa età antica i fabbricanti conoscevano l'uso di agenti decoloranti.
Alcune inusuali coppe manicate del V sec. a. C. rinvenute a Hallstatt e a S. Lucia di Tolmino sulla costa settentrionale dell'Adriatico, possono essere solo alla lontana, seppure, derivate da tipi orientali. Esse sono fuse in matrici, con ogni probabilità, ma con dettagli decorativi aggiunti dopo e devono essere stati fatti in qualche località della penisola italiana, forse nella regione di Aquileia, perché niente di simile si trova altrove. Ciò non è ora così sorprendente come poteva sembrare in un primo tempo, perché ci sono anche altri tipi di v., che possono essere attribuiti a fabbriche italiche dell'VIII sec. e, in special modo una serie di brocchette blu o brune ad anima di sabbia, con decorazione a puntini e molti scarabei e spille da tombe italiche (Haevernick, 1959, 1961).
b) Vasi alessandrini a stampo, tagliati e levigati a ruota. Anche se poi durò per un altro secolo o più, la tecnica ad anima di sabbia giunse al declino verso il III sec. a. C., quando il modellare, il tagliare ed il polire divennero i metodi prevalenti per fare e rifinire i vetri. Questi processi erano superiori al metodo dell'anima di sabbia in quanto permettevano di ottenere recipienti più grandi ed anche una maggiore varietà di forme, specialmente tazze aperte e brocche e divennero tosto la specialità dell'industria alessandrina tardo-ellenistica e della sua area di diffusione negli altri centri mediterranei. Solo qualcuno di questi v. è stato rinvenuto in Egitto, ma altre località tardo-ellenistiche hanno restituito molti pezzi completi e frammentarî, alcuni lisci altri decorati con rughe lineari, nodi a rilievo, foglie a intaglio o a rilievo ed altri motivi. Un esempio particolarmente bello del II-I sec. a. C. è una tazza verde-mare ad Atene, proveniente dalla nave naufragata presso Anticitera; numerosi frammenti si rinvennero a Corinto e nell'agorà di Atene. Vi è anche una serie di pissidi verdi o brune da Creta ed altre località dell'Egeo, probabilmente del III e II sec. a. C., che può essere stata eseguita a Creta. Molta di questa produzione tuttavia è incolore, come i pezzi di Gordion ed altri più antichi, e crea un collegamento fra questi e i fini cristalli romani acromi di Alessandria, di Colonia, ecc.
Nel I sec. a. C., v. a mosaico e v. a millefiori vennero aggiunti al repertorio alessandrino. Di poi questi ed i vasi monocromi tutti a stampo e politi a ruota, divennero il v. di moda in moltissime località mediterranee, passando poi anche in località occidentali nel I sec. d. C. Per la maggior parte questi pezzi sono alessandrini e siriani, ma devono essere stati fabbricati anche altrove, specie in Italia, poiché molti se ne trovano in località anche a N della valle del Reno e nella Britannia, in strati del I secolo. La loro forma deriva da prototipi metallici e si trova spesso anche nella ceramica. Una varietà particolarmente diffusa è la cosiddetta "tazza a pilastro" con pesanti costoloni verticali. In Occidente le costole sono spesso più lunghe e più spaziate che in Oriente, dove invece sono spesso molto accorciate (a volte poco più che un semplice nodo) e poste lontano l'una dall'altra. La manifattura di tutti questi tipi finì subito dopo la metà del I sec. e solo pochi esempî si trovano in contesti del II sec., depostivi, senza alcun dubbio, molto tempo dopo che erano stati fabbricati.
c) V. soffiati e a matrice. Innumerevoli migliaia di v. soffiati e insieme soffiati e modellati furono fabbricati dal I sec. d. C. in poi e la quantità complessiva dei pezzi che ci restano deve essere più di 100.000, (senza contare il gran numero di frammenti); alcuni appartengono alle più remote località, all'interno ed all'esterno dei confini dell'Impero. Recenti scoperte nel Sahara, nell'Afghanistan (v. Begram) e in India mostrano quanto fosse esteso il commercio di questi v. e il numero di essi che raggiunse la Scandinavia ed altre località settentrionali d'Europa, durante circa cinque secoli, mostra quanto costante deve essere stato questo commercio (v. romana, arte, c. xi).
Le forme comprendono la serie completa di ogni possibile tipo di recipienti, dalle tazze aperte, piatti e coppe, alle anfore dalla bocca ristretta, fiaschette, brocche e unguentarî. Erano usati come servizi da tavola, ed anche come recipienti per vino, medicine, unguenti che dovevano percorrere grandi distanze. Alcune varietà erano destinate a usi speciali, come fiasche per olio (per il bagno), urne cinerarie (v. vol. vi, pag. 648), lampade, ecc.; ve ne sono altri che avevano più scopo ornamentale che utilitario. Tecnicamente si possono distinguere tre principali varietà: la prima, e la più comune e senza dubbio la più a buon mercato, era costituita dai vasi fatti di v. ordinario colorato naturalmente, (tedesco naturfarbene) verde o verde bluastro. Una completa tipologia di forme si trova in questa produzione, ma i vasi più tipici sono gli unguentari, le anfore prismatiche e cilindriche e le grandi anfore e brocche usate (ma solo nella parte occidentale dell'impero) come urne cinerarie. Questa produzione fu in auge particolarmente durante il I ed il II sec., ma continua anche in epoca romana più tarda, presentando alcune forme nuove e proprie del loro tempo, e altre continuano le antiche con scarsi cambiamenti. La decorazione è rara e limitata di solito alla stampigliatura e alle strisce. Le brocche cilindriche e prismatiche erano soffiate in una matrice, le basi di quelle prismatiche erano di regola modellate e spesso inscritte con quelli che sono forse i marchi di fabbrica dei fornitori del loro contenuto. Questo tipo di v. era pure usato spesso per altre specie di recipienti modellati, soffiati (per esempio le, tazze del I sec. con scene dell'arena e del circo).
La seconda varietà comprende le produzioni acrome o quasi, che si trovano anche nel I sec. (per esempio Locarno), ma sono in special modo comuni nel II e nel III e continuano nel IV sec. d. C.
Le forme più diffuse sono piatti, tazze, bicchieri, fiasche ed anfore di uso domestico. Nel tardo II e nel III e IV sec., ma non prima, tale specie di v. è spesso usato per contenere vino e unguenti e altre cose. Il materiale acromo è solo raramente soffiato in uno stampo modellato, ma sono state trovate tutte le altre varietà di decorazione elencate sotto e le variazioni cronologiche dello stile e dei modelli decorativi aiutano a dare una data ai pezzi e conseguentemente alle forme.
La terza varietà principale non è di fatto unitaria, perché include tutte le produzioni colorate nelle quali il colore è stato aggiunto deliberatamente. Un normale v. di calce di soda (il gruppo al quale appartiene quasi tutto il v. romano) contiene ferro sufficiente per produrre il v. verde colorato di per se stesso (naturfarbene) della nostra prima varietà. Per fare il v. acromo, o v. di colori diversi dal verde, devono essere aggiunti all'amalgama altri ingredienti. Il manganese è un agente decolorante che, usato in quantità adeguate, produce v. acromo, ma può anche produrre v. giallo o color ambra o color vino, se aggiunto in una data misura. Un altro agente decolorante regolarmente usato nei tempi antichi è l'antimonio, e recenti esperimenti nel Laboratorio Nazionale di Brookhaven hanno provato che ci sono differenze cronologiche e geografiche nella prevalenza di questi due agenti decoloranti nel v. antico (E. V. Sayre e R.W. Smith). Per il v. blu cupo, l'agente colorante è rame o ferro o cobalto (ma solo nella regione orientale dell'Impero); per il colore verde cupo è rame o ferro. Questi erano i colori principali usati per i vasi di v. trasparente, ma i v. dai colori opachi (rosso, bianco, blu ecc.) non sono rari, specie nel I sec. ed erano usati, sia per oggetti piccoli che per festoni decorativi. Coppe, bicchieri, fiasche e anfore di ambra trasparente, blu, verde, color vino, sono tipici del I sec. e sono spesso decorati con solchi o macchie di un altro o di altri colori. I recipienti a solchi o a macchie sono particolarmente comuni in Italia e possono essere stati qui fabbricati, diffondendosi poi, tramite il commercio, nelle altre province occidentali e, occasionalmente, anche verso oriente. Più tardi questi colori continuano, ma spesso più pallidi, e nel IV sec. esiste una tendenza per le tinte miste, bluastre-verdi e verdastre-blu, giallo-blu e verde-giallo, con altre varianti. Le forme principali sono quelle per stoviglie da tavola e questo v. colorato di regola non è impiegato per il vino ordinario, le bottiglie da unguento o altri recipienti. La decorazione usualmente è limitata alle strisce e al modellato.
4. - Tecniche decorative. - a) Fusione a stampo. Il v. può essere fuso, pressato, fuso e soffiato in una matrice: tutti questi metodi erano in uso nell'antichità. La fusione e la pressione erano, come abbiamo visto, i metodi impiegati fin dal tempo più antico e risalgono almeno al II millennio a. C. In entrambi questi casi il v. deve essere caldo e fluido. L'uso della fusione può essere cominciato molto presto, ma può essere riconosciuto particolarmente nelle coppe a mosaico del I sec. a. C.-I sec. d. C., per le quali sezioni di canna di v. erano poste in una matrice e riscaldate in modo che sciogliendosi assumevano la forma di vaso voluta.
L'uso di soffiare il v. in una matrice fu il processo più tardo (vedi sopra). Poteva esplicarsi in due modi. O la matrice portava la forma negativa del vaso finito, nel qual caso la manifattura era completa al suo distacco dalla matrice. Esempî ne sono i tipi sidoniati del I sec., di Ennion ed altri (Harden, Journ. Rom. St., 1935) e le contemporanee coppe occidentali con scene dell'arena e del circo, come pure tipi più tardi a forma di testa umana, pesci, frutta e simili. Oppure la matrice era cilindrica con un leggero andamento a cono verso il basso, e portava semplici motivi di costole, grate, favi, ecc. in modo che dopo la liberazione dalla matrice la coppa potesse essere ulteriormente soffiata e tesa fino ad assumere una forma differente da quella della matrice con i suoi motivi decorativi estesi. Questo processo (che si può meglio chiamare prefusione), divenne comune nel III e IV sec. e fu ancora più in uso nei tempi medievali, sia in Oriente che in Occidente. - b) Lavorazione a caldo. Dentellature, nodi, punte e costolature furono un tipo frequente di decorazione, aggiunta mentre il vaso era ancora caldo con l'aiuto di pinze, di un arnese metallico a punta e di altri strumenti. - c) Appliques. Era molto comune aggiungere a un recipiente già formato, appendici, gocce, maschere in v., spesso di un altro colore. Talvolta queste appendici erano fuse nel corpo del vaso, talvolta lasciate in rilievo. Altri effetti erano ottenuti con un'ulteriore soffiatura del recipiente dopo l'aggiunta delle appendici, disponendo queste a festoni o zig-zag, come nei precedenti vasi ad anima di sabbia. Le più notevoli e elaborate appendici ed appliques si trovano nel tardo II e nel principio del III sec. d. C., specie sui v. "a serpentina" (Schlangenfaden; snake thread) che erano fatti non solo in Occidente (Colonia) ma anche in Oriente e sui v. con pesci, uccelli, ecc. applicati. - d) Taglio e incisione. Il metodo antico di ritagliare il v. da un blocco freddo (vedi sopra) assicura che, più tardi, l'uso della ruota per decorare il v. non doveva essere dimenticato. Gli esemplari più antichi con decorazioni tagliate con la ruota sono coppe a petali dell'VIII-V sec. a. C., imitanti le phialai di metallo. L'industria alessandrina si specializzò nel taglio e nella incisione dal I sec. a. C. in poi, se pure non prima, servendosi di ruote per l'incisione e la levigatura delle coppe a stampo, e anche di ruote da taglio per la decorazione, come per esempio nei noti cammei o vasi di v. sui quali la raffigurazione è disposta a strati (v. portland) che erano prima soffiati e poi rifiniti con taglio e politura. Questi cammei vitrei sono infatti i più antichi v. che portano figure intagliate ed essi poi sono all'origine di una lunga serie di v. con figurazioni intagliate, che si diffusero dal I al IV sec. ed anche più tardi. La maggior parte di questi v. sono acromi, anche se ne esistono esempî colorati, per esempio la secchia color vinaccia nel Tesoro di S. Marco a Venezia con scena dionisiaca. La serie cominciò ad Alessandria nel tardo I o all'inizio del II sec. d. C. e di là si diffuse in altri centri, specie a Colonia. All'inizio le figure sono rese con finezza e sfaccettature profonde e linee incise che completano nei dettagli il modellato. Nel III e nel IV sec. questo artigianato scade sia in Oriente che in Occidente, ma non in Italia dove alcuni dei vasi più belli e più elaborati decorati ad intaglio appartengono al tardo III ed al IV sec., come il già citato secchio di S. Marco. I temi decorativi sono in un primo tempo presi dalla mitologia classica (per esempio Linceo e Ipermenestra, Artemide e Atteone), ma più tardi, sono comuni e le scene di genere e nel IV sec. i soggetti cristiani (Mosè che percuote la roccia, resurrezione di Lazzaro, ecc.). Talvolta il taglio è a rilievo e questo portò nel IV sec. alle famose tazze a gabbia (diatreta) intagliate a giorno come la coppa delle "maschere e colonne" di Varese e il secchiello della caccia nel Tesoro di S. Marco, la coppa di Licurgo (v. vol. iv, fig. 737) ed esemplari di bicchieri rinvenuti a Colonia (v. tav. a colori p. 1156 e art. diatretarius).
Parallelamente ai v. decorati ad intaglio, le fabbriche produssero v. che portavano disegni geometrici lineari e sfaccettati. In molti degli esemplari più tardi l'intaglio, sia figurato che geometrico, degenera quasi completamente in graffiatura della superficie ed il disegno che allora ne deriva è molto duro. Anche l'incisione era praticata (probabilmente con una punta di selce o con una sottile ruota di rame, perché ignoto era per questo scopo l'uso del diamante nel mondo greco-romano): essa era usata in parte per rifinire il modellato ed altri dettagli su bicchieri sfaccettati, ma in parte anche come decorazione in sé e per sé. Una bella coppa del tardo I sec. d. C., da Siphnos (Brook e Mackworsh) con Eroti che cavalcano mostri marini, è il più antico esempio che noi possiamo citare, e forse il più bello, ma esistono molti pezzi incisi del IV sec., in Italia e nelle province occidentali; cfr. specialmente il gruppo Wint Hill (Glass Studies, II, 1960) e la fiasca da Chiaramonte Gulfi nel museo di Siracusa con una scena di caccia (v. Vol. ii, p. 750) o la scena di circo a Colonia. - e) Pittura. Vasi decorati con scene floreali e figurate dipinte con smalto a fuoco si trovano nel I sec. (Locarno, Nimes) ed altri sono noti in tempi più tardi ed è chiaro che la pittura era comune quanto l'intaglio, come processo decorativo. Si trovano anche esempî con decorazione dipinta non a fuoco: un gruppo orientale, che comprende per lo più coperchi con scene dipinte nella parte interna per essere visti in trasparenza attraverso il v.; esempî ne sono stati rinvenuti in quantità a Cipro ed in Siria. È rimasto un minor numero di esemplari con decorazione dipinta rispetto a quelli con decorazione ad intaglio, senza dubbio per il fatto che tale pittura, anche se ottenuta a fuoco, può essere svanita per l'uso e la corrosione nel corso dei secoli. Le scene sono o mitologiche o di genere e non si può citare alcun esempio con soggetto cristiano (v. Tav. a colori). - f) Doratura e vetri dorati. L'uso della decorazione a foglia d'oro a sandwich compresa fra due strati di v. acromo, sembra sia cominciato in età ellenistica a giudicare da un gruppo di v. dorati rappresentati da due coppe da Canosa (v. Tav. a colori) del III sec. a. C. al British Museum (Saldern); ma il maggiore uso di questo metodo di decorazione fu nei famosi v. dorati del III e IV sec. d. C., così caratteristici dei reperti delle catacombe, con i loro "ritratti" del defunto, busti di santi e varî simboli cristiani ed ebraici (v. Catalogo Morey). Si trova usato anche il metodo di una leggera copertura di foglia d'oro senza alcuna protezione di v., la doratura era usata anche in alcuni tipi di mosaici vitrei alessandrini e per i dettagli lineari o di altra natura su alcuni dei recipienti con scene dipinte (v. ritratto, vol. vi, p. 737).
5. - Oggetti di vetro. Nell'antichità, oltre che per i vasi il v. serviva per molti altri usi. Si è già notato che scarabei e altri piccoli oggetti vitrei erano conosciuti prima che si pensasse ai recipienti. Gli scarabei di v. non divennero subito comuni, ma, dal tardo II millennio a. C. in poi essi sono stati trovati in quantità sempre maggiori in tutto il mondo antico. In un primo tempo essi furono fatti avvolgendo il v. sopra un filo di metallo. Ma non molto tempo dopo essi furono ottenuti tagliando tubi vuoti in segmenti, le estremità dei quali erano poi lisciate con l'abrasione. Entrambi i processi sono in uso anche oggi. Gli antichi scarabei vitrei possono essere policromi o monocromi e si trovano di tutte le forme e dimensioni. Lo studio di questo materiale è complicato e difficile ed anche se possiamo riconoscere e datare certi tipi, resta ancora molto da fare per precisare la nostra conoscenza degli scarabei antichi e del loro sviluppo.
Esistono anche braccialetti e anelli ed altri esemplari di gioielleria in v.: tutto ciò è di difficile datazione come gli scarabei (Harden, Karanis, 1936). Il v. era pure usato per i sigilli (cilindri e timbri) dalla metà del II millennio in poi ed anche per imitare gemme fatte in pietre dure. Si trovano pure fuseruole, bottoni, pezzi da gioco, statuette, amuleti e numerosi ninnoli. Oggetti che erano presumibilmente lenti di v., sono noti dai tempi ellenistici (Forbes); cucchiai e spatole erano comunemente usate nei tempi romani e forse prima e, di fatto, quasi ogni oggetto che oggi possiamo ottenere con il v. poteva essere ottenuto anche nell'antichità.
Il v. fu pure usato come materiale da intarsio, almeno dalla metà del II millennio a. C. se non prima. I troni, le basi ed altri oggetti preziosi rinvenuti nella tomba di Tutankhamon hanno intarsî di v. di varî colori, come anche di pietre dure. Scoperte recenti nell'atelier di Fidia a Olimpia (v.) hanno dimostrato che vi era stato modellato il v. e usato probabilmente come sostegno a una foglia d'oro, forse per qualche particolare della statua crisoelefantina di Zeus. I frammenti rinvenuti comprendevano petali di fiori e stelle a tre punte, ma vi è chi pensa che le matrici fittili ivi rinvenute avessero servito per la fusione in v. anche di elementi di panneggio (la Nike?). Forse il risultato più alto raggiunto nell'antichità dall'intaglio furono le tessere vitree musive, una specialità dell'industria alessandrina nel suo splendido periodo tolemaico e nel primo periodo romano. Furono usate per scatole e per mobili e anche forse come placchette a sé. I disegni comprendono figure geometriche, floreali ed animali di grande complessità ed abilità ed anche teste umane (R. W. Smith, 1949).
Quando consideriamo gli intarsi, dobbiamo distinguere con cura il v. dallo smalto (v.). Quest'ultimo è fatto fondendo gli ingredienti in situ sull'oggetto: i pezzi di intarsio vitreo sono ritagliati o modellati nella forma desiderata e poi composti. Una varietà di intarsio è il lavoro musivo su pavimenti e muri: le tessere erano usate da sole o unite a tessere di pietra. L'uso del v. per le finestre cominciò nel I sec. d. C. Già prima esistevano due metodi per ottenere fogli di v. a questo scopo. Il v. poteva essere soffiato in cilindri che erano poi incisi longitudinalmente ed aperti in fogli piatti in un forno a tenue riscaldamento; o esso peteva essere soffiato in un globo che era poi manipolato o girato su una bacchetta fino a che diveniva un disco piatto (Harden-Jope). I fogli soffiati nel cilindro erano tagliati in forma appropriata per i telai delle finestre; in un primo tempo si usarono dei dischi vitrei come medaglioni decorativi, per esempio nelle primitive chiese cristiane in Oriente e in Italia (Ravenna); più tardi essi furono ingranditi e ritagliati in piccoli riquadri e rombi per vetrate a grate. Altri credono in un terzo metodo, la fusione in matrici piatte, per il modo nel quale erano fatti i più antichi v. a Pompei ed altrove (Havernich e Hahn-Weinheimer). Ciò appare improbabile, perché sembra che tutti gli esemplari scoperti siano ottenuti da fogli soffiati nel cilindro.
Bibl.: In ogni gruppo, corrispondente ad un paragrafo della voce, la bibl. segue l'ordine alfabetico degli autori. Generale: The Corning Museum of Glass, Glass from the Ancient-World: the Ray Winfield Smith Collection Corning, New York 1957; W. Froehner, La Verrerie antique: description de la collection Charvet le Pecq, Parigi 1879; W. Haberey, Der Werkstoff Glas im Altertum, I-II; Glastechnische Berichte, 30, 1957, p. 505 ss., 31, 1958, p. 188 ss.; D. B. Harden, Glass and glazes, in A History of Technology, II, Oxford 1956, p. 311 ss.; A. Kisa, Das Glas im Altertum, 3 vol., Lipsia 1908; M. L. Trowbridge, Philological Studies in Ancient Glass, (Univ. of Illinois Studies in Language & Literature, XIII, 3-4, Urbana 1930. - Tecnica: E. R. Caley, Analyses of Ancient Glasses, 1956-1957 (Corning Museum of Glass Monographs, I), Corning, New York 1962; M. Farnsworth-P. D. Ritchie, Spectrographic studies on ancient glass, in Technical Studies, VI, 1938, p. 155 ss.; R. J. Forbes, Glass, in Studies in Ancient Technology, V, Leida 1957, p. 110 ss.; C. J. Gadd-R. C. Thompson, A middle Babylonian chemical text, in Iraq, III, 1936, p. 87 ss.; A. Lucas, Ancient Egyptian Materials a. Industries4, riveduta e ampliata da J. R. Harris, Londra 1962; H. Moore, Reproductions of an ancient Babylonian glaze, in Iraq, X, 1948, p. 26 ss.; B. Neumann-G. Kotyga, Antike Gläser, ihre Zusammensetzung und Färbung, in Zeitschrift für angewandte Chemie, 38, 1925, pp. 776 ss.; 857 ss.; 40, 1927, p. 963 ss.; 41, 1928, p. 203 s.; 42, 1929, p. 835 ss.; F. Schuler, Ancient glassmaking techniques, in Archaeology, XII, 1959, p. 47 ss. (fusione), p. 116 ss. (sabbiatura); id., ibid., XV, 1962, p. 32 ss. (tecnica a nucleo); E. V. Sayre, The intentional use of antimony and manganese in ancient glasses, in Advances in Glass Technology, pt. 2, ed. F. R. Matson-G. E. Rindone, New York 1963, pp. 263 ss.; R. W. Smith, Archaeological evaluation of analyses of ancient glass, ibid., p. 283 ss.; R. C. Thompson, Dictionary of Assyrian Chemistry & Geology, Oxford 1936; W. E. S. Turner, Studies in ancient glasses & glass-making processes, III-V, in Trans. Soc. Glass. Technology, XL, 1956, pp. 39 ss., 162 ss., 277 ss. - Vetri pre-romani: D. Barag, Mesopotamian glass vessels of the 2nd mill. B. C., in Jour. Glass. St., IV, 1962, p. 9 ss.; H. C. Beck, Glass before 1500 B. C., in Ancient Egypt, Londra 1934, pp. 7 ss.; id., Notes on glazed stones, I. Steatite, II. Quartz, ecc., ibid., pp. 69 ss.; id., 1935, pp. 19 ss.; J. D. Cooney, Glass sculpture in ancient Egypt, in Journ. Glass. St., II, 1960, p. 11 ss.; P. Fossing, Glass Vessels before Glass-blowing, Copenaghen 1940; T. E. Haevernick, Mykenisches Glas, in Jahrb. d. röm.-germ. Zentralmuseums, Magonza, VII, 1960, p. 36 ss.; id., Hallstatt-tassen, ibid., V, 1958, p. 8 ss.; id., Glasbügelfibeln u. Stachelfläschchen, ibid., VI, 1959, p. 57 ss.; id., VIII, 1961, p. 137 ss.; E. Kunze, Olympia, in Neue deutsche Ausgrabungen im Mittelmeergebiet und im vorderen Orient, Berlino 1959, p. 262 ss.; W. M. F. Petrie, Tell el Amarna, Londra 1894; A. von Saldern, Glass finds at Gordion, in Journ. Glass. St., I, 1959, p. 23 ss.; G. D. Weinberg, Glass manufacture in ancient Crete, ibid., p. 11 ss.; id., Hellenistic glass vessels from the Athenian Agora, in Hesperia, XXX, 1961, p. 380 ss.; J. K. Brock-G. Mackworth-Young, Excavations in Siphnos, in Annual Brit. School Athens, XLIV, 1949, p. 1 ss.; L. Berger, Römische Gläser aus Vindonissa, Basilea 1960. Vetri di età romana: J. K. Brock-G. Mackworth-Young, Excavations Siphnos, in Annual Brit. School Athens, XLIV, 1949, p. 1 ss.; G. Caputo, Scavi Sahariani, pt. II, in Mon. Ant. Lincei, XLI, 1951, p. 201 ss.; C. W. Clairmont, The Excavations at Dura-Europos, IV, pt. V, The Glass Vessels, New Haven 1963; G. M. Crowfoot, The Glass, in J. W. Crowfoot et al., Samaria-Sebaste, III, The Objects, Londra 1957, pp. 403 ss.; id., e D. B. Harden, Early Byzantine and later glass lamps, in Journ. Egyptian Arch., XVII, 1931, p. 196 ss.; G. R. Davidson, Corinth. XII, The Minor Objects, Princeton 1952; O. Doppelfeld, Das Diatroglas aus Köln-Braunsfeld, in Kölner Jahrb. für Vor- und Frühgeschichte, V, 1960-61, p. 7 ss.; H. J. Eggers, Der römische Import im freien Germanien, Atlas der Urgeschichte, I, Amburgo 1951; G. Ekholm, Orientalische Gläser in Skandinavien, in Acta Archaeologica, XXVII, 1956, p. 35 ss.; id., Westeuropäische Gläser in Skandinavien, ibid., XXIX, 1958, p. 21 ss.; id., Scandinavian glass vessels of oriental origin, 1-6 cent. A. D., in Glass Studies, V, 1963, p. 29 ss.; F. Fremersdorf, Römische Gläser mit buntgefleckter Oberfläche, in Festschrift für August Oxë, Darmstadt 1938, pp. 116 ss.; id., Figürlich geschliffene Gläser, in Röm-Germ. Forschungen, XIX, Berlino 1951; id., Die Denkmäler des römischen Köln: III. Röm. Buntglas, Colonia 1958; IV. Das naturfarbene sogennannte blaugrüne Glas, Colonia 1958; V, Röm. Gläser mit Fadenauflage, Colonia 1959; VI, Röm. geformtes Glas, Colonia 1961; VII, Die rom. Gläser mit aufgelegten Nuppen, Colonia 1962; W. Haberey, Spätantike Gläser aus Gräbern von Mayen, in Bonner Jahrb., CXLVII, 1942, p. 249 ss.; J. Hackin, Recherches archéol. à Bégram: chantier no. 2, 1937, in Mém. Délég. archéol. franç. en Afghanistan, IX, Parigi 1939; T. E. Haevernick-P. Hahn-Weinheimer, Untersuchungen röm. Fenstergläser, in Saalburg-Jahrb., XIV, 1955, p. 65 ss.; P. Hamelin, Matériaux pour servir à l'étude des verreries de Bégram, in Cahiers de Byrsa, III, 1953, p. 121 ss.; IV, 1954, p. 153 ss.; D. B. Harden, Roman Glass from Karanis, in Univ. of Michigan Studies, Humanistic Series, XLI, Ann Arborg 1936; id., Romano-Syrian glasses with mould-blown inscriptions, in Journ. Roman Studies, XXV, 1935, p. 163 ss., e supplemento in Syria, XXIV, 1944-5, pp. 81 ss., 291 s.; id., The Glass, in C. F. C. Hawkes - M. R. Hull, Camulodunum (Report of Research Committee, Soc. Antiq. Londra, XIV), 1947, p. 287 ss.; id., Glass vessels in Britain & Ireland A. D. 400-1000, in D. B. Harden (ed.) Dark-age Britain: studies presented to E. T. Leeds, Londra 1956, pp. 132 ss.; id., The Highdown Hill glass goblet with Greek inscription, Sussex Archaeol. Collections, XCVII, 1959, p. 3 ss.; id., e J. M. C. Toynbee, The Rothschild Lycurgus Cup, in Archaeologia, XCVII, 1959, p. 179 ss.; D. B. Harden, New Light on Roman and early medieval window-glass, in Glastechnische Berichte, 32 K, 1959, Heft VIII, p. 8 ss.; id., The Wint Hill hunting bowl and related glasses, in Journ. Glass. St., II, 1960, p. 45 ss.; id., Domestic window glass: Roman, Saxon and Medieval, in E. M. Jope (ed.), Studies in Building History: Essays in recognition of the work of B. H. St. O'Neil, Londra 1961, pp. 39 ss.; id., The Rothschild Lycurgus cup: addenda and corrigenda, in Journ. Glass St., V, 1963, p. 9 ss. (v. anche l'articolo seguente sull'analisi del vetro a cura di R. C. Chirnside-P. M. C. Proffitt); C. Isings, Roman Glass from Dated Finds, Groningen-Djakarta 1957; O. Kurz in J. Hackin et al., Nouvelles Recherches archéol. à Bégram, in Mém. Délég. archéol. franç. en Afghanistan, XI, Parigi 1954; [S. Loeschcke-H. Willers], Beschreibung röm. Altertümer gesammelt von Carl Anton Niessen, 2 voll., Colonia 1911; C. R. Morey (ed. Guy Ferrari), The Gold-glass Collection of the Vatican Library (Catal. del Museo Sacro, IV, Città del Vaticano 1959); Morin-Jean, La verrerie en Gaule sous l'empire romain, Parigi 1913; F. Rademacher, Fränkische Gläser aus dem Rheinland, in Bonner Jahrb., CXLVII, 1942, p. 285 ss.; E. Simon, Die Portlandvase, Magonza 1957; id., Drei antike Gefässe aus Kameoglas, in Journ. Glass St., VI, 1964, p. 13 ss.; C. Simonett, Tessiner Gräberfelder (Monographien zur Ur und Frühgeschichte der Schweiz, Bd. III), Basilea 1941; R. W. Smith, The significance of Roman glass, in Metropolitan Museum Bulletin, VII, n. 2, ottobre 1949, pp. 49 ss.; W. A. Thorpe, English Glass2, Londra 1949; id., The prelude to European cut glass, in Trans. Soc. Glass Technology, XXII, 1938, p. 5 ss.; O. Vessberg, Roman Glass in Cyprus, in Opuscula Archaeologica, VII, Lund 1952; id., in O. Vessberg-A. Westholm, The Hellenistic and Roman Periods in Cyprus (Swedish Cyprus Expedition, IV, pt. 3), Stoccolma 1956, pp. 128 ss.; 193 ss.; W. von Pfeffer-T. E. Haevernick, Zarte Rippenschalen, in Saalburg-Jahrb., XVII, 1958, p. 76 ss.; G. D. Weinberg, Vasa diatreta in Greece, in Journ. Glass St., VI, 1964, p. 47 ss.; R. E. M. Wheeler, Arikamedu: an Indo-Roman trading-station on the E coast of India, in Ancient India, n. 2, 1946, p. 17 ss.