Viaggiare
Altri possibili titoli: viaggiare nell’epoca della riproducibilità digitale del mondo; viaggi nel qui e ora dell’altrove; viaggiatori giunti al di là delle mappe spazio-temporali, oltre le vie segnate secondo le misure geopolitiche della vicinanza e della distanza fisica. Viaggiare come mentalità, territorio mentale; e ora come mentalità dei territori postumani in cui abitiamo. Questi sono i concetti chiave con cui sintetizzare il punto di vista che si è cercato di fare emergere in questo saggio sul tema del viaggiare, affrontato in modo non sistematico ma inseguendo suggestioni, proprio come si addice ai tratti costitutivi di un viaggio suggestivo: il colpo d’occhio su un paesaggio composto di tanti luoghi e strade e sentieri, ciascuno con le sue memorie e i suoi racconti, ciascuno con le sue immagini e i suoi abitanti, visibili e invisibili. Il suo tempo trascorso e la sua attualità. I suoi enigmi dis-umani. Il nostro desiderio di vivere nella sua instabilità e devianza o rassicurazione e risarcimento. Tentando, a un certo punto del viaggio, di capire dove si sia davvero arrivati, se si sia mai partiti, se ci sia una meta che ci attende o un’origine a cui poter tornare.
Cercando il termine viaggiare su uno dei motori di ricerca di Internet e procedendo – per intuito e insieme distrazione, per serendipity – tra gli innumerevoli risultati raggiunti (soltanto su Google se ne contano 6.300.000) ci si imbatte in una citazione: «Non si considerava un turista, bensì un viaggiatore. E in parte la differenza sta nel tempo, spiegava. Laddove, in capo a qualche settimana o mese, il turista si affretta a far ritorno a casa, il viaggiatore, che dal canto suo non appartiene né a un luogo né all’altro, si sposta più lentamente, per periodi di anni, da un punto all’altro della terra» (http://www.metaforum.it/archivio/2004/ index6062.html?t4765.html, 10 giugno 2009).
Questa citazione serve da esordio – e come tale è usata anche qui – a un interessante intervento sui rapporti tra viaggio e letteratura scritto da Luca Malavasi che così commenta: «la distinzione, ben nota, è posta in apertura a Il tè nel deserto di Paul Bowles, storia di Kit e Port, viaggiatori per cui lo spostamento nel tempo e la dilatazione imprevista della sua durata nascondono, in realtà, l’incapacità di definirsi (di situarsi) in rapporto a un’origine. Ma rivelano anche una condizione, quella del viaggiatore appunto, diventata ormai impraticabile (il romanzo è del 1949), tanto che il loro viaggiare somiglia piuttosto a un fuggire dalla dimensione ‘turistica’ della vita, e la loro esperienza del viaggio, non a caso, si piega quasi subito verso il paesaggio interiore, con una certa indifferenza per ciò che li circonda. Il luogo diventa un mezzo, non un fine, e lo spostamento un’esperienza privata, mai completamente comunicabile. In effetti, all’epoca della pubblicazione del romanzo la distinzione fra viaggiatori e turisti possiede già una sua complessità sociologica che fa di Port e Kit due figure inattuali di contro al loro compagno di viaggio, Tunner, al quale la distinzione è orgogliosamente (e con una punta di disprezzo) indirizzata. Questi incarna infatti il ritratto più prossimo al turista borghese, ma soprattutto testimonia delle trasformazioni sociali e culturali che hanno ormai messo in crisi un modello di viaggiatore ancora ben vivo fino a tutto l’Ottocento» (Viaggio alle origini del turismo, «il manifesto», 22 ag. 2004).
Questa distinzione tra viaggiatore e turista è stata messa in rilievo dal sociologo Rachid Amirou (1995) che, dichiarandosi giustamente contrario al carattere ideologico di una simile contrapposizione, vi ha visto la ricorrenza di una tipica questione sociale: il conflitto tra modelli culturali elitari e modelli culturali di massa, tradizione e consumo, individualismo e collettivismo. La questione sollevata da Amirou non è diversa dai pregiudizi di casta, classe o ceto che all’autenticità dell’arte hanno voluto contrapporre in negativo l’inautenticità dei prodotti dell’industria culturale, al museo la televisione, al vero il falso, al duraturo l’effimero, all’individualizzazione l’omologazione.
Eppure l’infondatezza teorica di questo genere di contrapposizioni tra l’alto e il basso, tra il centro e la periferia, tra la qualità e la quantità, ha un suo fondamento – semplice per la sua evidenza storica e sociale – nei conflitti di potere che le ideologie di volta in volta riescono a travestire in guisa di ragioni etiche, estetiche e politiche, ma anche in guisa di mode. La strumentalità sociale delle ideologie in quanto costruzioni di senso mirate a uno scopo sostanzialmente politico – di governo e amministrazione della città – si è espressa nell’arco di millenni: dalle varie forme di rappresentazione del mito attraverso rielaborazioni orali e scritte di narrazioni inattingibili alla loro fonte, si arriva alle forme di rappresentazione dei mass media attraverso una continua ri-mediazione (cfr. J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding new media, 1999; trad. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, 2002) di quegli stessi miti originari. La natura per così dire fatale di queste rielaborazioni mediali del mito ha dominato lo sviluppo delle società umane realizzando una progressiva trasformazione dei prodotti culturali di maggiore intensità simbolica al fine di renderli adatti a includere nel proprio spazio di fruizione margini sempre più estesi di consumatori. In qualche modo, di nuovi praticanti e adepti. Di sudditi. Così, se l’idea di surrogato culturale è nata nell’ordine di queste trasformazioni, di fatto essa enuncia non una riduzione dell’originale quanto piuttosto un suo sempre ulteriore adattamento e sconfinamento. La svista è stata sempre quella di guardare al modello e non al senso delle sue rielaborazioni collettive.
Attilio Brilli, tra i più acuti e sensibili storici del viaggio, ha potuto sintetizzare uno dei suoi fondamentali saggi sulle forme del turismo storico con il nostalgico titolo Quando viaggiare era un’arte (1995), grazie al paradigma hegeliano della ‘morte dell’arte’; ma anche grazie alle pagine di sociologia del lavoro intellettuale e della comunicazione di mercato scritte da Alexis de Tocqueville nel suo Voyage en Amérique 1831-1832, e alle pagine dedicate molto tempo dopo da Walter Benjamin (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936; trad. it. 1966) alla caduta dell’aura dell’opera d’arte a seguito delle forme di riproducibilità tecnica realizzate dalla fotografia e dal cinema. L’idea di un’arte che si riproduce attraverso la sua morte, la sua estinzione, e attraverso il riciclaggio dei suoi resti, può immediatamente funzionare da spiegazione dei processi di modernizzazione avanzata che hanno tuttavia continuato a trovare nella sfera estetica la forma di vita più esemplare per ogni campo sociale. E quindi si tratta di processi che possono anche servire a descrivere, e così di fatto è spesso accaduto, la differenza che passa – come tra romanzo e serialità televisiva – tra viaggio di formazione e turismo collettivo: dal viaggiatore goethiano tra le rovine di Roma all’alpinista solitario in vetta tra terra e cielo, alle coppie o ai single o alle comitive che popolano club turistici, stazioni termali, centri sportivi, villaggi globali e nodi di transito sparsi tra coste, monti, foreste, deserti, città morte e città vive.
Con la modernità industriale e dunque con i suoi più netti e risolutivi processi di desacralizzazione e mondanizzazione, l’avventura del viaggio mitico ed eroico – al pari dell’esperienza artistica – è passata da una dimensione spirituale, gerarchicamente canonizzata come esperienza dell’assoluto, alla dimensione di processi culturali che riproducono e, consumandoli, innovano archetipi e simboli che restano infissi nella stessa origine di tali processi. La costruzione di forme simboliche del potere sull’intera vita umana ha avuto il suo inizio in tempi immemorabili nell’erranza dei raccoglitori e dei cacciatori e infine nel transito dalle culture nomadiche a quelle sedentarie. Nei successivi millenni della storia antica e moderna e, infine, nel tempo breve della tarda modernità, queste costruzioni della realtà sono arrivate ad affinare le loro capacità di dominio spirituale e materiale attraverso la progressiva socializzazione e interiorizzazione di dispositivi culturali in grado di agire dentro sfere sempre più estese di vita vissuta.
Il viaggio è uno di questi dispositivi, forse quello che più ingloba, articola e mette in sequenza tutte le altre forme ancestrali, primitive e storiche di interiorizzazione della sovranità: dalla sfera sacrificale del sacro, della guerra, della politica e della religione, a quella economica della ricchezza e della dissipazione, infine a quella produttiva e ludica dell’abitare. Il globo terrestre è stato territorializzato e continua a esserlo da viaggi di conquista o di fuga. Niente dunque di più esteso dei contenuti e delle forme del viaggiare. E tanto più esteso quanto più si restringe il campo di osservazione al tempo breve del mondo presente. Le sue spaziature sono ora fondate sull’intensità di relazioni e valori in cui la riproduzione digitale dell’abitare va spingendosi oltre le passate forme della sua riproduzione meccanica, progressivamente assorbendo in sé tutti i vari cicli preistorici e storici della mobilità umana, dei suoi mezzi di trasporto e di comunicazione; delle sue memorie e dei suoi immaginari. L’innovazione tecnologica è il prodotto di questa imponente assunzione del passato nel presente, il modo in cui lo permuta, rendendolo possibile e praticabile non secondo i modi dell’apprendimento e della conoscenza storica bensì secondo dimensioni esperienziali (Gemini 2008). Immensi magazzini di parole, di discorsi e di immagini che si sono accumulati nel passato stanno ora confluendo – insieme alle memorie dei singoli – nella rete di relazioni situate messe a disposizione dall’informatica. Stanno rovesciandosi in universi spaziotemporali che sono andati molto al di là dell’umano, dell’umanamente comprensibile e gestibile e che tuttavia risultano tendenzialmente a disposizione dell’individuo. A portata della nostra mano.
Per descrivere un così clamoroso processo, possiamo ricorrere ad analisi volte a semplificarlo o, al contrario, metterne in rilievo l’estrema complessità. Proprio in ciò che è più complesso accade di poter attingere meglio l’essenziale. È quello che qui ci proponiamo. Senza eccedere in teorie e abbondando in descrizioni che tengano conto di un panorama difficilmente riducibile a una sola cartolina o anche a un solo catalogo di siti. Per questo motivo, qui si sorvola sulla parte più scontata del tema affrontato, quella che, pur riguardando l’innesto tra gli apparati del viaggio e i new media, concepisce e applica tale innesto in sostanziale continuità con le tradizioni moderne. In simili casi, la natura dei linguaggi numerici del computer, estremamente flessibile a qualsiasi scopo, è tale da rafforzare piuttosto che indebolire le pratiche attuate nei regimi di senso precedenti. Ma alcune attitudini qualitative dell’intrattenimento in rete stanno finendo comunque per incidere in profondità – con modi automatici, remoti – sulle misure quantitative delle sue applicazioni standard. Al contempo, un ruolo analogo e persino più significativo viene svolto da altre modalità operative di natura o inclinazione multiculturale e interattiva, nate prima di Internet o indipendentemente dalla sua affermazione.
L’odierna filiera del turismo può essere concepita secondo uno schema orizzontale e verticale in cui le mete del viaggio, l’offerta del soggiorno e i suoi contenuti trovano il concorso di fattori innovativi sempre più interdipendenti: pubblicità, accesso e procedure di acquisto di pacchetti turistici che prima di Internet non erano immaginabili, ma anche imprese di viaggi e tipologie di trasporto in grado di ridurre tempi e costi grazie a modelli organizzativi collaborativi e orientati dal basso, capaci di combinare in modo almeno parzialmente sinergico la domanda d’élite e la domanda di massa, il pubblico delle famiglie e quello dei giovani oppure degli anziani.
Il fine è di conseguire dinamiche di mercato concorrenziali e quindi, pur osservando le dure regole economico-politiche di tali dinamiche (le disuguaglianze locali e globali del liberalismo), l’obiettivo è di ottenere processi di democratizzazione dei prodotti sempre più estesi così da favorire la mobilità per lavoro o per diletto; o per le due cose insieme. Conseguente al proliferare di forme di tele-lavoro, l’integrazione tra il dover essere e l’essere è il segno di uno dei grandi mutamenti intervenuti nella società postindustriale grazie al postfordismo, cioè grazie alla caduta delle barriere fisiche tra spazi e tempi prefissati: fattore di non poco peso nella crescita della mobilità sociale anche nel campo dei viaggi (cfr. Gemini 2008, che prende in esame il film Lost in traslation, 2003, di Sofia Coppola, per spiegare il mutato rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero). Il mercato ha gradatamente dettato le qualità emergenti in questi processi. Se in un passato molto vicino – e per certi aspetti sopravvissuto (si pensi ai pellegrinaggi dei papa boys), anzi in qualche caso persino rinvigorito (si pensi ai raduni e ai rituali no global) – andavano messi in prima posizione valori collettivi di movimenti ideologici, ora invece bastano allo scopo procedure ostentative e operative sempre più garantite da vasti sistemi di rete e da piattaforme informatiche che, quando non siano ancora utilizzate direttamente dal singolo utente-cliente, costituiscono in ogni caso la nuova forza promozionale e operativa delle agenzie di viaggio: sportelli diretti o on-line in cui innovazioni di prodotto e di processo, ricerca, documentazione, informazione, prenotazione e acquisto di posti via mare, terra o cielo, così come prenotazione di alberghi, intrattenimenti, visite a città, quartieri e musei, soste o deviazioni ecologiche e paesaggistiche, acquisti di prodotti tipici o globali – e via dicendo – non sono più momenti tra loro separati. Appartengono a un solo ritmo, a un solo disegno. Sono progettati come design del viaggio. Come marketing non più soltanto di oggetti distinti ma dell’esperienza che li raccoglie in sé (Aime 2005).
Di fronte a questo quadro sembrerebbe possibile accontentarsi di una valutazione tendenzialmente semplice (comprovata da statistiche sui flussi di viaggio che mostrano un costante sviluppo della mobilità mondiale; ma anche sul volume di viaggi in continuo sviluppo, e non arrestato dalle preoccupazioni per le guerre che affliggono il pianeta e dalla percezione diffusa di pericolo; e sulla crescita dei flussi turistici che incide in maniera determinante sulla nascita di ‘nuovi turisti’ provenienti dai Paesi del Sud-Est asiatico, dalla Cina e dall’Europa dell’Est), ma, come ci ha avvertito Marshall McLuhan, il «medium è il messaggio» ovvero il medium ha in sé una natura socioantropologica e culturale che si offre come campo espressivo di trasformazioni profonde. È proprio la natura specifica delle piattaforme digitali a raccoglierle e potenziarle. All’interno e all’esterno dell’uso degli apparati informatici impiegati dalle dimensioni del viaggio e dei viaggiatori – pur sempre, come s’è detto, sostanzialmente tradizionali – accade qualcosa di diverso, si insinua e matura un’inedita composizione culturale delle partenze, dei transiti e dell’abitare. L’evento del viaggiare, nello spazio comunicativo in cui ci stiamo immergendo, si rivela.
Quello che sta accadendo è implicato nello sgretolarsi delle grandi narrazioni e dei grandi movimenti, dunque in quel processo di destrutturazione dei modelli forti di socializzazione di cui la modernità ha potuto godere per merito della rigorosa mappatura geopolitica realizzata dallo spirito occidentale del mondo proprio grazie a trame sempre più fitte di viaggi reali e immaginari. Con la Prima guerra mondiale e con le avanguardie storiche il viaggio è precipitato nell’orrore del progresso moderno e nello splendore delle sue forme estetiche. Dopo la Seconda guerra mondiale ci sono state la guerra fredda e la televisione. Crisi e ricostruzione. Le politiche democratiche e comunitarie, laiche e religiose, si muovono in modo ancora sostanzialmente disgiunto dalle politiche economiche e dallo sviluppo dell’esperienza turistica come marketing della cultura. I giovani, per es., arrivano a essere reclutati come ‘turisti in formazione’ da organizzazioni nate dentro l’associazionismo religioso. Esemplare il caso italiano del CTS (Centro Turistico Studentesco e giovanile), legato all’associazionismo cattolico. In tempi ancora recenti, i partiti della sinistra – così come era accaduto all’associazionismo operaio con le grandi esposizioni universali ottocentesche, grazie alle quali il viaggio dei lavoratori era la rivendicazione di un’emancipazione dal ruolo di sfruttati e l’ingresso nel ruolo di spettatori del proprio stesso lavoro – hanno continuato a inserire nei loro programmi l’idea di un turismo collettivo portatore di valori di progresso, di pace, tolleranza, solidarietà.
La televisione è divenuta tra gli anni Sessanta e Novanta il territorio di esperienze di consumo in cui le figure sociali privilegiate dai movimenti e dalle istituzioni – il cittadino così come il viaggiatore cosmopolita – sono state progressivamente espanse e ibridate da altre qualità, trovando la loro più tipica conformazione nello spettatore e, infine, nel consumatore. L’intero sistema multimediale dell’industria culturale di massa (fiction, informazione, pubblicità) è divenuto un gigantesco collettore di immagini che – da essere disperse nel tempo e nello spazio, in luoghi, memorie, archivi e pubblici diversi e distanti, sconnessi, tra loro – confluiscono ora nei ritmi quotidiani, insieme ciclici e lineari, del piccolo schermo. Si tratta di slittamenti culturali non indifferenti, poiché è proprio grazie alla loro resa in estensione e intensità che, rivoluzionando consolidate regole di genere, sono emersi soggetti sociali quali le donne e i giovani, sino ad allora inibiti, ovvero esclusi dalle forme di potere e mobilità dell’adulto maschio (cfr. a tale proposito A. Giddens, The consequences of modernity, 1990, trad. it. 1994; v. anche J. Meyrowitz, No sense of place, 1985, trad. it. Oltre il senso del luogo, 1993).
Questa de-generazione e femminilizzazione della società ha reso più morbide e articolate le dinamiche del viaggiare e, al tempo stesso – dopo le stagioni trasgressive e neoromantiche degli anni Sessanta del Novecento –, ha unificato le tradizioni del viaggio e le sue nuove emergenze in fasce di consumo fortemente riconoscibili, seriali, ripetitive. Di fronte al televisore e di fronte al monitor del computer ha avuto inizio una nuova clamorosa trasformazione antropologica, una nuova antropomorfizzazione del vivente. Come il corpo umano fu alle origini il risultato di una manipolazione della carne – dell’animale, dell’animato e dei suoi luoghi – dilatata in un tempo immemorabile e inconsapevole, così il corpo del soggetto moderno manipola la propria natura e sempre più ne è manipolato. Non solo i confini tra il tempo di lavoro e il tempo libero, ma anche i confini tra il tempo interiore e il tempo sociale, tra sfera privata e sfera pubblica, si infrangono transitando dalle dimensioni identitarie agite nella cornice della città a quelle agite sempre più nell’intrattenimento infinito dei media. A sua volta il tempo biologico dell’essere umano lascia spazio a una vita vissuta che non ha più età: si viaggia nel frattempo (V. Giordano, Giovani nel frattempo, in L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente, a cura di G. Ardrizzo, 2003, pp. 97-110), o si sceglie di ‘abitare il viaggio’.
È già con la televisione che il viaggio si è fatto patina di una stanza in cui gli schermi fanno da soglia tra il locale e il globale, tra il sé e il mondo. Attraverso gli schermi, l’immaginario capitalizzato e prodotto dall’industria culturale consente un abitare in cui le persone vivono e comunicano mediante simulacri collettivi. Sono essi a viaggiare, a farsi astronauti della Terra. Ogni mitologia, arte, esperienza e funzione del viaggiare è stata assorbita e polverizzata dal farsi televisione della società. Oggi la società delle reti esaspera ciò che era già implicito nelle democrazie di massa governate dalla televisione generalista: il conflitto tra persona e collettività, tra processi di ordinamento identitario e moltitudini, tra ruoli e desiderio.
I new media sono nella tipica fase in cui i decisori, i testimoni e i controllori – anche gli artisti sono compresi in queste figure del potere – negoziano il significato da dare all’innovazione tecnologica, e cioè decidono, testimoniano e controllano il contenuto da dare alla qualità transitiva dei dispositivi mediali (sul concetto di negoziazione cfr. P. Flichy, Innovation technique, 1995, trad. it. 1996; A. Abruzzese, Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, 1996). L’ondata dei new media sta crescendo e tuttavia, come si è detto, il grande mare dei mass media ancora non si è ritirato. Anzi trascina con sé – e travolgendo innalza o fa precipitare – tutti i detriti delle forme di sovranità ancora dipinte nel viaggio dei viaggi: il dio che si mostra all’umano e l’umano che si mostra al dio.
Tuttavia siamo nell’epoca del computer. E per accorgersi della differenza, basta gettare lo sguardo sugli innumerevoli blog narrativi di contenuto turistico: un fenomeno che rilancia su vasta scala le tradizioni letterarie dei diari di viaggio e delle corrispondenze postali, comprese le immagini affettive, parentali e amicali delle cartoline (Canestrini 2001). La pesantezza dei trasporti e dei supporti svanisce. Raramente un testo discorsivo su Internet enuncia qualcosa di effettivamente nuovo, ma eccezionalmente nuova è invece la modalità con cui la narrazione di viaggio viene elaborata e trasmessa; si rende visibile, accessibile, aperta allo sguardo e alla voce di altri; crea o quantomeno cerca di fare comunità spesso a fini di sopravvivenza del proprio vecchio bacino di riferimento, ma spesso anche al di là delle comunità tradizionali e prestabilite (Mascheroni 2007).
Nella rete delle chat-line e dei blog galleggiano idee – visioni, teorie, presenze – come fossero relitti di navi o piccoli e grandi scogli nel mare. Il loro fluttuare rende instabile, mutante ciò che è fisso e fisso ciò che è instabile. Sono idee più o meno emergenti, più o meno sommerse. Visibili a seconda dei flussi di spazio che ne hanno fermato il tempo. Idee più o meno segnate sulle mappe, più o meno vicine alle grandi e piccole rotte. Proprio come l’isola creata dagli studi hollywoodiani in cui abita il King Kong degli anni Trenta. Qui, il corpo sacro del dio sacrificale è tradotto, letteralmente trascinato fuori del proprio ambiente, della propria genesi, costretto a fare da corpo esotico – ed erotico – della metropoli. Oltre ai grandi e piccoli miti della bella e della bestia, in questa favola si adombrava il legame tra viaggio e antropologia, tra viaggio ed etnologia; le relazioni situate e interiorizzate tra corpo e abito su suolo urbano, durante i transiti della navigazione per mare, infine nell’isola della supremazia preistorica dell’animale sull’essere umano, dell’istinto sull’intelligenza, della crudeltà sull’umanesimo. È il vasto e integrato repertorio della cultura di massa negli anni Trenta, quando moda e riti di iniziazione, emergenze tribali e desideri della carne potevano avere luogo tanto nelle poesie e nei quadri surrealisti quanto nel cinema e nel varietà. King Kong servì da pubblicità ai Grandi magazzini e la loro linea di sviluppo si è immersa sempre più in modalità turistiche (sul rapporto tra cinema e viaggio ha scritto pagine importanti E. Morin, L’ésprit du temps, 1962; trad. it. 2005).
L’ultimo tra i tanti remake di King Kong si è riproposto – ormai congelato nell’immaginario degli anni Trenta – dopo il Duemila (King Kong, 2005, di Peter Jackson). Dopo un’altra isola misteriosa del cinema: l’isola-set-città di The Truman show (1998) di Peter Weir. Questo film racconta di un uomo qualunque, una sorta di ‘buon civilizzato’ (riedizione postmoderna del ‘buon selvaggio’), il quale ancora non sa di abitare nella pura finzione – umana, troppo umana – di un talk show, ma che, nel suo inevitabile (atteso, desiderato?) punto di crisi, scopre l’orrore della sua felicità apparente: l’impossibilità di viaggiare oltre l’abitare, oltre il proprio domicilio. La sua mente e il suo corpo sono inchiodati a un unico ‘verso’. A un sito artificiale in cui l’orizzonte tra la terra e il cielo si chiude a ogni utopia. Allevato dalla e nella finzione di uno spazio aperto, libero, questo viaggiatore senza possibile evasione impatta sulla dolorosa realtà dello spazio chiuso, vincolato. Il nostro piccolo eroe di una patria vuota e senza più radici scopre il proprio limite esistenziale sbattendo contro le pareti dello studio televisivo di un happy set che, da sempre per lui, simula come spazio infinito un luogo interamente programmato, e blindato come un container. Un luogo non-finito che lo risucchia e chiude nella Second life di una città in sé conchiusa, città penitenziaria invece che on-line. Città tipicamente americana, tuttavia, nata cioè dallo spirito di frontiera che storicamente l’ha edificata a simbolo di un viaggio di fondazione e di una riuscita colonizzazione di mondi primitivi, di nativi.
Il protagonista è Jim Carrey, non a caso già funambolico e dionisiaco interprete di una ‘faccia di gomma’ (The mask, 1994, di Chuck Russell) schizzata fuori dal fumetto, medium dei viaggi metropolitani, dei loro transiti e delle loro attese, dei loro iperluoghi, insieme personali e collettivi. Del resto gli eroi dei cartoons – per es., quelli targati D.C. e Marvel, recentemente divenuti contenuto emotivo del cinema degli effetti speciali – sono viaggiatori-residenti, cavalieri di ventura al servizio del traffico di quartiere e dei videogame stellari. Rappresentano mitologie ancestrali fatte di corpi-tuta, fasciati alla moda casual di oggetti di antiquariato e modernariato; sono caotiche intrusioni di tempi e spazi lontani dentro la continuità del presente dei consumi urbani.
Con i loro travestimenti psicosomatici – vissuti in un corpo umano-animale-vegetale-inorganico che si sdoppia, compone e scompone, secondo alterne logiche ambientali di adattamento e repulsione alle leggi del dovere essere e dell’essere – questi eroi imbastarditi e profanati ri-combinano tra loro ricordi dell’altrove e del quando, sminuzzandoli in nuovi racconti e nuove tracce di viaggi tra stanza e stanza, strada e strada, universo e universo, riuscendo a ottenere fantasmagorici effetti. Sono ciò che un tempo veniva realizzato dai planetari o dai circhi o, nei teatri, dagli illusionisti e dalle macellerie del grand guignol.
Internet sta diventando metafora del viaggiare: la tecnologia oggi più attuale sta rappresentando una forma di agire che è davvero all’origine dei tempi e dello spazio. Si va cioè capovolgendo l’uso iniziale che di questo verbo è stato fatto con l’intenzione di spiegare la natura delle relazioni digitali al computer, la loro vocazione a una erranza intelligente. Ora è Internet la grande metafora che può cominciare a dischiudere davvero i segreti del viaggio. Sul cyberspace scorrono idee liquide, erranti; loquaci icone che viaggiano e che, viaggiando, ci vengono incontro o ci abbandonano, con quella parte remota di loro che noi ignoriamo e crediamo non nostra, aliena, ma che pure ci tocca da dentro. Genius loci non più dei luoghi fisici ma della nostra intimità: interiorità che ha trovato un nuovo territorio da sperimentare, vivere, condividere.
Qui si viaggia attraverso quegli spazi che sono stati chiamati non luoghi. Non luoghi in un senso ben diverso da quello che a questa formula è stato dato da Marc Augé (nel suo testo Non-lieux. Introduction à une antropologie de la surmodernité, 1992; trad. it. 1993). Un senso che ha riscosso un grande successo presso i cultori delle istituzioni e presso i ceti intellettuali di un’opinione pubblica governata dai saperi e dai mezzi autoritativi della modernità. Non a caso: si tratta infatti di culture che appartengono all’idea di luogo come messa in forma del cittadino. I non luoghi che si intuiscono nella nuova frontiera del cyberspace, invece, sono tali perché virtualmente liberati dalle marche di confine, di contenuto e di relazione con cui la società territorializza l’esperienza e la vincola al proprio spirito occidentale (cfr. M. Castells, The rise of the network society, 1996; trad. it. 2002). Con la formula di Augé, e spingendosi persino oltre il suo tipico provincialismo intellettuale, si è invece voluto dire spazi svuotati di senso, territori dell’esperienza alienati, negati, impotenti a fronte della dignità culturale riconosciuta ai luoghi storici delle civilizzazioni antiche e moderne, alla loro capacità di incutere senso di appartenenza, controllo, partecipazione (Ilardi 2007).
La rete non è tuttavia omogenea; essendo abitata da corpi dotati di matrici diverse, comprende spazi occupati e spazi liberi, luoghi colonizzati e luoghi deserti. È agita da conquistatori e nativi. Internet mette a disposizione di clic proprio questa mutante moltitudine di partenze, tracce, soste, incontri: siti che si aprono l’uno dentro l’altro come matrioske, idee-sensazioni che nascono l’una dall’altra come rami di rovo. Di tempo in tempo, ogni viaggio ha avuto un suo specifico corpo, costituito dal viaggiatore e dalle qualità del mezzo di trasporto usato: piedi, cavallo, carrozza, nave, treno, bicicletta, auto, aereo. Sono state e sono tante le diverse maniere di somatizzare il viaggio. Viaggiare significa trasformare il proprio corpo: alterarlo, allucinarlo come accade nei viaggi sensoriali delle droghe. All’origine dei primi fondatori della rete ci sono vecchi esperti di dis-incarnazione artificiale come lo scrittore e psicologo Timothy Leary (1920-1996).
Anche per il solo viaggiare con i sensi di cui disponiamo, gli occhi e l’udito della nostra mente, è comunque in gioco un supporto che fa da veicolo a narrazioni, notizie, relazioni: parete di roccia, pergamena, carta, mura di palazzi e chiese, quadri, specchi, schermi, e via trasformandosi sino al monitor del computer. Sono due percorsi congiunti dall’esperienza vissuta: il viaggio dal vivo e il viaggio raccontato, ma – incredibile a dirsi – quest’ultimo sta scavalcando il viaggio vero, o che si presume vero, ne sta rivelando l’inconsistenza appena lo si priva delle narrazioni in grado di renderlo percepibile prima ancora di renderlo vivibile e raccontabile. Proprio spingendosi oltre i linguaggi della scrittura e dell’immagine, l’intrattenimento in rete ci sta mostrando che si è trattato sempre di viaggi che mai avrebbero potuto essere percepiti e vissuti se non nella circolarità di un mezzo espressivo che fa corpo con il viaggiatore, anzi che è il suo corpo alterato.
Davanti al computer siamo di fronte a impulsi che, invece di nascere dalla pagina di un libro, mostrano di nascere nella nostra mente cyborg, una mente tuttavia non finita, vera e propria iperdimensione in cui fluttuano disperse esperienze di mondi. I viaggi cibernetici si offrono dunque a un campo sociosemiotico che, invece di concedersi a una delle discipline di cui si suole fare uso per capire, ci immerge nella sua consistenza gassosa come forse nessun’altra dimensione umana riesce a fare con altrettanta intensità.
The mind of the traveler (1991; trad. it. 1992) di Eric J. Leed è uno dei più straordinari saggi scritti sul viaggiare, e più utili per capire il viaggio ora e qui. Esiste un’ottima bibliografia sul viaggio, ma il campo che qui stiamo indagando è sì vincolato alle forme di turismo descritte dalle storie di viaggi (vincolo che riguarda comunque le strutture profonde dell’immaginario), ma ne è anche sempre più estraneo poiché persino le strutture dell’immaginario hanno edifici, strade e piazze che cadono in rovina e rinascono in diversa combinazione. Un campo sempre più estraneo dal momento in cui – è questa una delle tesi più plausibili – il viaggiare si è sempre meno rivelato come fenomeno emergente in una specifica attività sociale, di cui potere isolare i soggetti, e come esperienza di vita modellizzata e modellizzabile nei distinti campi dell’economia o dell’organizzazione o della filosofia o dell’arte. Di pari passo con l’estetizzazione degli stili di vita dell’Occidente e con la ri-territorializzazione mediale del mondo intero, il viaggiatore si è invece ritrovato immerso nelle forme di una quotidiana esperienza comune: vita ordinaria, personale, locale e al tempo stesso globale.
Si tratta dunque di un’esperienza che si è spinta assai oltre le massime divulgazioni del viaggio elitario – mitico o eroico o medievale o borghese che sia stato – ma anche assai oltre i viaggi del turismo di massa, versione ludica ovvero postindustriale, postfordista e postnazionale di altri viaggi ben più terribili: i viaggi collettivi costituiti da esodi e migrazioni di gruppi etnici e di intere genti, o dagli eserciti di guerre di conquista e invasione (con sommovimenti territoriali pari alle catastrofi naturali, carestie e pestilenze che dalla morte ricavano nuovi cicli di vita). A ragione Leed ha tuttavia descritto come «viaggi di ritorno» questo scorporarsi del viaggio storico e delle identità forti dei fondatori o dei conquistatori o dei romantici o dei colonialisti alla continua ricerca di nuove forme di esperienza originaria.
Nel rispondere o quantomeno tentare di rispondere alla domanda sulla differenza tra il viaggiare umano della/nella storia e il viaggiare postumano nella/della società delle reti digitali, là dove l’umano è sempre più un accessorio dei mutamenti che lo attraversano, il saggio di Leed, grazie al suo metodo, è tanto efficace da averci spinto a servircene da traccia per la nostra stessa argomentazione. La sua visione, rigorosamente ‘presentista’, risulta infatti tesa a ritrovare in ciascun passaggio storico – dai viaggi di Gilgamesh alle strade di Jack Kerouac – proprio ciò che si conferma e anzi articola, compie e dunque rivela nel funzionamento attuale del viaggio. Del viaggio non più in quanto oggetto dei mutamenti socioeconomici che lo sovrasterebbero, ma in quanto soggetto, fattore primario di mutamento in quanto sostanza dei processi culturali e comunicativi: macchinario simbolico, insieme finzionale e reale, che – facendo corpo con innovazioni tecnologiche sempre più immateriali – va ora sconvolgendo in modo istintuale le tradizionali dinamiche di mobilità e socializzazione. Se Leed per fare storia del viaggio ha reputato necessario pensarla avendo in mente la mappa tematica della contemporaneità, a noi, che qui abbiamo invece il compito immediato di descrivere il presente, torna davvero utile essere passatisti.
Un breve viaggio cronologico tra i viaggi che abitiamo può aiutarci a entrare nelle forme odierne del viaggiare, forme caratterizzate dalla dimensione gloc-al delle moltitudini umane (cfr. Glocal. Sul presente a venire, a cura di F. Sedda, 2004). Le moltitudini insieme connesse e sconnesse dalle reti della comunicazione mondiale, connesse e sconnesse quanto lo sono le masse in cui convivono e tra loro confliggono gli uni e i molti che la moderna corazza identitaria è riuscita a imbrigliare lungo la sua genesi e lungo la sua storia, progressivamente inibendoli nelle teorie delle classi sociali e nelle gerarchie politico-amministrative degli Stati nazione. Che sono stati e continuano a essere i massimi regolatori della mobilità. Assai prima che le città partorissero imperi e regni, l’enfasi del viaggio in quanto delimitazione di confini ha goduto comunque dei primi insediamenti stanziali e dei primi solchi tra terra e terra: lo ‘spostamento territoriale’ è stato sin dall’inizio la matrice di qualsiasi fatto sociale (A. van Gennep, Les rites de passage, 1909; trad. it. 1981). Il passaggio è la forma costitutiva dell’esperienza (G.P. Jacobelli, Le mosse del cavallo. Tra segni del passaggio e passaggi del segno, 2008).
Per avvicinarsi a questa ambivalenza, questa coincidenza di opposti che sin dall’inizio ha fatto da incubazione del viaggio ma che ha dovuto attraversare millenni per rivelarsi in tutte le sue articolazioni, è opportuno ricordare – ovviamente a titolo puramente esemplificativo – quattro narrazioni del viaggio, quattro sue rappresentazioni metaforiche. Si tratta di quattro indicatori scelti in modo inevitabilmente casuale tra alcune almeno delle più rilevanti dimensioni diacroniche della modernità e in cui – dal Settecento al primo decennio del 21° sec. – l’esperienza sincronica delle reti contemporanee trova un suo potente riflesso: le pagine del Voyage autour de ma chambre (1794) di François-Xavier de Maistre, un libro stravagante, molto apprezzato al suo tempo tra le élites intellettuali d’Europa; l’infanzia berlinese raccontata da Walter Benjamin tra il 1932 e il 1933 (Berliner Kindheit um Neunzehnhundert, 1950); la Dodge Challenger di Van-ishing point (1971; Punto zero), film diretto da Richard C. Sarafian; infine un altro film, attuale ma a suo modo neo-ottocentesco, Into the wild (2007) di Sean Penn. Quattro ‘stazioni’ di un processo di costante riqualificazione simbolica ed esperienziale del viaggio.
La prima stazione è presto detta, semplice nella sua evidenza: il Voyage autour de ma chambre di de Maistre (fratello del più famoso Joseph) è un testo scritto durante i quarantadue giorni di arresti domiciliari imposti all’autore dalle autorità militari savoiarde. Questa clausura forzata viene assunta come cornice e spazio della narrazione. E la narrazione consiste nello scorrere quotidiano – un capitolo per ciascuna giornata – di riflessioni su immagini e contenuti evocati dalla mente e non da esperienze agite in modo diretto, concreto. L’immaginazione cerca allora sulle pareti della stanza quanto il corpo, imprigionato, non può raggiungere e verificare dal vivo. Da questa situazione – un viaggio che si compie in uno spazio chiuso e insieme nell’interiorità del viaggiatore – emergono una serie di attenzioni intellettuali ed emotive alla bestiale pesantezza del corpo e alla angelica leggerezza dell’anima, alla natura veritiera, dissimulatrice degli specchi, alle zone di confluenza tra gli esseri vivi e gli esseri morti, infine alla sostanziale impossibilità di riuscire a costringere la libera immaginazione dell’individuo limitandone la capacità di spaziare, continuamente viaggiare, oltre i limiti fisici e territoriali che le forme del potere pretendono di imporgli. L’analogia con i sentimenti e le pratiche del viaggiare in Internet sono evidenti. La stanza di de Maistre è un momento intermedio tra i teatri della memoria nell’epoca dei viaggi rinascimentali e le finestre sul mondo nell’epoca dell’elettricità: progressive articolazioni di una mente umana che si è fatta sempre più luogo di un costante sconfinamento tra mondo esterno e mondi interiori. Con straordinario anticipo sul ruolo esplicativo del computer, l’esperimento letterario di de Maistre ha rivelato la funzione metatemporale e metaspaziale di ogni interno. L’esistenza di una natura umana vissuta nell’incrocio tra interno ed esterno, casa e viaggio, focolare e trivio, proprietà e furto si è rivelata sin dalla coppia mitica di Hestia e Hermes. Tanto più viva tuttavia appariva nelle precedenti epoche in cui la simbiosi tra natura del mondo e natura dell’essere umano era assai più intensa grazie a rituali magici che davano al sacro una capacità cosmogonica in cui il dentro e il fuori si facevano partecipi di un’unica presenza arcana. Questo ruolo visionario degli interni – in un presente caratterizzato da dimensioni così diffuse come la videotelefonia mobile e il Wi-Fi – esplicita lo slogan da noi indicato all’inizio: il qui e ora dell’altrove.
La seconda stazione riguarda Walter Benjamin a Berlino, un episodio emblematico della sua infanzia: «Molti anni prima, in una delle strade che percorrevo durante simili vagabondaggi senza fine, mi sorprese, in circostanze molto particolari, il risveglio dell’istinto sessuale. Era il Capodanno ebraico, e i miei genitori avevano stabilito di sistemarmi in una qualche cerimonia religiosa. […] Per questa visita alla sinagoga ero stato affidato a un parente che dovevo andare a prendere. Ma, vuoi che avessi dimenticato il suo indirizzo, vuoi che non sapessi orientarmi in quella zona, si faceva sempre più tardi e io ancora non mi ero avvicinato alla meta. […] Mentre ancora vagabondavo in questo modo, mi colse da un lato il pensiero: troppo tardi, l’ora è ormai passata, non ce la farai mai – d’altro lato la sensazione che ciò mi fosse del tutto indifferente, che le cose in fondo potevano andare come volevano: e questi due flussi di coscienza scorsero irrefrenabili fino a creare un’intensa sensazione di piacere che mi riempì d’indifferenza blasfema per la cerimonia religiosa, e che adulava la strada in cui mi trovavo, quasi mi avesse già allora lasciato intuire i servigi da mezzana che, in seguito, essa avrebbe reso all’istinto risvegliato» (Berliner Kindheit um Neunzehnhundert, 1950; trad. it. Infanzia berlinese, in Scritti 1932-1933, a cura di E. Ganni, H. Riediger, 2003, p. 288).
Qui esperienza del viaggio ed esperienza erotica si sovrappongono. Ma, così accadendo per una sorta di fatalità dell’essere al mondo, dell’esserci umano, il senso più critico e antimoderno del viaggio metropolitano si distingue dall’andare verso una meta prestabilita, verso un appuntamento, verso uno scopo strumentale o salvifico. L’opposizione che Benjamin mette in campo è tra il vagare (modalità sostanzialmente frammentata, caotica, dunque dionisiaca, politeista, pagana, senza altro fondamento che non sia la carne che trascina e rapisce di luogo in luogo) e l’andare religioso (il pellegrinaggio o la marcia o il corteo o le loro estensioni: identità collettive organizzate, siano esse chiese, schieramenti politici, spettatori o turisti di massa). Differenza dunque tra l’andare nella direzione lineare della società o dell’avvento divino e l’andare senza meta, abbandonarsi ai sensi, ai limiti della carne, e anzi evocarla in tutta la sua sacra antireligiosità.
Il punto di vista benjaminiano aiuta a cogliere il senso più profondo di un aspetto apparentemente laterale, e per molti considerato a torto non sostanziale, del rapporto tra Internet e il viaggio, tra le navigazioni digitali e i loro transiti, le loro soste. Per chi usi la rete, magari proprio al fine di preparare il proprio viaggio reale – trovare itinerari, agenzie, compagni di avventura, luoghi d’eccezione, con costi vantaggiosi, tempi giusti e quant’altro –, accade quello che su Internet accade per ogni consultazione e tanto più rapidamente quanto più la ‘cosa’ cercata è vicina alla sfera dei consumi, prossima alla sfera del desiderio. La ricerca sbanda – si distrae, si lascia attrarre – quasi immediatamente su immagini e siti che, dal pettegolezzo ed erotismo metropolitano di gusto prevalentemente femminile, precipitano rapidamente nel porno, di gusto prevalentemente maschile. Se la qualità del viaggiare sta nella qualità dei rapporti tra vicinanza e distanza, presenza e assenza, che il viaggio è in grado di realizzare, possiamo allora dire che la qualità del viaggiare su Internet per viaggiare sulla Terra mette in evidenza, in primo piano, un corpo del viaggiatore preso, irretito, dal senso di vicinanza carnale dell’esperienza sessuale. L’esperienza sessuale emerge in ogni punto dell’esperienza di viaggio.
Questo è un risvolto non marginale ma strettamente inerente al discorso sul viaggio contemporaneo. Aiuta a prendere una posizione critica nei confronti di chi – perpetuando il modello oppositivo tra viaggiatore e turista – definisce forme in sé e per sé di adulterazione e degradazione del prodotto turistico tutte quelle operazioni di marketing che sono fondate sull’estrema mondanizzazione ed erotizzazione del viaggio presso i ceti medi, piccolo-borghesi e operai. In particolare si pensi alla vasta pubblicistica dedicata ai target non irrilevanti del turismo di massa che, dalle culture del viaggio aristocratico oppure alto-borghese tra Settecento e Novecento, hanno del tutto inconsapevolmente ereditato, accanto o insieme ai loro modelli spiritualisti, forme esasperate quando non estreme di trasgressione e de-generazione delle regole civili (cfr. M. Houellebecq, Plateforme. Au milieu du monde, 2001; trad. it. 2001). Si tratta di turisti del piacere e del sesso che hanno individuato nella componente evasiva e rigeneratrice del viaggio soprattutto, se non esclusivamente, un’attività erotica che altrimenti è vietata o, quantomeno, inibita nel proprio contesto sociale di appartenenza per ragioni religiose, etiche, estetiche e giuridiche (si veda il romanzo di James Graham Ballard, Crash, 1973, trad. it. 1990, da cui è stato tratto il film omonimo di David Cronenberg del 1996) e che invece – come si conviene allo statuto originario dello straniero – è resa più facilmente perseguibile in Stati a basso regime civile e ad alto grado di povertà (L. Gemini, 2008, parla a tal proposito di «doppia morale»). Per inciso, ma con attinenza comunque al viaggiare delle economie e del lavoro, alle sue finanze, alle sue merci e suoi operatori, va detto a tale proposito quanto questa forma di sfruttamento sessuale perpetrata ai danni dei nativi di territori sottosviluppati o in via di sviluppo sia in stretta correlazione con altre forme di sfruttamento selvaggio che le dinamiche globali del postfordismo hanno generato sul piano dell’uso di mano d’opera – spesso infantile – a bassissimo costo.
Ma l’indicazione benjaminiana sul sacrilegio dell’esperienza metropolitana si presta a un ulteriore campo di osservazione del nesso tra viaggio e sesso messo assai bene in luce da Leed, quando ritrova alla radice del viaggio rituali in cui il rapporto di fiducia tra ospite e straniero comportava l’offerta della propria casa e persino della propria moglie. L’inciviltà e il cinismo che caratterizza il turismo sessuale praticato su corpi minorenni e comunque corpi che si vendono per eccesso di fame e di sfruttamento, sarebbe dunque l’esito perverso di un processo di lunghissima durata iniziato con il disgregarsi di modalità socioantropologiche in cui il viaggio era comunque qualcosa che comportava l’incrocio di più sfere sensoriali, di più affetti, di più valori. A quella stessa cultura tribale del dono e dello scambio potevano appartenere anche atti iniziatici sacrificali, sino a forme di crudeltà estrema come il cannibalismo. Ma sesso, violenza, saccheggi e distruzioni – atti a loro modo regolamentati da precisi rituali simbolici – sopravvivono oggi in molteplici versioni modernizzate e spesso in preordinati disegni strumentali, che tuttavia, a causa della reciproca intrusione tra diversi e inconciliabili regimi di senso, appaiono tra di loro sconnessi e nella forma di un ingovernabile caos tra azioni date per legittime e azioni immotivate e irriducibili.
La terza stazione: Vanishing point. La scena madre è quella in cui il protagonista sta decidendo quale scopo dare al suo viaggiare, fermo al centro di un incrocio tra diverse strade perse nella prateria americana. Vi si racconta di un certo Kowalski – ex marine, ex corridore d’auto, ex poliziotto, ridotto a fare il trasportatore di auto da costa a costa – che scommette con sé stesso di coprire in 15 ore la distanza (quasi 2000 km in linea d’aria) tra Denver (Colorado) e San Francisco. Lo fa a bordo di una potente Dodge Challenger con il motore elaborato, correndo contro i poliziotti che di confine in confine lo inseguono nei tre Stati attraversati da questo irriducibile hacker delle strade, votato a sfidare lo spazio e il tempo imposti dalla società civile. Lo guida a distanza il disc jockey di una piccola stazione radiofonica sperduta nel nulla, nero e cieco, corpo socialmente negato e tuttavia ubiquo, istintivamente partecipe della sfida contro l’ordine costituito dei ‘marcatempi’ della Legge, dei ‘costruttori’ di barriere, dei ‘controllori’ del traffico e degli accessi. Lo guida la dimensione territoriale radiofonica attraverso una rete di radio locali (modalità di servizio e di soccorso che è peraltro diventata d’uso comune tra le odierne masse di automobilisti per quanto, diversamente dal film, al fine del tutto opposto di facilitare una mobilità che si svolga in maniera ordinata e rispettosa delle regole).
In Kowalski vivono tutti i miti anti-istituzionali e quindi più profondamente imperialisti degli americani. Bisogna ricordarsi a questo proposito lo scrittore statunitense George Gilder (Life after television, 1990; trad. it. 1995), che proprio su posizioni iperstatunitensi annunciò, in anticipo su molta della letteratura cibernetica, l’avvento delle reti digitali come sterminio di linguaggi analogici e rinascita dello spirito della frontiera e della sua potenza invasiva. Alla fine Kowalski muore. La società pesante degli apparati istituzionali e dei loro dispositivi di pace non consente una vita spinta al di là del territorio fisico. Tentare questo sfondamento della realtà – o, per meglio dire, della costruzione della realtà attraverso i linguaggi analogici della storia – significa entrare immediatamente in un regime di guerra.
Su ciò che il viaggiare sarebbe rapidamente diventato entrando nel nuovo secolo, Vanishing point ha detto qualcosa in più di film celebri, mitici, quali Easy rider (1969) di Dennis Hopper e Zabriskie point (1970) di Michelangelo Antonioni. Se non altro per la funzione così centrale che vi svolge il rapporto uomo-macchina in una dimensione socioantropologica specificamente automobilistica (assai ricca di articolazioni sensoriali molteplici e diversificate tra la relativa inerzia del corpo, in gran parte esonerato, lasciato in situazione remota, e la molteplicità di strumenti e comandi che ne realizzano invece un massimo di possibilità motorie). La durata mitologica dell’automobile (da Marasso e i futuristi in poi) è profondamente legata al fatto di essere un veicolo che onora e serve la velocizzazione dell’esperienza, ma anche la dimensione individuale e familiare, nuovo fattore di una mobilità del viaggiatore, finalmente disincagliata dalla linearità spaziotemporale e dall’obbligo collettivo delle strade ferrate. Un mezzo di trasporto che facilita l’affermarsi della nuova forma di comunicazione consentita dal cinema, non a caso nato negli stessi anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. La simbiosi automobilistica tra elementi organici e inorganici, umani e macchinici, è stato il luogo, l’ambiente, di un rapporto che, lungo tutto il corso della sua storia e in particolare sul suo rovescio più prosaico, ordinario, consuetudinario, è divenuto esperienza psicosomatica condivisa da parte di un numero vastissimo di persone. L’auto ha portato avanti questo processo antropologico di incarnazione umana, mentre cinema, telefono, radio e televisione, seppure dotati di una resa relazionale clamorosamente alta, stanno davvero realizzando questo stesso processo di ibridazione soltanto ora con i cellulari, grazie alla loro natura di estensori della nostra presenza situata, fisica e insieme meta-fisica (cfr. Il filo dei discorsi. Teoria e storia sociale del telefono, a cura di D. Borrelli, 2000).
Quentin Tarantino ha pensato a tutto questo citando la Dodge Challenger di Kowalski nel suo Death proof (2007; Grindhouse – A prova di morte). La citazione gli è servita a saldare nello stesso film tre distinte origini, situazioni, sensazioni. Il cinema di genere dedicato alla potenza emblematica del serial killer, specialista in territori della carne, figura in questi anni dominante nell’immaginario collettivo; un cinema caratterizzato dalla prevalenza di interni, collocati e distribuiti nella distanza e differenza tra ambienti urbani e ambienti rurali, tra rischio metropolitano e rischio delle case contadine, dei percorsi vacanzieri, dei villaggi turistici, delle fabbriche abbandonate. Il cinema on the road, un cinema classico, caratterizzato da esterni punteggiati di soste inabitabili, impossibili, ma che nella versione di Tarantino passa attraverso la rilettura al femminile di un film come Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott, suggerendo che alla natura sostanzialmente maschile, dispotica, profanatrice del viaggiatore maschio sta subentrando o comunque affiancandosi, integrandosi, fondendosi – con sfumature radicalmente diverse e nuove chances di dominio – il corpo femminile (accade con varia accelerazione anche in alcuni sport, nel consumo di pornografia o di videogame, nella guerra). Infine, il cinema fantasy o horror che mette in scena auto dotate di una vita propria, desiderante, sovrana sulla volontà umana e che, a seconda dei casi, si fa amica o nemica, angelica o diabolica, collaboratrice o catastrofica. Indicazione non di poco conto su quanto il design tecnico ed estetico di un’automobile così come, più in generale, quello dei mezzi di trasporto possa costituire una così fitta trama di relazioni automatiche da diventare elemento caratterizzante la qualità del viaggio e perfino le decisioni del viaggiatore.
Del resto – al contrario di mangiare, bere, respirare, toccare, e persino vivere – il verbo viaggiare è radicalmente intransitivo; per funzionare, per avere senso ha bisogno di indicare il suo dove e perché. Al centro dell’azione che questo verbo enuncia non c’è il soggetto che viaggia quanto piuttosto l’azione in sé del viaggiare. Questa azione è tanto forte da dominare il suo attore. E dunque il viaggiare comporta un transito, una transitività in sé e per sé, un insieme vastissimo, incommensurabile di correlazioni diacroniche e sincroniche che riguardano non solo il motore, la resa e l’aspetto del mezzo di trasporto, ma anche l’intera rete di fattori umani e non umani virtualmente convergenti su di esso. A tal punto che il viaggiare destina il soggetto a essere oggetto, e questa repulsione del verbo viaggiare alle regole sintattiche dell’organizzazione sociale ci rivela che il viaggio è inevitabilmente un essere viaggiati, esser fatti noi stessi strada, percorso, territorio. Essere posseduti. Tarantino lo dimostra facendo di un’auto, modificata allo scopo dalla sua componente umana, l’interno senza speranza che fa da teatro al serial killer, lo rende il luogo di una implacabile resa dei conti: il viaggiare rende oggetto subordinato, servo, il proprio viaggiatore a tal punto da avere il desiderio-diritto di massacrarlo.
Quarta e ultima stazione: Into the wild. In questo film di consumo si parla di un individuo che abbandona la civiltà dei consumi, eroicamente soggiacendo a quella tipica falsa coscienza che caratterizza i discorsi anticonsumistici dei consumatori o pacifisti dei portatori di guerra. Per il giovane protagonista del film, la ricerca della vera vita nella natura assoluta e incontaminata dell’Alaska – il sogno che traspare in ogni pubblicità turistica di stampo ecologico e ambientalista – si traduce con la morte, con l’ibernazione del suo corpo. Un così grande desiderio di fuga e purificazione non può che lasciarsi alle spalle la carcassa di carne che gli ha fatto da supporto. In tal modo l’impossibilità del viaggio – secondo la lussuosa immaginazione occidentale – torna alla partenza del viaggio romantico come è stato concepito ai suoi più alti livelli, torna alla bara nella quale si era ritrovato Gordon Pym (Edgar Allan Poe, The narrative of Arthur Gordon Pym, 1838) iniziando il proprio viaggio verso l’altrove, verso il più bianco nulla dell’orizzonte: un viaggio senza termine in un romanzo di Poe che forse non casualmente rimase incompiuto.
Cerchiamo di raccogliere le fila. Il viaggio è una invenzione occidentale. Muoversi e migrare hanno in altri luoghi del mondo significati che confermano le nostre origini ma al tempo stesso l’eccidio di vite per cui siamo quello che siamo. Chi non viaggia, muore (un ambiente umano e sociale sopravvive se contaminato, deperisce se costretto all’immunità; cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, 2002). Chi abita, godendo dunque dei diritti e dei doveri di una società civile, è tuttavia per ciò stesso costretto a viaggiare per via diretta o mediata – con i piedi, con i mezzi di trasporto, con il palato, con l’olfatto, con gli occhi ma sempre secondo rapporti sensoriali tra loro ibridati – non solo per ottenere le risorse necessarie al mantenimento del proprio sistema di appartenenza ma anche per avere conferma dei suoi diritti e doveri o di una loro possibile scissione. L’abitare si fonda sulla demarcazione di confini e questi si riconoscono grazie ad azioni, opere e immaginazioni di sconfinamento: questo è lo spirito intrusivo del cosmopolitismo e non soltanto del colonialismo.
Chi non abita, ovvero non gode dei diritti e dei doveri che si addicono all’abitare, viaggia invece per non morire e spesso, proprio per non morire, trova la morte o la prigione nell’abitare dell’altro. Questo accade ai derelitti del mondo che viaggiano verso le coste della speranza, verso le promesse del loisir occidentale, le sue tavole imbandite, i suoi outlet globali. A questi esseri umani, privati dei lussi della morale e delle garanzie universali dello spirito delle nazioni, accade spesso di scomparire invece nel mare che speravano di oltrepassare alla ricerca della propria salvezza. Il viaggio migratorio è dunque la realtà dei popoli dannati, votati alla disperazione e insieme al sogno dall’oggettivo progredire dei processi di globalizzazione economica e simbolica. È il destino di chi si spegne per fame (cfr. A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, 1999, nuova ed. 2004).
Nel transito da un luogo all’altro si riassume l’intera vicenda umana. Viaggiare è pensiero, guerra, commercio, arte. Denaro. Felicità e infelicità. Salvezza e punizione. Scienza ed eterno ritorno alla barbarie. Dai raccoglitori appena insorti dal buio della natura alle ultime migrazioni che oggi sconvolgono il mondo occidentale e ne annunciano una delle possibili catastrofi, sempre si è trattato di campi di forza in cui diversamente si combinano esperienze tra loro difformi. Sempre nuove alchimie tra amicizia e inimicizia, distanza e vicinanza.
Del viaggio si è potuto parlare – e lo si è fatto anche in questa sede – cogliendolo nella sua dimensione mitica (archetipi della conoscenza e delle forme di dominio sull’altro) o religiosa (patrie profane e celesti, esodi e terre promesse), rinascimentale (tecnologia e nuove mappe del mondo delle merci) e moderna (dalle guerre di religione alla violenza civilizzatrice, alle imprese economiche mondiali, al turismo romantico, alla pittura di paesaggio per interni borghesi). Forse, per capire cosa possa legare tante dimensioni del viaggiare – così tante da sommergere e vanificare l’idea che si tratti solo di dislocazioni fisiche – bisognerebbe fare perno sugli artifici con cui gli aborigeni viaggiavano ascoltando sé stessi e, ascoltando sé stessi, sapevano viaggiare e cioè sapere, essere là dove si aprono varchi invisibili, si sentono orme dei sensi e risonanze ritrovate. Qualcosa che si rivela appunto nell’esperienza – sedentaria o meno – del cybernauta.
Lo sviluppo tecnologico dei media – e più in generale delle tecnologie immateriali, biogenetiche e ‘nano’ – sta annullando il tempo in vari modi. Assottiglia le distanze e differenze temporali nello spazio infinito dei corpi e dell’esperienza vissuta. Si tratta di un processo che, stando alla periodizzazione occidentale in cui siamo ancora calati, ha avuto inizio con la mondanizzazione di ciò che prima era visto come sacro, con l’abbandono del tempo ciclico delle culture orali, con la potenza delle religioni e dei regni che hanno dato inizio alla linearità della storia, accelerando il tempo a misura dell’organizzazione dell’abitare, dei suoi modi di produzione e consumo, dei suoi ritmi di vita, dei suoi bacini di memoria.
Si tratta di un processo che – dopo le grandi manipolazioni tecniche del tempo e dello spazio messe in opera dalla fotografia, dal cinema e dalla radio – vive il suo compiersi nello snodo tardomoderno della televisione generalista, laddove il mondo come spazio si fa insieme locale (la dimora), nazionale (l’immaginario di una nazione e dei suoi dialetti), mondiale (l’immaginario dei mercati multinazionali); e laddove il tempo si fa individuale e insieme collettivo, intimo e insieme pubblico. È questo il culmine di una società dello spettacolo che – germinando dalle sue radici esperienziali, affondate nei territori sempre più informi della metropoli – si è definitivamente trasmutata nella contemporaneità atomizzata e insieme compatta della tele-visione.
Il viaggio come espressione delle culture della produzione incute il culto delle vestigia, delle rovine e dei monumenti (cfr. M. Belpoliti, Crolli, 2005). Il culto del passato fatto a immagine e somiglianza del viaggiatore. Mentre invece si sta facendo decisivo il salto da una sensibilità vincolata alla memoria del passato a una sensibilità sciolta nel presente, poiché è qui che si raccolgono le discriminanti oggi più forti tra spirito della conservazione e spirito dell’innovazione, tra sopravvivenza come museificazione, mummificazione, congelamento, e sopravvivenza come trasformazione, sosta in ciò che è mutante e che proprio le retoriche, ideologie, strategie e psicologie dell’oltrepassamento hanno eluso e negato. Sosta come differenza che non cerca alterità che la incarnino e le vengano in soccorso. Qui si gioca la possibilità di trovare contenuti adeguati ai mezzi di cui dispongono le nuove tecnologie. Qui si conquista la capacità di negoziarne il senso, invece di asservirle ai vecchi modi di vedere, di visitare il mondo, di andare e tornare. Se la comunicazione è innanzi tutto relazione, la dimensione più vicina a questo sentire è quella dell’abitare, abitare qui e ora l’altrove che sin qui ci ha fatto da alibi.
Dunque non si tratta di ricorrere ancora alle dialettiche che giocano tra il dentro le mura e il fuori le mura, oppure tra la montagna e la valle. Tra la terra e l’oceano o il cielo. Lo spazio mediale dei linguaggi digitali, liberato dalla mentalità del viaggio, può rigenerare diversamente i simboli che hanno nutrito la mobilità superstiziosa dell’altrove. Può rendere indifferente il dove e differente invece il chi e che cosa. Le nuove tecnologie – a partire dalla telefonia cellulare – hanno realizzato e quindi con ciò stesso vanificato ogni utopia dell’altrove. Hanno mistificato e demistificato ogni evasione dall’abitare. Il mondo è tuttavia sempre il medesimo. Si tratta di produrre relazioni situate, anzi di far sì che le relazioni siano in grado di produrre situazioni. Si tratta di spazializzare il senso della presenza umana in un mondo che ha disgregato ogni suo precedente assetto abitativo, lo ha occupato, fatto suo. L’umano sta dissolvendo nel tempo vorace della materia vivente il proprio tempo storico, le etiche, estetiche e politiche delle sue forme di potenza.
Lo sfrenato idealismo del viaggio è stato destrutturato dall’espandersi progressivo del turismo di massa, il quale ha trasformato il Gran tour come rito di passaggio occidentale in vacanza dal tempo di lavoro, in sosta di ricreazione e divertimento, in intervallo della catena di montaggio fordista ma anche dei flussi carnevaleschi televisivi. Con le sue modalità di ubiqua presenza dei corpi e degli oggetti, la società simultanea delle reti a sua volta sta sempre più vanificando le strutture e i contenuti della vacanza. Dalla forma educativa del Gran tour in quanto viaggio di formazione delle classi dirigenti si è passati a forme di turismo che hanno assorbito in sé l’intero mondo: il nesso programmatico tra turismo e beni culturali, su cui attualmente insistono i principi del management delle imprese, è solo un segmento – ancora del tutto elitario nella sua concezione – di una dinamica connettiva ben più generale. Infatti, le strategie di mercato del turismo, la loro intelligenza di rete, hanno riportato il viaggio sul piano territoriale delle forme dell’abitare, in un mondo in cui la mobilità reale e virtuale è clamorosamente cresciuta anche attraverso una sempre più poderosa integrazione tra tutti i beni di consumo. Qui risultano utili le analisi di Jacques Attali (L’homme nomade, 2003; trad. it. 2006) sul nuovo rapporto che lega in senso con-fusivo la dimensione nomadica e la dimensione stanziale del genere umano. Mostrano con efficacia quanto i processi culturali in cui siamo immersi siano ‘di ritorno’ rispetto alle civiltà stanziali, ma anche quanto – rientrando nelle dimensioni dei raccoglitori e cacciatori (che del resto hanno qualcosa di analogo con i fenomeni di terrorismo ed emigrazione che affliggono gli attuali regni residenziali) – la posta in gioco oggi non possa che essere la paradossale convivenza tra spirito nomadico e spirito stanziale. Chi ancora viaggia è stato formato dalle mappe valoriali della stanzialità, chi tra gli abitanti e viaggiatori della tradizione moderna è diventato turista della vita quotidiana prova il disagio epocale di questa sua nuova condizione.
Quando Walter Benjamin ha intuito come sex appeal dell’inorganico le merci esposte dentro le vetrine della metropoli, già gli era evidente una forma di viaggio che non è tra soggetto e oggetto ma tra oggetti: tra reti di oggetti, tra il quanto e il come gli oggetti assoggettano a sé lo sguardo umano mediante il proprio sguardo inumano. I corpi temporalizzati dai processi di identificazione storici si fondono – anzi da tempo sono in fusione – nella carne di un mondo organico e inorganico in cui l’umano e il non umano si stanno saldando in modo sempre più risolutivo, senza più varchi e terre promesse, senza paradisi edenici. Sono i temi – le prospettive, le visioni, i paesaggi – che ruotano intorno a una riflessione sul postumano che dovrebbe ormai distruggere tutti i presupposti dell’ordine civile (A. Abruzzese, Delle cose che non si sanno conviene dire, in Post-umano. Relazione tra uomo e tecnologia nella società delle reti, a cura di M. Pireddu, A. Tursi, 2006, pp. 127-42). Siamo chiamati a prepararci per un viaggio ventimila leghe sotto le superfici dell’umanesimo. Il potere interattivo e multimediale delle reti ci aiuta a rendere leggibili gli eterni ritorni su cui la società si è edificata. Al punto massimo di illusione per l’assenza di patria, si apre il tempo più difficile, nuovamente disperso – disperato – e più incline ai misteri del sacro, al tempo del disincanto: là dove il residente convertito a nomade e il nomade convertito a residente possono confessarsi il medesimo dolore: «io non ho un tetto sopra di me e la pioggia mi cade negli occhi» (R.M. Rilke, Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, 1910; trad. it. I quaderni di Malte Laurids Brigge, 1995, p. 29).
D. MacCannell, The tourist. A new theory of the leisure class, New York 1976 (trad. it. Torino 2005).
J. Urry, The tourist gaze. Leisure and travel in contemporary societies, London-Newbury Park 1990 (trad. it. Roma 20002).
E.J. Leed, The mind of the traveler: from Gilgamesh to global tourism, New York 1991 (trad. it. Bologna 1992).
R. Amirou, Imaginaire touristique et sociabilités du voyage, Paris 1995.
A. Brilli, Quando viaggiare era un’arte. Il romanzo del gran tour, Bologna 1995.
M. Castells, The age of information, 1° vol., The rise of network society, Malden (Mass.) 1996 (trad. it. La nascita della società in rete, Milano 2002).
J. Clifford, Routes. Travel and translation in the late twentieth century, Cambridge (Mass.) 1997 (trad. it. Torino 1999).
A. Savelli, Sociologia del turismo, Milano 19985.
D. Canestrini, Trofei di viaggio: per un’antropologia dei souvenir, Torino 2001.
M. Aime, L’incontro mancato. Turisti, nativi, immagini, Torino 2005.
M. Gerosa, A. Pfeffer, Mondi virtuali. Benvenuti nel futuro dell’umanità, Roma 2006.
Virtual geographic. Viaggi nei mondi dei videogiochi, a cura di I. Fulco, Milano 2006.
R. Bonadei, I sensi del viaggio, Milano 2007.
P. Carr, G. Pond, The unofficial tourists’ guide to Second life, New York 2007 (trad. it. Second life. Guida turistica essenziale, Milano 2007).
M. Gerosa, Second life, Roma 2007.
M. Ilardi, Il tramonto dei non luoghi. Fronti e frontiere dello spazio metropolitano, Roma 2007.
G. Mascheroni, Le comunità viaggianti. Socialità reticolare e mobile dei viaggiatori indipendenti, Milano 2007.
Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi, a cura di P. Di Paolo, Roma-Bari 2007.
L. Gemini, In viaggio. Immaginario, comunicazione e pratiche del turismo contemporaneo, Milano 2008.