Viaggiare in Mesopotamia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel variegato paesaggio mesopotamico, i piccoli e i grandi centri abitati hanno da sempre avuto la necessità di comunicare fra loro, per scambiarsi beni primari o di lusso e per mantenere relazioni diplomatiche. Nel corso dei secoli, le rotte utilizzate sono rimaste pressoché identiche e solo i mezzi impiegati per percorrerle sono parzialmente mutati.
Il Vicino Oriente è un mosaico di paesaggi diversi giustapposti uno all’altro a distanze ravvicinate. Dalle grandi valli fluviali della Mesopotamia, formate dal Tigri e dall’Eufrate, si passa ad est ai monti degli Zagros e al plateau iraniano; a nord si trova l’altopiano anatolico, mentre ad ovest si estende un impervio e immenso deserto, costellato da occasionali oasi. Dal deserto si passa alla steppa, poi al tavolato della Siria centrale, a zone paludose e ancora a montagne, foreste e piccole valli che si aprono sul mare Mediterraneo. Gli insediamenti umani organizzati si sono sempre concentrati nelle zone più adatte a supportare la vita, lasciando gli ampi spazi fra esse pressoché disabitati. In un ambiente simile non è facile viaggiare, soprattutto considerando che non esistono vere strade, se non nelle immediate vicinanze dei centri più grandi. La loro costruzione richiede tempi lunghi, la loro manutenzione è costosa. Diventerebbero facile bersaglio delle tribù nomadi e dei predoni, il cui regno sono gli immensi spazi non abitati. Ci si sposta da un centro all’altro, quindi, solo quando è necessario e i motivi che spingono a viaggiare sono sostanzialmente due: il commercio e la guerra.
Le prime forme di commercio a lunga distanza risalgono alla preistoria, già nel VI millennio a.C. in Siria e in Mesopotamia si utilizza l’ossidiana proveniente da Çatal Höyük, nell’Anatolia centrale, e dalla zona del Lago di Van. Arrivano da lontano anche le pietre dure, le conchiglie e i metalli utilizzati per realizzare oggetti di pregio. Sono tutti materiali scarsamente ingombranti e relativamente leggeri che possono essere trasportati a piedi dai pastori nomadi transumanti, i quali passano stagionalmente in zone disabitate ricche di minerali, dove li estraggono per offrirli poi ai popoli dell’alluvio mesopotamico in cambio di altri beni.
Nei primi secoli del III millennio a.C., con la crescita urbana e l’accentramento del potere, iniziano a formarsi dei funzionari specializzati che operano per conto dei palazzi e dei templi mesopotamici e si occupano di scambiare i prodotti locali con i metalli e altri prodotti provenienti da paesi lontani. Nascono grandi reti commerciali, come quella utilizzata dai mercanti assiri nel XIX secolo a.C., che scambiano le loro stoffe e lo stagno acquistato in Iran con l’argento e l’oro anatolici. Questo commercio è talmente proficuo, con guadagni che superano il 100 percento, che in Anatolia sono fondate almeno una ventina di “colonie” commerciali assire, chiamate karum.
Per trasportare le loro merci, i mercanti utilizzano asini da soma e le migliaia di tavolette scoperte a Kanesh, il karum più grande, ci offrono dettagliate descrizioni sulle quantità di merci trasportate, sul loro valore e sulle spese di viaggio. Sappiamo che i mercanti partono annualmente da Assur, con una decina di asini ciascuno, formando dei convogli che possono contare fino a 300 bestie. Formare grossi gruppi è il metodo migliore per difendersi dalle scorribande dei predoni o dagli attacchi di animali selvatici. Ogni asino è caricato normalmente di due sacche, contenenti stagno, legate lateralmente alla sella e di un carico di tessuto posto sopra la stessa, per un peso complessivo di 90 kg. Ogni giorno si percorre una tappa di viaggio corrispondente mediamente a 25 km, impiegando una cinquantina di giorni per giungere da Assur a Kanesh, dove viene venduta la merce e parte degli asini. Infatti, poiché sette o otto sicli di stagno sono ceduti per un siclo d’argento, il carico del ritorno è molto più leggero e il numero di animali necessario per trasportarlo minore.
Pur ricchi d’informazioni, i testi non riportano molti particolari riguardanti le rotte seguite, ma un paio di passaggi sono quasi obbligati, ad esempio i guadi e i passi montani, ed è probabile che i percorsi seguiti dai mercanti assiri non siano molto diversi da quelli delle spedizioni militari o dei viaggiatori che attraversano quelle terre nel corso dei millenni seguenti.
Come i mercanti anche i messaggeri che portano la corrispondenza da un regno all’altro viaggiano per lungo tempo a piedi, fintanto che nel XIV secolo a.C. non iniziano a servirsi del cavallo, il cui utilizzo si diffonde velocemente e viene presto impiegato anche in guerra e nelle battute di caccia come ci mostrano i bassorilievi assiri, gli stessi che testimoniano, a partire dal XI secolo a.C., l’uso del cammello.
Non si viaggia solo a piedi o su dorso d’animale. In Mesopotamia il mezzo più comodo per spostarsi sulle lunghe distanze è quello fluviale: il Tigri e l’Eufrate, coi loro numerosi affluenti e canali d’irrigazione, offrono una rete di comunicazioni capillare, che permette il trasporto di pesi ingenti in maniera più economica e veloce rispetto alle vie di terra. I grandi blocchi di pietra o il legno pregiato che serve alla costruzione di templi e palazzi non sarebbero trasportabili con l’utilizzo dei soli asini e per questo, ogni grande città ha nelle vicinanze, se non al suo interno, almeno un porto.
Esistono vari tipi d’imbarcazioni. La più piccola e semplice, parte essenziale dell’equipaggiamento dei soldati, è una normale pelle di animale, che gonfiata permette ad una singola persona di attraversare un corso d’acqua. Unendo fra loro più pelli, anche molte decine, si può far galleggiare una zattera di legno, chiamata kalakku. Inoltre, con questo metodo, la perdita o la rottura di una pelle-sacca d’aria non compromette il galleggiamento del mezzo. Un secondo tipo d’imbarcazione realizzata impermeabilizzando con pelli o bitume una grossa cesta circolare fatta di giunchi, è la quppa, riprodotta in un modellino di argilla datato alla fine del V millennio a.C. rinvenuto ad Erdu. È interessante notare come nelle zone rurali della Mesopotamia siano tuttora utilizzate imbarcazioni simili alle due descritte, chiamate rispettivamente kelek e quffa. Uguali a quelle moderne sono anche le canoe, mosse a spinta o a remo, di cui si conoscono molte raffigurazioni su sigillo. Nel cimitero reale di Ur, oltre ad una copia miniaturistica di canoa in argento, sono stati scoperti anche resti di bitume sui quali sono visibili i segni della trama dei giunchi che un tempo foderavano le imbarcazioni.
Per trasportare le merci più pesanti e ingombranti si usano grandi chiatte, che una volta giunte a destinazione sono smontate e il loro legno, merce costosa in Mesopotamia, è rivenduto e utilizzato per la costruzione di edifici. Come le chiatte, anche le altre imbarcazioni descritte hanno il fondo piatto, una caratteristica fondamentale, che permette di utilizzarle anche nelle zone paludose o per percorrere i rami secondari dei canali.
La navigazione fluviale non è priva di controindicazioni. I tragitti verso le foci dei fiumi, con il favore della corrente e dei venti che soffiano nella stessa direzione, sono agevoli, mentre quelli in senso contrario richiedono tempi quattro volte più lunghi e devono essere effettuati trainando le imbarcazioni dalla riva. Inoltre non sempre è possibile navigare: il periodo più favorevole rimane la primavera, mentre durante il resto dell’anno si rischia di sfracellare le imbarcazioni, in estate contro qualche secca e durante le piene invernali per le correnti troppo forti.
Le imbarcazioni più grosse sono costruite senza la realizzazione dello scheletro, semplicemente tagliando una serie di mortase sia sulla prima asse della chiglia che sulla seconda e unendole poi con dei tenoni fissati da pioli, procedendo così fino alla base e ripetendo l’operazione per l’altro lato. In ogni caso, è probabile che i popoli mesopotamici non si avventurassero sul mare o che al massimo si limitassero ad azioni di piccolo cabotaggio. Gli scambi commerciali con paesi lontani come Dilum (Bahrein), Magan (Oman) o Melukhkha (forse la valle dell’Indo), avvengono grazie a vascelli provenienti da questi paesi, che dal Golfo Persico penetrano nelle foci di Tigri ed Eufrate per poi trasbordare le merci su imbarcazioni locali.
Nonostante la ricchezza di corsi d’acqua, non tutti i luoghi sono raggiungibili per via fluviale e in molti casi si è costretti a muoversi per terra. Il primo veicolo terrestre conosciuto è la slitta, la cui esistenza è attestata fin dal IV millennio a.C. Questi veicoli, come i successivi carri, sono costruiti in legno, un materiale deperibile, per cui non abbiamo che rare prove dirette della loro esistenza, attestata però dalle rappresentazioni che ne fanno artigiani ed artisti nei loro lavori. Una delle prime testimonianze è su una placchetta in pietra della fine del IV millennio a.C. proveniente da Uruk, sulla quale è rappresentata una slitta dalla punta ricurva trainata da un bovide. Un sovrano o una divinità è seduta all’interno di un abitacolo costruito sulla parte posteriore del veicolo mentre una figura nuda, che gli cammina a fianco, regge con una mano le briglie e con l’altra un bastone o una frusta. Dei logogrammi raffiguranti una slitta simile compaiono nelle tavolette di Uruk dello stesso periodo, alcuni di questi hanno anche due cerchi disegnati sotto che potrebbero essere ruote o tronchi utilizzati come rulli per facilitare l’avanzamento del mezzo sulle tratte più impervie. Un metodo simile richiede il continuo spostamento dei rulli con un notevole consumo di energie e tempi lunghi anche per gli spostamenti brevi.
La ruota piena, realizzata unendo fra loro due o tre pezzi di legno, è ampiamente utilizzata intorno al 3.000 a.C. e lo dimostrano le sue frequenti rappresentazioni sugli oggetti provenienti dalle tombe di Ur. Sul noto stendardo reale di Ur, una cassa lignea con intarsi in lapislazzuli, conchiglia e bitume che decorano le due facce maggiori, sono raffigurate due processioni, ciascuna divisa su tre registri. Su un lato, detto “della pace”, i cittadini di Ur procedono verso la figura del re portando un bottino di animali e oggetti vari. Sull’altro lato, quello “della guerra”, si vedono invece le armate di Ur trionfanti sul nemico. Qui sono raffigurati ben cinque carri, tutti dotati di quattro ruote formate dall’unione di due semicerchi e trainati ciascuno da quattro onagri, asini selvatici di piccola taglia. In uno dei veicoli le ruote anteriori sono nettamente più grandi rispetto a quelle posteriori e sulla piattaforma alla quale sono attaccate, è posizionata una cassetta aperta posteriormente e protetta davanti da un parapetto più alto. Un differente tipo di carro è visibile sul frammento di una placchetta decorativa in calcare. Il mezzo è trainato da quattro onagri, ma ha solo due ruote, formate ciascuna dall’unione di tre pezzi, una losanga centrale e due mezzelune laterali. Manca anche la cassetta, sostituita da una specie di sedile coperto da una pelle di leopardo, e gli animali, che nello stendardo sono collegati al veicolo da un palo obliquo che parte dalla base dello stesso, qui sono aggiogati da un bastone ricurvo. Entrambi i tipi di carro sono collegati all’ambiente guerresco e cerimoniale di corte e sembrano adatti solo al trasporto di persone.
Straordinariamente, sempre nel cimitero reale di Ur, sono state trovate le tracce di due veri carri. Il legno è un materiale deperibile e non si è conservato ma, al momento dello scavo, la struttura era chiaramente visibile nell’impronta lasciata nella terra. Uno aveva quattro ruote identiche, da un metro di diametro, l’altro due da 60 cm e due da 80. Entrambi erano trainati da tre buoi, i cui scheletri erano ancora attaccati ai veicoli, affiancati da quelli dei palafrenieri. Dalla necropoli reale proviene anche l’unico esempio conosciuto di slitta. Il mezzo, che faceva parte del corredo funebre della regina Puabi, è decorato da intarsi preziosi e da protomi leonine e bovine in oro, con un passabriglie in argento raffigurante un asino, finemente lavorato. Anche qui sono stati rinvenuti gli scheletri di due asini, con i loro collari in rame.
Un diverso modello di carro è attestato da alcune riproduzioni miniaturistiche in argilla, databili alla fine del III millennio a.C. Questi modellini, a due o quattro ruote, raffigurano un mezzo dotato di una cassetta montata sulla base, fornita di uno o due lobi sul davanti, che servono probabilmente ad attaccare gli animali da tiro. La cassetta è ricoperta da una tettoia a forma di U rovesciata, che ricopre interamente i lati e spesso è chiusa sul retro. Le righe a volte tracciate sulla copertura, fanno presumere che quelle dei carri veri fossero di vimini intrecciati. Spesso le ruote originali dei modellini non sono conservate, ma se ne conoscono molti esemplari sparsi e si tratta sempre di ruote piene. A differenza dei precedenti modelli descritti, questo carro può essere utilizzato per il trasporto di merci, ma l’alto costo che ha il legno necessario a costruirlo e l’assenza di strade lastricate, rendono poco conveniente il suo utilizzo, e di conseguenza viene impiegato solo per brevi tragitti, nonostante un simile mezzo, trainato da due buoi possa trasportare il carico di sei o sette asini. Più che al carro, dove il trasporto fluviale non è possibile, si ricorre all’uso della slitta, più adatta a percorrere anche terreni accidentati o paludosi.
Il passaggio a ruote più leggere, costituite da un cerchio dotato di un numero pari di raggi, da due a otto, avviene solo nel corso del II millennio a.C. L’alleggerimento della struttura permette la sostituzione delle tradizionali bestie da soma con il cavallo, meno potente ma molto più veloce. Una delle più antiche testimonianze di un veicolo dotato di ruote a raggi e trainato da cavalli si ha su un prezioso piatto in oro trovato ad Ugarit, databile al XIV secolo a.C. e raffigurante una caccia al toro. Le ruote a quattro raggi sono due, posizionate sulla parte posteriore della corta base del veicolo, circondata da una balaustra ed in grado di contenere due persone affiancate. Il carro della caccia al leone di un rilievo in pietra del IX secolo a.C. proveniente dal palazzo di Assurnasirpal II a Nimrud presenta le stesse caratteristiche. Aumentano solo il numero dei cavalli, che diventano tre, e dei raggi delle ruote, che passano a sei. Notevolmente più grande, ma sostanzialmente uguale nella struttura, è il carro con cui Assurbanipal passa in rassegna i prigionieri in un rilievo ninivita del VII secolo a.C. Da notare la presenza di una fascia ondulata, probabilmente di metallo, che corre attorno alla grande ruota a otto raggi e che serve ad aumentarne la resistenza. Anche con l’alleggerimento della ruota, l’uso del carro rimane relegato prevalentemente ad attività regali, come la caccia, la guerra o le parate.