Viaggi, scoperte, rappresentazioni
Da sempre, il viaggiatore si sposta nel tempo oltre che nello spazio: nel senso che la sua esperienza comporta anche una ricerca dei significati primi della civiltà da cui proviene. Questo «viaggio filosofico», come lo definisce Eric J. Leed, conosce uno snodo radicale nel periodo qui considerato, in virtù del «riorientamento delle tradizioni occidentali di viaggio filosofico dai ‘centri’ sacri della civiltà occidentale – Egitto, Palestina, Grecia, Roma – alle periferie del mondo» (Leed 1991; trad. it. 1992, p. 163). È appena il caso di ricordare come, in questo rovesciamento di prospettive, i viaggiatori europei costituissero l’avanguardia degli imperi coloniali in via di costituzione nei continenti extraeuropei a partire dal 15° secolo.
In questo processo, l’effettiva assunzione di controllo dei territori dovette essere preceduta dalla conquista intellettuale del mondo: ossia dalla messa a punto di idee plausibili su dimensioni e forma di terre e mari nonché sugli itinerari per metterle in comunicazione. Fu insomma necessario assemblare un’immagine cartografica del mondo e delle sue parti, tale da soddisfare gli interessi politici ed economici coinvolti nel processo di espansione europea: ma la carenza di informazioni e dati precisi sulla conformazione della superficie terrestre, oltre che di metodi e strumenti affidabili per la misurazione della longitudine (fino all’invenzione del cronometro, realizzato tra 1737 e 1759 dall’orologiaio inglese John Harrison), diede luogo, per l’intera età moderna, a una cartografia contrassegnata da un notevole grado di ipoteticità.
In questa vicenda, la cultura italiana giocò un ruolo di primo piano nel corso di un tempo lungo, che dal 13° sec. giunge alla metà del Cinquecento. Il primo esempio di una cartografia riconducibile a schemi concettuali diversi da quelli che per brevità definiremo medievali, proviene dalla seconda metà del Duecento: è la cosiddetta carta pisana, realizzata però probabilmente a Genova (oggi alla Bibliothèque nationale di Parigi). Si tratta di una modalità di rappresentazione in piano della superficie terrestre rispondente alle esigenze del commercio marittimo. Per questo i più attivi centri di produzione di questa cartografia si dislocarono nei maggiori porti mediterranei dell’epoca, da Pisa a Genova, Venezia e Mallorca: di fatto, la nuova cartografia nasce quando la tradizione della navigazione parallela alla costa (cabotaggio) inizia ad aprirsi alla pratica dell’attraversamento di vaste aree liquide (pileggio), affidandosi alla rotta, tracciata sulla carta tra punti distanti del litorale.
Merito indubbio di questi cartografi, il più noto dei quali fu il genovese Pietro Vesconte (attivo fra il 1311 e il 1320), fu la precisione raggiunta nella delineazione dell’area rappresentata, coincidente per lo più con i bacini marittimi del Mediterraneo/Mar Nero e i litorali che li delimitano, dal Marocco alle coste mediorientali e anatoliche e all’Europa. Il punto debole di questo metodo di rappresentazione sta invece nella sua caratteristica saliente, ossia il suo programmatico limitarsi al disegno della linea di costa, escludendo dal proprio orizzonte le aree interne e la loro realtà.
Non si tratta però di una cartografia scientifica. Essa si fonda piuttosto sul patrimonio di esperienza tramandato da generazioni di uomini di mare mediterranei: come attesta il fatto che il suo dispositivo tecnico non poggia su un sistema di rilevamenti condotti su base astronomico-matematica, quanto piuttosto sulle direzioni (è un sistema di rose dei venti a organizzare lo spazio del disegno tracciato dal cartografo) e sulle distanze tra i diversi punti della costa (per cui la carta si presenta come una rappresentazione in scala).
Nella storia della cartografia, quella nautica fu destinata a un lungo declino, e a essere soppiantata da altri, più affidabili (cioè più scientificamente rigorosi) metodi di riproduzione della superficie terrestre. Ma essa condizionò a lungo il discorso cartografico: non si può non convenire sul fatto che «uno degli aspetti appassionanti della cartografia del Rinascimento è […] la fusione progressiva (ma difficile) tra lo stile ‘nautico’ e lo stile dotto» (Broc 1980; trad. it. 19962, p. 37).
La definizione di «stile dotto» rinvia all’altra grande linea evolutiva della cartografia moderna, quella tolemaica. Anche nel suo caso, il contributo italiano si rivelò essenziale: fu la cultura fiorentina del Quattrocento a decretare il trionfo della Geographia di Claudio Tolomeo (1°-2° sec. d.C.). L’opera era stata concepita come un manuale per realizzare carte geografiche fondate sulle coordinate di latitudine e longitudine ancor oggi in uso, concettualmente definibili come proiezioni dell’immutabile griglia delle coordinate celesti sulla superficie terrestre. In virtù di ciò, ogni punto della Terra è identificato dal valore matematico corrispondente all’incrocio del meridiano e del parallelo passanti per quel punto.
Il rigore teorico di questo dispositivo garantisce la possibilità di riprodurre fedelmente in piano la superficie terrestre: a patto, però, che il cartografo disponga di informazioni esatte, cioè di misurazioni precise dei valori di latitudine e longitudine dei luoghi raffigurati sulla carta. Per questo Tolomeo aveva elencato nella Geographia le coordinate di ben ottomila località; ed è probabile che lo stesso Tolomeo redigesse poi, in base a esse, l’apparato cartografico (un planisfero e una serie di carte regionali) che fa parte integrante dell’opera. Fu a Firenze, tra 1405 e 1409, che il testo greco venne tradotto per la prima volta in latino a cura di un umanista poco noto, Jacopo Angeli da Scarperia. L’entusiasmo degli umanisti di tutta Europa fu grande: a loro modo di vedere, testo e carte della Geographia spalancavano davanti agli occhi del 15° sec. la perfetta immagine del mondo, assemblata dal maggior geografo della perfetta epoca classica.
Questo successo nascondeva molti aspetti problematici. Intanto, la traduzione di Angeli non era irreprensibile. Le sue scarse cognizioni matematiche non gli avevano consentito di rendere correttamente in latino le istruzioni relative alle proiezioni cartografiche, sicché bisognò attendere circa un secolo per avere un testo affidabile: fino ad allora, le carte furono per lo più copiate meccanicamente da un codice all’altro. Vi era poi l’enorme problema di identificare gli ottomila toponimi antichi forniti da Tolomeo; questa impresa assorbì molte energie, fino alla fine del 16° secolo. Altre e più significative difficoltà risalivano alla stessa Geographia: da un lato, Tolomeo aveva raffigurato in carte appena un quarto della superficie terrestre; dall’altro, aveva accreditato dimensioni errate della sfera e dell’ecumene. Ma soprattutto, i valori di latitudine e longitudine degli ottomila toponimi da lui elencati erano approssimativi o erronei, e le carte costruite su quei valori non restituivano la realtà geografica. Insomma, se grazie a Tolomeo gli umanisti del Rinascimento avevano conquistato un metodo cartografico scientificamente ineccepibile, l’eccessivo credito attribuito al livello delle conoscenze antiche impedì a lungo di cogliere i limiti delle carte tolemaiche, imperfetto tentativo di applicazione pratica di quella metodologia.
La storia della cartografia rinascimentale mostra tutte le difficoltà connesse a questa assunzione di consapevolezza. Infatti, l’aumento esponenziale di dati e informazioni provenienti tanto dalla riscoperta di altri testi geografici antichi (Strabone e Pomponio Mela), quanto dalle sempre più numerose scritture di viaggio, costrinse i cartografi a confrontare il sistema tolemaico con altre fonti e metodi, mettendo a punto un cantiere operativo all’insegna di un grande eclettismo. Su questa via, si incontra l’opera del camaldolese fra Mauro (fine 14° sec.-1459/1464). Il suo planisfero (databile agli anni 1448-1453, oggi alla Biblioteca Marciana) costituisce non solo uno straordinario manufatto, ma altresì un esempio eloquente delle metodologie di documentazione in uso tra i cartografi del Quattrocento:
Il lavoro di fra Mauro sintetizza e compendia aspetti della cosmologia aristotelico-cristiana e della cosmografia aristotelico-tolemaica; la tradizione corografico-geografica su popoli e commerci; la cartografia nautica e quella tolemaica; i resoconti di viaggio del 14° e del 15° secolo e le dicerie basate sui racconti dei viaggiatori; le descrizioni dei principali itinerari per il commercio globale di spezie, oro e argento come pure la storia delle antiche conquiste di Alessandro e di quelle recenti di Tamerlano […] (A. Cattaneo 2011, p. 19).
Il risultato è un’immagine di sintesi che, storicizzando il modello antico, ne prende le dovute distanze: da ciò deriva, per es., il rifiuto di rappresentare l’Oceano Indiano al modo di Tolomeo, come un enorme lago chiuso. Non c’è da stupirsi se Alfonso V di Portogallo inviò a Venezia i suoi ambasciatori per far realizzare una copia (oggi perduta) del grande planisfero: all’epoca, i marinai lusitani erano già impegnati nel tentativo di circumnavigare l’Africa per raggiungere l’Oriente delle spezie, e le concezioni di fra Mauro offrivano un prezioso contributo al raggiungimento dell’obiettivo.
Sarebbe poi stata la scoperta dell’America nel 1492, e quella del Pacifico nel 1519-1521, a costituire il banco di prova più impegnativo per i cartografi europei. Per la prima volta, e su una scala inimmaginabile in precedenza, essi si cimentarono con la necessità di applicare le proprie competenze su territori sconosciuti agli antichi. Il metodo di Tolomeo svolse allora un ruolo fondamentale, al fine di dare un volto alle terre da poco scoperte: ma la nuova immagine del mondo contribuì d’altra parte alla crescente consapevolezza dei limiti delle carte tolemaiche. Paradossalmente, è proprio nel succedersi delle edizioni a stampa della Geographia che possiamo cogliere i risultati di questo sforzo. In esse, infatti, l’apparato tradizionale delle 26 carte attribuite a Tolomeo si arricchì progressivamente di una serie di carte «novae», il cui numero passò dalle cinque di Ulm (1482) alle sei di Roma (1507), alle venti di Strasburgo (1513), alle trentaquattro di Venezia nell’edizione del 1548, quando il numero delle carte moderne superò quello delle antiche.
Il contributo italiano a questa impresa corale, per quanto difficile da valutare, fu comunque di prim’ordine. Fino al decennio 1560-1570 l’Italia (e soprattutto Venezia) fu, con l’area tedesca, all’avanguardia nella produzione di carte: eccellenza riassumibile nel nome del cartografo piemontese Giacomo Gastaldi (1500 ca.-1566). Gastaldi non ebbe rivali tra i contemporanei per qualità e quantità del lavoro svolto nei decenni centrali del Cinquecento, e svolse un ruolo decisivo per la messa a punto dell’immagine del mondo, grazie al sistematico confronto tra dati antichi e nuovi, tra eredità classica e recenti esperienze di viaggio, tra metodologie cartografiche diverse, consegnando al futuro un’eredità preziosa e abbondante.
Dalla fine del Cinquecento in poi, la conoscenza sempre più precisa della superficie terrestre fu dovuta soprattutto al lavoro dei cartografi olandesi, francesi, inglesi, spinti da necessità pratiche connesse al rapido costituirsi degli imperi coloniali. Per incontrare un altro cartografo italiano famoso quanto Gastaldi, occorre giungere a Vincenzo Coronelli (1650-1718): ma i più recenti studi sulla sua vastissima produzione concordano sul fatto che «in campo propriamente cartografico Coronelli si è spesso adeguato agli standard che la sua epoca considera i peggiori» (in Vincenzo Coronelli e l’imago mundi, 1998, p. 42). Siamo insomma in presenza di un compilatore, talvolta di un plagiario, certamente di un abile imprenditore: non di un geniale innovatore quale Gastaldi era stato.
Le scritture di viaggio, in quanto raccolte di informazioni sugli abitanti degli altri mondi, hanno sempre dovuto fare i conti con un radicato etnocentrismo, pronto a valutare le altre civiltà in base a giudizi di valore fondati su base politico-religiosa, fino a desumerne quell’ideologia dell’assoluta superiorità europea che, tra Sette e Ottocento, avrebbe trovato concreta applicazione nelle teorie razzistiche. Ma il potenziale conoscitivo di questi testi è stato condizionato anche da altri fattori: da un lato, i limiti imposti all’oggettività dei viaggiatori dalla prospettiva forzatamente europea che guida il loro sguardo; dall’altro, le resistenze mentali di un pubblico di lettori che, privo di esperienza diretta di quelle lontane realtà, le interpreta per lo più a partire dai propri pregiudizi.
Per tutto ciò, il disvelamento del mondo e dei gruppi umani che lo abitano si è dipanato in un percorso lento e di grande complessità. Al suo interno, sarà utile distinguere una prima fase – coincidente con gli ultimi secoli del Medioevo – in cui ben difficilmente le notizie provenienti dai mondi lontani spingono l’Europa a mettere in discussione la propria visione del mondo, dal periodo inaugurato dalle cosiddette «grandi scoperte», quando l’aumento esponenziale di dati e informazioni sui Paesi extraeuropei raggiunse una massa critica capace di tradursi in una nuova e accettabile immagine del mondo e dell’umanità.
Quanto detto può contribuire a chiarire i limiti della prima grande stagione di viaggi di scoperta: ossia la fase poco più che secolare, iniziata nel 13° sec., durante la quale l’esistenza dell’impero mongolo consentì a molti europei di inoltrarsi, con sufficiente sicurezza, lungo gli itinerari che da Bisanzio e Damasco giungevano alla favolosa Cina. Fu, quello, il secolo di Marco Polo: ma sarebbe fuorviante trascurare la folla di personaggi più o meno anonimi che, in quello stesso torno di tempo, presero la via dell’Oriente, lasciando al pari di Marco testimonianza scritta delle proprie esperienze. Le memorie di viaggio di molti francescani (come Odorico da Pordenone, 1286 ca.-1331) contribuirono allora, non meno del libro di Marco, a mettere in circolazione un profilo del mondo orientale nuovo rispetto al quadro informativo su cui si erano fondate la Naturalis historia di Plinio il Vecchio o le Etymologiae di Isidoro di Siviglia. La cultura classico-cristiana aveva autorizzato la credenza in un Oriente favoloso, sede del Paradiso terrestre e del misterioso Prete Gianni, in cui la norma occidentale si trasfigurava nell’aberrazione e nella dismisura: là, i regni della natura parevano obbedire a regole difformi, producendo mostruosità e anomalie. Le «meraviglie dell’oriente» (Wittkower 1977; trad. it. 1987) avevano offerto per più di un millennio abbondante materiale a racconti di viaggi straordinari, il più diffuso dei quali era il ciclo di romanzi aventi a protagonista il grande Alessandro. Ma se questo era il denominatore comune dell’opinione occidentale, quali erano le possibilità di modificarne più o meno radicalmente i connotati, dando conto di una realtà diversa?
È in questo quadro che va valutata l’esperienza di viaggio di Marco Polo (1254-1324), il cui Divisament dou monde o Milione diede conto del favoloso Oriente a partire da un’esperienza per più versi fuori dal comune: per la giovane età di Marco al momento della partenza da Venezia (17 anni), per la lunghezza della sua permanenza in Cina (più di vent’anni), per il ruolo probabilmente ricoperto colà, di membro dell’amministrazione di Qūbīlāy, gran khān dei Mongoli e imperatore della Cina. Se tutto ciò fa di Marco un viaggiatore atipico, il suo libro, assemblato in una prigione genovese grazie alla collaborazione con uno scrittore professionista come Rustichello da Pisa, solleva tuttora interrogativi molteplici, quanto al ruolo rispettivo giuocato dai due coautori, o alla qualità spesso insoddisfacente delle descrizioni fornite sulle terre orientali. Qui va sottolineato un aspetto del testo, ossia la sua attitudine demitizzante e razionalizzante. Sono molteplici le occasioni in cui Marco si propone di offrire al lettore la «verità» nascosta dietro questa o quella «meraviglia dell’Oriente», come quando identifica il prosaico amianto nella mitica salamandra capace di vivere nel fuoco, o il rinoceronte dietro le fattezze leggendarie dell’unicorno (cfr. M. Polo, Milione. Le divisament dou monde, a cura di G. Ronchi, 1982, cap. 59: Chingitalas, cap. 162: Della piccola isola di Iava).
Ma la messa in discussione del dato tradizionale, la sua sostituzione con informazioni nuove, non poterono mettere in crisi un intero modello di spiegazione del mondo: cosicché se le testimonianze dei viaggiatori arricchirono allora in modo sostanziale l’immagine complessiva del creato, esse non modificarono le logiche di fondo, le norme di funzionamento di quell’immagine. In conseguenza di ciò le «verità» attestate da Marco si tradussero in nuove meraviglie che andarono ad aggiungersi alle antiche (il Milione fu chiamato anche Livre des merveilles), mentre la conseguenza forse più significativa di questa lunga stagione di resoconti occidentali sull’Oriente e le sue genti fu il viaggio, letterario e fantastico, di John Mandeville, che nei secoli successivi avrebbe conteso al libro di Polo le simpatie dei lettori con il suo Voyage d’outre mer, composto verso la metà del Trecento.
Il secolo che propiziò il successo del Milione vide anche l’inizio dei tentativi di espansione dell’Europa occidentale oltre i propri confini. Quell’età, inaugurata dalla ‘reconquista’ iberica e dall’integrazione nello spazio europeo degli arcipelaghi di Canarie, Azzorre, Madera, proseguì poi con la stagione delle scoperte geografiche vere e proprie. Iniziò allora un nuovo tipo di relazione tra l’Europa e il resto del mondo, caratterizzato da un insieme di iniziative economiche e politico-militari il cui significato ultimo consistette nel definirsi di una rete di collegamenti tra l’Europa e le altre parti del mondo destinata, per propria stessa natura, a infittirsi sempre più, rendendo così irreversibile il flusso di uomini, merci e informazioni scambiate su ognuno dei suoi segmenti.
Queste trasformazioni furono propiziate da una lunga e intensa stagione di viaggi, a cui gli uomini di mare italiani portarono un contributo decisamente di primo piano, dai fratelli genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi, partiti nel 1291 (e mai più tornati) per cercare nuove opportunità di scambi sulle rotte atlantiche; ad altri genovesi come Lanzarotto Malocello, Antonio da Noli, Nicoloso da Recco, che nel 14° sec. svolsero un ruolo importante nella scoperta dell’arcipelago delle Canarie; al veneziano Alvise Ca’ da Mosto, che al servizio del Portogallo compì due viaggi (1455 e 1456) importanti per la conoscenza delle isole di Capo Verde e della costa del Senegambia.
Ma il centro nevralgico della vicenda delle scoperte risiede nell’ingresso del continente americano nella storia europea: ed è dunque soprattutto su Cristoforo Colombo (1451-1506) e Amerigo Vespucci (1454-1512) che andrà fermata l’attenzione.
Nella prospettiva qui privilegiata, ossia il contributo dei viaggi alla storia delle conoscenze scientifiche, il ruolo del grande genovese appare limitato. Per Colombo, infatti, l’America fu tutto sommato un incidente di percorso in un’impresa nata con tutt’altri obiettivi, ossia il raggiungimento delle coste orientali dell’Asia. Del resto, nei quattordici anni trascorsi tra il viaggio del 1492 e la morte, il genovese non nutrì mai dubbi sul fatto che i suoi approdi occidentali fossero effettivamente sconosciute regioni dell’estremo Oriente, impegnandosi per stabilire corrispondenze tra le proprie scoperte e gli antichi miti geografici. Siamo di fronte a un assetto culturale che si avvale di categorie antiquate, impedendo a Colombo la percezione dei contorni reali delle sue imprese e finendo per costituire il più autorevole freno al loro potenziale rivoluzionario.
Al contrario la formazione di Vespucci, guidata dallo zio Giorgio Antonio, noto umanista fiorentino, fu ispirata al modello umanistico e bene indirizzata sul versante astronomico-matematico. È questo retroterra che, da un lato, giustifica la sorprendente carriera di Amerigo – dal modesto ruolo di agente commerciale dei Medici al prestigioso incarico di Piloto mayor della monarchia di Spagna – e, dall’altro, gli consentì di interpretare le proprie esperienze di viaggio alla luce della scienza dei cieli non meno che di quella della Terra. I due viaggi vespucciani del 1499-1500 e del 1501-1502 fissarono nella coscienza europea la consapevolezza della stupefacente realtà di un intero ‘nuovo mondo’ (e delle sue popolazioni): i calcoli astronomici portavano infatti a escludere che le coste lungo le quali Amerigo aveva navigato potessero far parte del mondo conosciuto.
Questa acquisizione aprì la via a una serie di conseguenze rilevantissime che caratterizzarono in profondità quella fase della storia europea segnata non solo dalla percezione positiva dei tanti successi conseguiti, ma anche dal lungo periodo di crisi e trasformazioni noto come «shock delle scoperte». L’espressione definisce il prolungato sforzo intellettuale teso a rimodulare la visione europea del mondo proprio in conseguenza dell’afflusso di un’enorme quantità di informazioni, spesso non integrabili agevolmente nel sapere tradizionale, relative a terre e popoli nuovi. Per questo i viaggi di scoperta avviarono un percorso culturale estremamente complesso che, se da un lato comportò la ridefinizione della geografia del mondo, dall’altro contribuì a mettere in discussione l’eredità antica, inaugurando lo spazio polemico che avrebbe poi preso il nome di querelle des anciens et des modernes. Ma l’antichità aveva altresì una dimensione religiosa. Qui, la riflessione cinquecentesca si appuntò sulle contraddizioni che l’esistenza del mondo americano e delle sue innumerevoli genti evidenziavano nel tessuto delle Sacre Scritture: da questo punto di vista, i viaggi di scoperta stanno all’origine dell’itinerario che avrebbe portato a Baruch Spinoza e a Richard Simon.
La grande stagione della ‘letteratura di viaggio’, protrattasi dagli inizi del 16° sec. agli albori del secolo scorso, attesta il rilievo crescente assunto, dal Rinascimento in poi, dai viaggi come momento importante per la produzione di conoscenza. L’Italia contribuì alla costruzione di questo genere letterario non solo con molti importanti testi odeporici, ma anche con la prima, fondamentale riflessione sul viaggio come fattore di conoscenza. Ci si riferisce alla monumentale opera di Giovanni Battista Ramusio (1485-1557), Delle navigationi et viaggi, i cui tre volumi vennero pubblicati a Venezia tra 1550 e 1559. Si tratta di una ricchissima raccolta di relazioni di viaggio, antiche, medievali e – soprattutto – contemporanee, che nel loro insieme raccontano il progressivo precisarsi dei contorni del mondo grazie alle imprese di generazioni di viaggiatori. Gli italiani costituiscono un folto gruppo, in cui oltre ai nomi già citati di Marco Polo, Colombo, Vespucci, Da Mosto, si incontrano quelli di Ludovico de Varthema e Andrea Corsali, Niccolò de’ Conti e Girolamo da Santo Stefano (tutti impegnati nell’esplorazione dell’Asia meridionale); di Antonio Pigafetta, autore del principale resoconto sulla circumnavigazione del mondo guidata da Fernão de Magalhães; di Pietro Querini e dei fratelli Niccolò e Antonio Zeno (tra i primi a descrivere l’Atlantico settentrionale e le sue isole); di Giosafat Barbaro, Ambrogio Contarini, Caterino Zeno, frequentatori dell’impero persiano; di Sebastiano Caboto e Giovanni da Verrazzano, che avevano messo la propria abilità marinara al servizio dei grandi Stati (Spagna, Inghilterra, Francia) impegnati nelle conquiste extraeuropee.
Nata quando la grande stagione della cultura rinascimentale volgeva al termine, l’opera ramusiana traccia un bilancio complessivo dell’età decorsa, e porta il lettore a constatare che i capolavori della geografia classica ammirati fino a pochi decenni prima (Tolomeo, Strabone, Pomponio Mela) erano oramai inadeguati a descrivere la nuova realtà geografica dei viaggiatori dell’età contemporanea. Al tempo stesso, questi viaggiatori appaiono nel Navigationi come agenti degli Stati europei spinti verso gli altri continenti dalla brama di ricchezza e di potere: dunque le dinamiche produttive di conoscenza sono al contempo funzionali al conseguimento di obiettivi politici ben precisi, e le carte geografiche in cui andrà a depositarsi questa maggiore consapevolezza saranno strumenti fondamentali per il dominio coloniale in via di costruzione.
La formazione umanistica di Ramusio evidenzia un fatto importante, ossia che fu proprio la cultura cresciuta in tutta l’Europa sulle radici dell’Umanesimo ad affrontare lo «shock delle scoperte» di cui si è detto, tentando di comporre in nuova sintesi le infinite contraddizioni nate da una sempre più approfondita conoscenza del mondo e dei suoi abitanti. Così, quello umanistico è il lievito che continuò ad agire nelle più rappresentative personalità dei viaggiatori italiani del tardo Cinquecento e del Seicento, ossia Filippo Sassetti, Filippo Pigafetta e Pietro Della Valle.
Le trentacinque lettere scritte da Sassetti (1540-1588) tra 1570 e 1588 (pubblicate solo nel 18° sec.) danno conto dei viaggi che portarono questo mercante fiorentino dapprima (1578) nella penisola iberica, poi, dal 1583, in India, dove soggiornò in diversi centri del Malabar e soprattutto a Goa, capitale dell’Estado da India portoghese. Di non mediocre cultura, membro in gioventù di accademie della sua città, Sassetti impegnò una personalità attenta e curiosa nell’osservazione dei molteplici aspetti della realtà indiana, riversando in uno stile letterariamente efficacissimo le sue notazioni sulla società e la cultura non meno che su piante e animali, pervenendo spesso, proprio in virtù di un’intima adesione ai modelli culturali umanistici, a intuizioni acute e originali, come quando individuò una relazione non banale tra le lingue europee e il sanscrito, o analogie tra la medicina indiana e quella greca.
Anche nel caso di Pigafetta (1533-1604), lontano parente del compagno di Magalhães, la formazione culturale rappresenta l’elemento fondante di un’intera personalità che, tuttavia, più che seguire le esigenze della logica mercantile, evidenzia robuste venature controriformistiche. Autore prolifico e traduttore anche di opere teologiche, combattente (a Lepanto), indagatore della realtà politica contemporanea, Pigafetta alternò periodi di studio a molti viaggi, intrapresi «patendo la sua natura molto con lo star fermo». Documento ammirevole delle sue doti di osservatore è il suo Relatione o viaggio […] dell’Egitto, dell’Arabia, del mar Rosso et del Monte Sinai, in cui si intrattenne con acume e precisione sulla piramide di Giza, sulla natura degli obelischi, sulle mummie, riflettendo inoltre sulla vexata quaestio delle piene niliache e sulla fattibilità di un canale di comunicazione tra il corso del Nilo e il Mar Rosso.
Diversissima, eppure orientata culturalmente a esiti analoghi, la personalità straripante del nobile romano Pietro Della Valle (1586-1652), che nei dodici anni trascorsi in Oriente intrattenne una copiosa corrispondenza con l’amico medico e naturalista Mario Schipano, utilizzandola poi per trarne quei Viaggi che già nel Seicento, tradotti in più lingue, ottennero un rimarchevole successo editoriale (la prima parte sulla Turchia edita nel 1650, sulla Persia nel 1658 e sull’India nel 1663). La notevole cultura di Della Valle gli consentì di dedicarsi con perspicacia a un ampio arco di temi, con osservazioni sul campo in diversi siti (a Persepoli, tra gli altri), trascrivendo iscrizioni, intervenendo su problemi archeologici, individuando tra i primi i caratteri cuneiformi come sistema di scrittura, poi con l’impegno di studioso di diverse lingue orientali per le quali raccolse, tradusse e compilò dizionari e grammatiche; infine, più in generale, dando consapevolmente di sé in quanto viaggiatore un’immagine alta, di mediatore dell’incontro e del dialogo tra culture diverse, da cui dipese la propria ripetuta professione di cosmopolitismo.
Nelle scritture di questi viaggiatori si coglie un serrato confronto tra la tradizione culturale europea e il crescente patrimonio delle nuove acquisizioni disponibili sull’intero teatro del mondo, nell’intento di cogliere in una sintesi più ampia e penetrante il senso della realtà.
Ma durante i secoli dell’età moderna la proposta umanistica venne fatta propria anche da una diversa tipologia di viaggiatori, tra i quali, di nuovo, gli italiani sono moltissimi. Ci si riferisce ai missionari, e in particolar modo ai membri della Compagnia di Gesù, che dal 1540, anno dell’istituzione della stessa, al 1773 (quando il breve Dominus ac redemptor di papa Clemente XIV ne dispose la soppressione), si dedicò con straordinario impegno all’evangelizzazione delle popolazioni extraeuropee d’America e d’Asia. In questo modo, l’incontro con Paesi e popolazioni del mondo diventava questione religiosa, impresa missionaria «ad maiorem Dei gloriam», secondo quanto recita il motto della Compagnia; sicché nelle opere di questi viaggiatori la raccolta di informazioni e lo sforzo di conoscenza sono il più delle volte funzionali alla buona riuscita del lavoro spirituale.
Così, l’opera che all’inizio del Seicento prese il posto delle Navigationi et viaggi (non senza saccheggiarne tacitamente i contenuti) furono i quattro volumi delle Relationi universali (1602), opera del gesuita mancato Giovanni Botero: grandioso compendio di geografia politica e al tempo stesso bilancio del lavoro missionario intrapreso dalla Chiesa della Controriforma. E tuttavia le Relationi non furono il frutto di una personale esperienza nelle lontane terre di missione; così come non lo furono il principale monumento storico-letterario dell’impegno evangelizzatore della Compagnia, ossia l’incompiuta Istoria della Compagnia di Gesù del gesuita ferrarese Daniello Bartoli, di cui qui va ricordata la sezione intitolata all’Asia (1653), suddivisa nelle tre parti dedicate alle Indie orientali, al Giappone e alla Cina. Se qui è parso opportuno farvi riferimento, è anche per sottolineare come il lavoro svolto da Botero e da Bartoli potesse contare su di una ferrea organizzazione di raccolta documentaria in grado di far confluire a Roma lettere e resoconti che i padri dovevano spedire dalle proprie sedi, senza contare il lavoro di pubblicazione delle collezioni di Avisi (dalla metà del Cinquecento) e delle Lettere annue che (dal 1581) informavano la pubblica opinione europea sui successi della Compagnia.
Ma, come si è accennato, nella prospettiva dei padri questa raccolta di dati e informazioni da portare all’attenzione dell’Europa rappresenta tutto sommato un aspetto secondario (ciò che noi definiremmo promozione del proprio lavoro), dal momento che nell’attività missionaria prende corpo quello che si potrebbe definire il rovesciamento degli obiettivi del viaggio: si tratta infatti di portare non più il mondo all’Europa, ma l’Europa (la sua fede, ma anche i suoi valori, la sua cultura, la sua organizzazione economico-sociale) alle più diverse parti del mondo. Il fatto è che – come aveva compreso benissimo il gesuita José de Acosta riflettendo sull’evangelizzazione dei popoli americani – il successo della cristianizzazione implica un preventivo sforzo di europeizzazione. È in questa prospettiva che andranno considerate le esperienze dei tanti gesuiti italiani, da Francesco Giuseppe Bressani, attivo tra gli amerindi delle colonie francesi dell’America Settentrionale, e da Antonio Criminali, Niccolò Lancellotti e Roberto de’ Nobili, apostoli dell’India, a Michele Ruggieri, protagonista del primo tentativo di evangelizzazione dell’impero cinese.
Ma è poi soprattutto sul gesuita maceratese Matteo Ricci (1552-1610) che occorre fissare l’attenzione, e sulla strategia da lui messa a punto per fare breccia nella diffidenza dei funzionari del Celeste impero nei confronti degli stranieri. Partito alla volta dell’Oriente nel 1578, presente sul suolo cinese dal 1581, Ricci non avrebbe mai più rivisto l’Europa, trascorrendo in Cina molti più anni di Marco Polo. La sua chiave d’accesso alla stima e all’amicizia dei potenti mandarini che gli aprirono la strada fino alla corte imperiale fu la scienza europea, dalla matematica all’astronomia alla cartografia. La possibilità di predicare il Vangelo fu dunque ottenuta grazie alla trasmissione di un sapere rimasto fino allora estraneo alla pur civilissima Cina: sono simbolo eloquente di ciò sue opere come la traduzione di Euclide in cinese, o le cinque successive edizioni (l’ultima su richiesta dello stesso imperatore Wang Li) del mappamondo, pure in cinese, che Ricci aveva realizzato a partire dal planisfero di Ortelio, collocando però – genialmente – la Cina al centro della rappresentazione.
Abbiamo fin qui dato conto di un lungo periodo, in cui i viaggiatori italiani costituirono spesso l’avanguardia della società europea nei suoi rapporti con il resto del mondo. Quest’epoca si chiude nel corso del 17° sec., per la buona ragione che, su di un piano generale, i piccoli Stati italiani e le loro élites vengono progressivamente tagliati fuori dai circuiti di un commercio mondiale sempre più inquadrato nelle strategie operative delle grandi Compagnie commerciali, come l’olandese VOC (Vereenigde Oostindische Compagnie) e l’inglese East India Company. Di conseguenza, il prototipo del viaggiatore del Settecento assume le sembianze di uomini come James Cook o Louis-Antoine de Bougainville, dietro le cui imprese si scorgono la potenza dei rispettivi Stati e gli interessi dei loro imperi coloniali: questi e altri viaggiatori dedicarono la propria vita ad attività non solo qualificabili come scientifiche, ma riconducibili altresì a grandi progetti politico-culturali ispirati a una sistematicità di ricerca che è condizione di fondo della loro riuscita. Questo dato strutturale è in genere assente dalle esperienze di viaggio italiane del 18° sec.; fanno tuttavia eccezione alcuni casi non particolarmente eclatanti dal punto di vista della singolarità dell’impresa, ma caratterizzati, in compenso, dalla ricerca di quella «pubblica utilità» che ispira le grandi imprese di altri Paesi europei.
È questo il caso di Vitaliano Donati (1717-1762), botanico dell’Università di Torino incaricato da Carlo Emanuele III di Savoia di recarsi in Egitto con il doppio scopo di studiare agricoltura e commercio locali, ma altresì di raccogliervi «qualche pezzo di antichità e manoscritto raro». Nei due anni della sua permanenza in Africa (da cui non avrebbe fatto ritorno), Donati raccolse e spedì in Piemonte venti grandi casse di reperti, conservati poi nel Museo della regia università di Torino: il nucleo fondativo del Museo Egizio di Torino.
L’interesse per la flora extraeuropea motivò anche il viaggio americano di Luigi Castiglioni (1757-1832), nipote di Pietro Verri, che negli Stati Uniti si dedicò all’individuazione di specie autoctone coltivabili con profitto in Europa, non senza interessarsi alle recenti vicende storico-politiche della Rivoluzione americana. In un certo senso complementare a quella di Castiglioni fu l’esperienza del fiorentino, ma vero e proprio cittadino del mondo, Filippo Mazzei (1730-1816), che in Virginia, tra 1773 e 1779, si dedicò a impiantare una tenuta agricola «allo scopo di coltivare e produrre vino, olio, piante d’agrumi e seta», studiando altresì le potenzialità del commercio tra Europa e America. Il nome di Mazzei, pubblicista vicino agli ideali repubblicani (prese parte attiva agli scontri dei ribelli americani con le truppe inglesi) nonché amico di Thomas Jefferson, è legato soprattutto ai quattro volumi delle sue Recherches historiques et politiques (1788), scritte su sollecitazione di Jefferson allo scopo di perorare la causa degli Stati Uniti contro i loro detrattori europei. In questo modo, l’opera entrò a pieno titolo nel dibattito settecentesco sulla pretesa inferiorità del continente americano, quella Disputa del Nuovo Mondo a cui Antonello Gerbi dedicò un libro indimenticabile (Gerbi 1955, 20003).
Queste pagine si chiudono sulle vicende di due viaggiatori tra loro assai diversi (per origini sociali, carriere, interessi), i cui destini appaiono però accomunati dall’esito amaro delle loro esperienze.
Il primo, il nobile lunigianese Alessandro Malaspina (1754-1810), ufficiale di carriera nella marina militare spagnola, mise a punto assieme al collega José Bustamante y Guerra il progetto di un’ambiziosa spedizione, con lo scopo di organizzare una campagna di documentazione sui domini coloniali spagnoli. Il viaggio, approvato dal governo e condotto su due corvette equipaggiate dei migliori strumenti nautici e scientifici disponibili all’epoca, durò cinque anni (1789-1794) nel corso dei quali vennero toccati tutti i principali possedimenti spagnoli, dall’America Latina alle Filippine, assemblando un formidabile corpus di dati relativi a cartografia, idrografia, storia naturale, statistica, etnologia. Ma Malaspina, caduto in disgrazia per questioni politiche dopo il suo ritorno, non poté cogliere i frutti del proprio lavoro: molti documenti della spedizione vennero pubblicati dal governo senza neppure nominarlo, e solo nel 1885 uno studioso spagnolo curò la pubblicazione del diario di viaggio tenuto dall’ufficiale, rendendo noto il suo operato e i suoi meriti.
Il secondo viaggiatore, il giovane e promettente artista bolognese Luigi Melchiorre Balugani (1737-1771), fu assunto dal nobile scozzese James Bruce per documentare graficamente la spedizione organizzata per esplorare il Nilo Azzurro. Il lavoro di Balugani fu in realtà molto più ampio: oltre a circa 300 disegni relativi a flora e fauna etiopiche, egli redasse un diario minuzioso del viaggio, corredato di dati meteorologici e osservazioni astronomiche. Il diario si interrompe bruscamente, l’11 marzo del 1771: ammalatosi, il giovane bolognese non avrebbe fatto ritorno in patria. Anni dopo, nel 1790, Bruce pubblicò i Travels to discover the source of the Nile in the years 1768, 1769, 1770, 1771, 1772 and 1773, dove di Balugani e del suo lavoro si cercherebbe vanamente traccia. Solo di recente alcuni studiosi anglosassoni, esplorando gli archivi di Bruce, hanno potuto documentare la maestria grafica del pittore bolognese, concludendo che egli «merits a place among the more outstanding botanical artists of the later eighteenth century» (Hulton, Hepper, Friis 1991, p. 60).
La lunga condanna al silenzio di Malaspina e di Balugani costituisce l’emblematico epilogo di queste pagine. Con loro si chiude l’epoca in cui i viaggiatori italiani erano stati in prima fila nel raccontare e spiegare la complessità della Terra; nel nuovo secolo, questo ruolo sarebbe stato riservato ai grandi imperi coloniali, nuovi protagonisti della storia mondiale.
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