Viaggio in Italia
Ovunque vada... tutto è come me l'ero figurato e al tempo stesso tutto nuovo
(Goethe)
Emozioni e impressioni di un
viaggio in Italia oggi
di André Vauchez
24 agosto
Secondo i dati emanati dalle associazioni di categoria, durante l'estate 2001, nelle strutture ricettive alberghiere ed extralberghiere del paese sono ammontati a 17,2 milioni gli arrivi di italiani e a 13,5 milioni quelli di stranieri, con un incremento rispetto allo scorso anno di circa il 2%. Fra gli stranieri la percentuale più alta è stata quella dei turisti tedeschi (43%), seguiti da statunitensi (15%), olandesi (10%), britannici (8%), francesi (7%), austriaci (4%) e svizzeri (4%).
Il fascino del paesaggio
Le recenti statistiche rivelano che l'Italia è, con la Francia, il paese europeo più visitato, in misura di gran lunga maggiore della Spagna, dell'Austria o della Svizzera. Nel 2000 il numero di turisti stranieri si è aggirato intorno ai 50 milioni: un fenomeno rilevante dal punto di vista quantitativo, ma non eccezionale. Infatti, anche se questa cifra nello scorso anno è stata potenziata dal Giubileo che ha attratto a Roma un numero molto elevato - ma difficile da stabilire con precisione - di visitatori straordinari, flussi importanti di viaggiatori convergono sempre, anno più anno meno, verso la penisola e le isole con grande regolarità, in particolare in estate, quando le alterne migrazioni dell'esodo e del controesodo riversano sulle strade e le autostrade, dal Brennero o dal Monte Bianco (quando il traforo era ancora aperto) fino alle coste dell'Adriatico e della Toscana, centinaia di migliaia di automobili, sia italiane sia straniere. L'afflusso di viaggiatori non riguarda peraltro il solo periodo estivo. Attualmente è dai primi fremiti della primavera agli ultimi bagliori dell'autunno che l'Italia è invasa da gruppi di studenti, che compaiono alla fine di febbraio, e da pensionati e persone anziane desiderose di approfittare delle tariffe vantaggiose offerte dagli alberghi in bassa stagione. Al punto tale che, al di fuori dei mesi invernali - ma non sta diventando di moda venire a passare Natale a Roma o ad Amalfi? -, il turismo non conosce più sosta e in molte località la presenza di visitatori stranieri è divenuta un elemento strutturale, tale da condizionare la vita degli abitanti in modo quasi permanente.
Ma cosa cercano tutte queste persone e questi gruppi che ogni anno (anche se non sono sempre gli stessi) si riversano in territorio italiano? In primo luogo il sole. Non è certo un caso se la maggior parte dei turisti proviene dall'Europa del Nord e del Nord-ovest o, più di recente, dai paesi della Mitteleuropa, mentre i mediterranei - spagnoli, portoghesi o greci - sono relativamente poco numerosi. Il tropismo solare, che costituisce un elemento di rilievo nella capacità di attrazione e di seduzione dell'Italia, si fonda in gran parte sulla credenza, fomentata dalle agenzie di viaggio e dalle canzoni ("O sole mio…."!), che qui il tempo sia sempre bello e sereno. Credenza che discende in certa misura dal mito, visto che il tempo varia molto da regione a regione e delude spesso quelli che arrivano a primavera, soprattutto nel periodo pasquale, mentre in piena estate il clima è spesso così torrido, in particolar modo in città, da obbligare i turisti a ridurre al minimo attività e spostamenti. Nonostante ciò, la leggenda sopravvive a ogni smentita che può essere inflitta dalla realtà e alla fin fine a buon diritto, perché per gli abitanti delle regioni situate a nord delle Alpi, dove il tempo rimane uggioso e piovoso per quasi tutto l'anno, arrivare in Italia è in genere come entrare nella terra promessa. Ma l'Italia attira il visitatore anche con la sua bellezza. In primo luogo quella del paesaggio rurale, soprattutto a meridione della linea che va da Genova alla Romagna, caratterizzata dalla presenza dell'ulivo e della vite, oltre che di alberi tipicamente mediterranei, come il fico, il mandorlo e l'eucalipto, per non parlare dell'arancio e del limone che costituivano il suo più bell'ornamento agli occhi del giovane Goethe. Paesaggi per altro estremamente variegati perché, la vicinanza della montagna al mare, spesso separati solo da qualche fila di colline, fa sì che si succedano a poca distanza specie mediterranee e alberi più familiari all'europeo del Nord o dell'Ovest, come la quercia, il faggio e talvolta, in alto, l'abete, sicché il viaggiatore si sente allo stesso tempo spaesato e rassicurato da questa cornice vegetale originale, ma con elementi che gli sono familiari. Paesaggio infine quasi sempre verde, dove le specie perenni, come le querce, gli olivi e gli arbusti della macchia compongono un quadro che non si altera molto di stagione in stagione, salvo che in primavera quando i fiori gialli delle mimose, bianchi dei mandorli e rosa intenso degli alberi di Giuda e dei peschi per qualche settimana fanno sfavillare la campagna. Certamente gli stessi alberi e le stesse piante si trovano in altri paesi del Mediterraneo, come la Spagna e la Grecia, ma in nessun altro luogo formano un insieme così armonioso. E infatti il paesaggio italiano è privo di ogni asprezza e appare soprattutto fortemente umanizzato, per non dire 'socializzato': i filari di cipressi conducono quasi sempre a poderi nobiliari situati in cima alle colline o a quelle città dei morti che sono i cimiteri dei paesi; i terrazzamenti, oggi per lo più incolti, salgono fino ai limiti della foresta, mentre le chiome dei pini decorano i giardini delle ville e i limoni nascondono i loro frutti sotto i veli neri che li proteggono dalle gelate e dagli uccelli. Anche il paesaggio urbano si contraddistingue per la sua bellezza e la sua varietà. La densità e l'antichità del tessuto abitativo della penisola, che risale spesso all'epoca classica o al Medioevo, fanno sì che le città, grandi e piccole, siano legioni e che la maggior parte di esse presenti un considerevole interesse storico e artistico. Il quadro monumentale e il tracciato delle principali strade antiche sono spesso conservati - si pensi ad Aosta, Verona, o Lucca che sono caratterizzate dagli assi fondamentali del cardo e del decumanus e dalle cinte fortificate succedutesi nei secoli -, così come i villaggi arroccati e i borghi, dove le strade convergono verso il palazzo signorile o comunale secondo una pianta radiale fossilizzata nel tempo, manifestano ancora oggi il vigore del movimento di incastellamento che apportò sostanziali modifiche alle strutture abitative e agli insediamenti nelle campagne dell'Italia settentrionale e centrale intorno all'anno 1000. Ma il paese ha anche il privilegio di possedere numerose capitali, oggi decadute per importanza politica ma non private del loro antico splendore - come Ravenna, Napoli, Palermo, e ancora Pisa, Genova e Venezia che furono a capo di veri imperi marittimi -, e una megalopoli, Roma, che può essere così definita nel senso dato a questo termine da Claude Nicolet: una 'città-mondo', che presenta infinite risorse e riunisce tante ricchezze monumentali e artistiche che non basta una vita a scoprirle tutte. Il policentrismo urbano che caratterizza l'Italia non è privo di ripercussioni dal punto di vista turistico. Il visitatore che vuole conoscere la Francia inizierà naturalmente da Parigi, punto di convergenza della rete stradale, ferroviaria e aerea nazionale, e quello che vuole recarsi in Inghilterra difficilmente potrà evitare Londra. Niente di tutto ciò in Italia, dove si può conoscere molto bene Venezia, Firenze o Rimini, senza essere mai passati da Roma e dove non c'è alcun percorso logico o imposto: ciascuno può costruirsi il proprio itinerario in funzione del suo gusto e delle sue aspettative.
Il rapporto umano
Ma, in ultima analisi, ciò che forse contribuisce ad attirare maggiormente il visitatore in Italia è la sensazione di libertà e di benessere - che può giungere alla vera felicità - che vi si prova. Nonostante l'Italia sia ancora uno dei pochi paesi dell'Europa dove gli si richieda un documento di identità all'arrivo in un albergo, il visitatore si sente subito a proprio agio: non si vedono molti poliziotti, i controllori sui treni non sono iperzelanti e attendono cortesemente che i passeggeri mostrino spontaneamente il loro biglietto, i regolamenti in ogni ambito sono così complicati che non si tarda a capire che sono inapplicabili. Persino la segnaletica stradale sembra avere un significato più indicativo che costrittivo, come dimostrano le linee bianche continue che in tutti gli altri luoghi è rigorosamente proibito oltrepassare, ma che qui sembrano essere un semplice invito alla prudenza di cui i guidatori tengono poco conto. Certamente non bisogna idealizzare la realtà, e quest'atmosfera bonaria è talvolta turbata dai furti che lasciano il turista senza soldi e senza documenti; ma i testimoni si premurano in genere di dire alla vittima che i colpevoli sono probabilmente stranieri, e la gentilezza dei carabinieri funge parzialmente da balsamo. Ma quando il soggiorno trascorre senza intoppi - ed è comunque il caso più frequente - il viaggiatore straniero si lascia volentieri andare a un senso di distensione, addirittura di euforia. Tutto vi contribuisce: dalla dolcezza del clima al sapore unico dei caffè, dei cappuccini e dei gelati dai molti gusti, fino alla cordialità delle persone con cui si viene a contatto. Senza dubbio, da qualche anno, nei grandi centri turistici si nota una certa caduta di tono, fra l'altro con lo sviluppo accelerato dei fast food. Ma in campagna e nei centri piccoli e medi, che continuano a vivere secondo il loro ritmo, il visitatore è ancora accolto come un ospite, vale a dire una persona che merita di essere trattata con cortesia - virtù che costituisce il meglio del retaggio lasciato agli italiani da secoli di civiltà urbana e di socializzazione volontaria - e con la quale si cercherà di conversare, per poco che se ne conosca la lingua. In un mondo in cui il tempo è diventato prima di tutto un parametro economico, l'italiano è ancora capace di 'perdere tempo' con l'altro per ascoltarlo e cercare di conoscerlo, per stabilire con lui una relazione umana, per quanto breve e superficiale, che vada al di là di un semplice rapporto utilitaristico. Si comprende facilmente come questa atmosfera, che è allo stesso tempo di benevolenza e di attenzione, ma rispettosa della libertà di ciascuno e della sua privacy, possa spingere chiunque si senta colpito dai dolori della vita o dalle pene di cuore a cercare un rifugio o almeno una tregua in Italia, per eccellenza paese della compassione materna, incarnata dall'onnipresente Vergine Maria, terra di perdono e di oblio dove non si concepisce giustizia senza grazia. L'Italia, così come cura o guarisce le sofferenze fisiche di coloro che si recano nelle sue famose stazioni termali, offre a quelli che l'amano quella pacificazione e riconciliazione con sé stessi che oggi sono ricercate altrettanto, se non di più, della salute stessa.
Il viaggio degli italiani
Ma non sono solo gli stranieri a visitare l'Italia. Il loro cammino si incrocia talvolta, senza mescolarsi, con quello degli italiani, che in genere hanno però una concezione diversa del viaggio. Se ne hanno i mezzi, gli italiani preferiscono uscire dalle proprie frontiere e recarsi a Nizza o in Svizzera se non addirittura in qualche paradiso insulare dell'Oceano Indiano. Sempre più numerosi sono quelli che partecipano a crociere che li portano in contrade per loro del tutto estranee, come Capo Nord e i fiordi della Norvegia. Di fatto è difficile definire con precisione le loro mete perché si recano dappertutto e li si ritrova altrettanto in Siria o in Egitto che in Kenya o nello Yemen.
Nella direzione contraria vanno i molti emigrati di origine italiana che, una o due volte all'anno se vivono in Europa, più raramente se risiedono in Argentina, in Canada o in Australia, ritornano nel loro paese o nella loro città di origine, spesso situati in Calabria o in Sicilia. Che sia sulle strade, dove le loro automobili superpiene trasportano con gran fatica intere famiglie e carichi inverosimili, o negli aeroporti, dove sbarcano trascinandosi innumerevoli valigie, questi italiani dell'estero si riconoscono al primo colpo d'occhio, non fosse che per il modo ostentato di vestire, che vuole rendere il più visibile possibile la loro riuscita sociale, e per la quantità di regali che portano ai loro parenti e amici rimasti in patria.
In quanto agli italiani che risiedono nel paese, per la stragrande maggioranza la meta principale e in genere unica delle vacanze è il mare. Certamente è di bon ton, in certi ambienti intellettuali o eleganti, villeggiare in Valle d'Aosta o a Cortina d'Ampezzo o in altre località delle Dolomiti, ma è un'abitudine che riguarda solo una minoranza. Le famiglie, dall'inizio delle vacanze scolastiche, si riversano nelle località marittime e si sistemano, a seconda dei loro mezzi, in residence, in appartamenti o in alberghi per passarvi l'estate. Gli spostamenti richiesti da questa grande migrazione estiva non sono necessariamente lunghi: i romani si contentano spesso di raggiungere Santa Marinella o Fregene, i napoletani Formia o Gaeta. Una volta sul luogo, non ci si muove più perché unico obiettivo di questa villeggiatura è fare il bagno a fine mattina, la siesta nel pomeriggio e la cena la sera, quando finalmente la notte porta un gradevole fresco. Poco sport o esercizi fisici, perché il sole troppo forte li impedisce. La civiltà balneare, che si sviluppa secondo riti immutabili nella cornice degli stabilimenti che hanno finito per occupare un po' dappertutto le spiagge degne di questo nome, si fonda su alcuni 'valori' fondamentali: abbronzarsi e passare il tempo senza fare niente, osservando quelli che passano e chiacchierando con i familiari e i vicini.
Però da qualche anno, le abitudini degli italiani, che visitavano molto poco il loro paese e non conoscevano bene che il loro luogo di residenza e il bordo del mare dove trascorrevano l'estate, hanno iniziato a evolversi. Per influenza dei movimenti ecologisti e di riviste turistiche di buon livello, un certo numero di essi ha iniziato, al seguito degli stranieri e con il loro esempio, a scoprire le ricchezze e le bellezze naturali del paese, così come il suo patrimonio artistico, in occasione di brevi soggiorni individuali o familiari in una regione o nell'altra, di cui hanno sentito decantare le attrattive. Anche se in termini statistici questa nuova abitudine non altera la preponderanza della villeggiatura marittima, attestata dal tragico vuoto del centro delle città interamente abbandonate ai turisti nel periodo di Ferragosto, si nota in ciò il segno di un cambiamento profondo nella mentalità e nell'attenzione riservata al 'bel paese' dai suoi abitanti, che cominciano a cercare di appropriarsene a loro volta.
Tipologie di viaggio
In Italia - a parte gli spostamenti di tipo familiare e le gite scolastiche che periodicamente invadono le grandi piazze delle città e riempiono i musei di chiacchiere rumorose, di cui le opere d'arte non sono certamente l'argomento principale - sono dunque soprattutto gli stranieri a viaggiare, percorrendo il paese in ogni direzione. Le forme assunte da questo movimento turistico sono molto varie: viaggi individuali, per famiglie o collettivi, in moto, auto o pullman, e con diverse modalità di alloggio che vanno dal camping all'hotel di lusso, passando dal camper o dalla sistemazione in bungalow o in case private. Salvo che nelle località di mare o nelle regioni alpine, il classico turismo alberghiero mostra una tendenza alla regressione a favore dell'agriturismo, che non è necessariamente meno costoso, soprattutto quando è presente una piscina, ma assicura all'ospite una maggiore autonomia, permettendogli di assaporare i piaceri della campagna senza rinunciare alle comodità cittadine. A parte queste differenze formali, bisogna comunque distinguere diversi tipi di viaggi e di viaggiatori.
Il primo tipo è rappresentato dal viaggio di svago, in cui rientra quello 'amoroso'. Fino a poco tempo fa, Venezia, i grandi laghi del Nord o Capri erano considerati la meta ideale per un viaggio di nozze, conformemente a una lunga tradizione letteraria - che risale all'età romantica e fu illustrata in Francia da Lamartine e Graziella, Alfred de Musset e George Sand, e da molti altri - secondo la quale l'Italia sarebbe il paese dell'amore per eccellenza, anzi, se si crede a Stendhal, dell'amore-passione. Questa fama è ancora oggi accreditata, e l'Italia accoglie sempre, con altrettanta liberalità, coppie di ogni tipo alla ricerca di intimità.
Assolutamente differente è il viaggio religioso, che assume spesso la forma di un pellegrinaggio organizzato. I gruppi, guidati da preti o suore, provengono da una determinata parrocchia o diocesi o sono legati da una comune affiliazione spirituale, come le confraternite francescane che percorrono i monti dell'Umbria alla ricerca dei luoghi in cui visse il Poverello. Tranne che in qualche luogo privilegiato, come piazza San Pietro a Roma o le chiese di Assisi, questo turismo è poco visibile e attrae tanto meno l'attenzione in quanto i suoi viaggiatori in genere sono presi in carico dai circuiti di ospitalità ecclesiastica. L'importanza ed efficacia di questi si sono palesate in pieno durante il recente Giubileo, quando le case religiose hanno permesso a Roma di assorbire senza troppi traumi, e senza dover creare strutture d'urgenza, i milioni di pellegrini giunti per l'occasione nella Città eterna. Di fatto, questo tipo di viaggio è di gran lunga il più antico e il più tradizionale, dal momento che dall'Alto Medioevo i pellegrini non hanno mai smesso di affluire dalle Alpi e dalla Pianura Padana, seguendo la Via Francigena, ed è lungi dall'aver perso la sua importanza, essendosi aggiunti ai fedeli provenienti dai paesi dell'Europa occidentale quelli che arrivano dall'Europa centrale e orientale e da tutte le altre parti del mondo, anche le più remote. Di norma, questo tipo speciale di viaggiatori approfitta del soggiorno in Italia per visitare anche la Basilica del Santo a Padova, quella di San Francesco ad Assisi e, da qualche anno, la tomba di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. Qui nel 2000 si sono recati cinque milioni di persone, fra cui però molti erano gli italiani, che in precedenza avevano piuttosto l'abitudine di recarsi a Lourdes o ai santuari locali o regionali, come quelli del Divino Amore a Roma o della Madonna di Pompei. Il pellegrinaggio ha caratteristiche proprie: è un viaggio che mira a un coinvolgimento spirituale e cerca di dare a chi vi partecipa un senso più profondo del cattolicesimo. Così ruota intorno alla visita commentata di chiese, santuari e altri luoghi di memoria religiosa, come le Catacombe. Il suo punto culminante è spesso costituito dall'udienza papale o, quanto meno, dalla recita dell'Angelus con il Santo Padre la domenica a mezzogiorno, davanti al colonnato di Bernini.
Un altro tipo di viaggio è quello intrapreso da coloro che cercano e amano le opere d'arte e i begli oggetti e, più in generale, dal grande pubblico colto, che rivolge all'Italia un interesse di tipo estetico, archeologico o storico. Eredi e seguaci lontani dei 'collezionisti' e degli umanisti del Rinascimento e dei letterati o semplici curiosi che compivano il Grand Tour nel 18° secolo, questi viaggiatori sono talvolta guidati da interessi molto specifici che li conducono in itinerari particolari: così la passione per l'arte barocca, rimessa in voga in Francia da autori come Dominique Fernandez o Yves Bottineau, porterà alcuni da Roma a Napoli e da lì a Lecce, Noto e Ragusa; altri preferiranno visitare i luoghi dove si conservano le opere di Guido Reni o seguire il festival di Pesaro in cui si eseguono ogni anno le opere meno conosciute di Rossini. Studioso o esteta, il viaggiatore 'culturale' incrocia talora le folle dei turisti, ma mai vi si unisce, alla ricerca di opere e di monumenti poco conosciuti. A Firenze non si contenterà degli Uffizi ma visiterà anche il Bargello e l'Accademia, trascurati dai visitatori frettolosi; a Roma si interesserà tanto al museo di scultura romana recentemente installato nella cornice industriale della centrale Montemartini quanto alla Cappella Sistina. Più a nord lo si incontrerà piuttosto a Mantova, a Urbino o a Ferrara che per le strade di Rimini e di San Marino. E lo si potrà trovare dove meno ci si aspetta, in fondo a una necropoli etrusca della Tuscia o in una bella chiesa romanica degli Abruzzi.
Predecessori illustri
Con questo ultimo tipo di viaggiatori si risale a ciò che costituisce in qualche modo la quintessenza e l'originalità del viaggio in Italia. Del tutto diverso dai viaggi d'affari, che sono uguali in tutti i paesi e non meritano di soffermarvici, o dagli spostamenti discreti degli immigranti che cercano soprattutto di passare inosservati, il viaggio culturale si iscrive infatti in una tradizione nazionale o, per essere più esatti, in diverse tradizioni nazionali, ciascuna dotata di una propria specificità. Queste tradizioni sono condensate nei diari, nelle cronache o nei resoconti di viaggio che risalgono almeno al Rinascimento e talvolta anche a prima, e la cui sostanza è stata successivamente trasmessa al grande pubblico dalle guide turistiche, che si rinnovano in continuazione ma rimangono sempre tributarie delle aspettative e della cultura dei loro lettori. Così, quando si valicano le Alpi verso Sud e ci si affida a queste opere per organizzare un programma di visite, si procede, senza averne in genere chiara coscienza, sulle tracce di alcuni predecessori illustri, che si chiamano per esempio Montaigne, Goethe o Stendhal. In questo senso, ogni spostamento turistico in Italia costituisce un viaggio storico e culturale.
Questo avviene non soltanto perché il paese trabocca di tesori artistici e di monumenti, ma perché nel modo stesso di costruire il suo itinerario il turista straniero si rifà, in maniera più o meno implicita, a quanto fra i suoi connazionali generazioni di viaggiatori prima di lui hanno pensato e scritto, amato o detestato. Si può quindi dire che nello spirito del visitatore preesiste una determinata idea dell'Italia, che influenzerà il suo approccio con la realtà del paese, con il rischio di trovarvi solo quello che avrà cercato. Così i francesi, anche senza averlo mai letto - ed era certamente la maggioranza dei casi - sono rimasti a lungo condizionati, a distanza di secoli, dalle reazioni annotate da Montaigne nel suo Journal du voyage en Italie nel 1581: ammirazione per il fasto e la grandiosità di Roma; un certo disprezzo per l'arte e l'architettura barocca nelle quali Montaigne vedeva solo un pallido riflesso dell'Antichità; giudizi severi sulla religiosità italiana, le cui manifestazioni troppo esteriori e le forme eccessive urtavano la sua sensibilità apparendogli in contraddizione con l'ideale francese di una pietà istruita e temperata. Queste immagini primordiali furono poi arricchite da apporti diversi, dal presidente de Brosses a Chateaubriand, Zola o Gide e non hanno cessato di evolversi. Negli ultimi anni, nuovi approcci, fondati sulle ricerche archeologiche e storiche più recenti, hanno rimesso in discussione le lacune e le inesattezze di questi modi di vedere, e le guide di ultima generazione testimoniano una maggiore adesione alla realtà che pretendono di descrivere. Nondimeno il viaggiatore francese resterà in certa misura tributario delle sue tradizioni culturali e difficilmente potrà astrarsi da questa eredità composita, in seno alla quale sceglierà in funzione dei suoi gusti e delle sue idee, a meno di non avere acquisito autonomamente una conoscenza approfondita dell'Italia.
Fra gli inglesi ha prevalso la tradizione del Grand Tour che ha permesso ad alcuni happy few - amatori di antichità nel 18° secolo e poeti nel 19° secolo - di soddisfare il loro gusto per la bellezza e per certe forme di esotismo e di estraniamento. Rossellini, in Viaggio in Italia, ha descritto con maestria come questo sentimento, in alcuni casi, abbia potuto spingersi fino alla scoperta del soprannaturale, cosa che in quel film capita a una coppia tipicamente britannica attraverso il miracolo, nel quadro di una festa religiosa popolare. Per parte loro i tedeschi sono rimasti a lungo preda della visione, cara a Winckelmann e a Goethe, dell'Italia patria di un ideale di bellezza, di cui quegli autori ritrovavano l'espressione più alta nei capitelli dei templi greci di Paestum e di Segesta e nella statuaria neoclassica di Canova e di Thorwaldsen. Oggigiorno queste idee non sono più di moda oltre Reno, ma altre tradizioni, ancora più antiche, non hanno perso il loro fascino: in un certo senso, ogni tedesco che scende in Italia ricalca i passi degli imperatori del Sacro Romano Impero, che da Carlo Magno agli Ottoni fino a Ludovico il Bavaro, all'inizio del 14° secolo, effettuarono il Römerzug, il viaggio trionfale che li conduceva a Roma a essere incoronati dal Papa. È dubbio, sicuramente, che tutti i villeggianti tedeschi che ogni anno trascorrono le vacanze sulle spiagge dell'Adriatico siano consci di questo glorioso passato, ma senz'altro non è un caso se la maggior parte dei turisti stranieri - a tutt'oggi poco numerosi - che si recano a visitare Castel del Monte in Puglia e gli altri manieri costruiti da Federico II in tutta l'Italia del Sud è originaria delle regioni del Reno e del Danubio.
Gusti diversi
Queste diverse immagini mentali sono di fatto importanti nella misura in cui determinano una geografia differenziata del viaggio in Italia. Così i giapponesi immancabilmente fanno seguire alla visita della Cappella Sistina lo shopping nei negozi eleganti di Via Condotti, soprattutto Prada e Gucci, mentre a Firenze gruppi compatti di giovani ben inquadrati fanno la fila davanti alla boutique di Ferragamo con la stessa pazienza che mostrano alla Galleria degli Uffizi: per loro infatti l'Italia è in primo luogo il paese dell'eleganza raffinata e del lusso. Gli anglosassoni, e più in generale gli abitanti dell'Europa nordoccidentale, privilegiano di gran lunga la Toscana, a causa della distinzione aristocratica che impregna il paesaggio e la sua architettura, ma anche per la qualità dei suoi vini e della sua cucina. Una volta in pensione, molti di loro vi si trasferiscono, dopo aver restaurato vecchi casali di mezzadri o ville borghesi dagli ampi tetti, tanto che alcuni paesi dell'Appennino Toscano oggi sono abitati in maggioranza da inglesi o tedeschi e che si usa spesso chiamare 'Chiantishire' l'area compresa tra Rada e Greve. Da parte loro i francesi sono particolarmente legati a Venezia e a Firenze, ma li si ritrova anche numerosi ad Assisi e soprattutto a Roma e a Napoli, città alle quali sono legati da un'infinità di ricordi, sul piano religioso e culturale, così come da una lunga storia comune che va dagli Angiò di Napoli nel Medioevo a Napoleone e alla sua famiglia, fino alla campagna del corpo di spedizione francese nel 1943-44.
Certamente alcuni tropismi nazionali sono ora messi in discussione dai tour operators che propongono in tutto il mondo viaggi 'tutto compreso' a prezzi imbattibili, con meta soprattutto a Venezia, Firenze e Roma. Ma per un europeo, da qualsiasi parte venga, l'Italia non sarà mai un paese come gli altri, perché essa rappresenta la fonte e l'origine della sua cultura e della sua civiltà. Il credente vi verrà a cercare le tracce di Pietro e Paolo e dei primi martiri o quelle di Francesco d'Assisi o di Filippo Neri; l'uomo di cultura si incanterà di fronte agli splendori della civiltà romana facilmente accessibili a Ostia, a Pompei e in tanti altri luoghi che sembrano essere stati da poco abbandonati dai loro abitanti antichi, senza contare gli innumerevoli tesori raccolti nei musei archeologici o le necropoli e le città di età 'ciclopica', greca ed etrusca. Anche il viaggiatore poco colto non potrà non essere sensibile alla presenza nello stesso paese di civiltà che vi si sono sviluppate in tutto il loro splendore e la cui sovrapposizione, talvolta nello stesso luogo, offre una visione generale di tutto quanto il mondo mediterraneo ha saputo produrre di bello e di grande nel corso dei secoli: non solo la Grecia classica ma anche Bisanzio, così presente a Ravenna, in Calabria e in Sicilia, dove il regno normanno di Palermo lo ha associato all'apporto arabo, e ancora l'impero svevo e il regno angioino di Napoli, il Rinascimento toscano e padano, la Roma manierista e barocca dei Papi e della Controriforma e tante altre correnti spirituali, artistiche e culturali di cui l'Italia è stata l'epicentro.
Il fascino che questo paese non cessa di esercitare sugli spiriti e sui cuori e che spinge tanti visitatori a recarvisi non dovrà indebolirsi negli anni a venire. Sempre che gli italiani sappiano resistere al processo di banalizzazione e di omologazione in atto - soprattutto nel campo dell'alimentazione e della cucina - e restino ben consci che la vera specificità dell'Italia, quella che le conferisce un carattere unico, sta in ultima analisi nel fatto che qui si ritrovano in tutta la loro pienezza gli elementi costitutivi della civiltà occidentale, di cui gli altri paesi europei conservano frammenti impoveriti o ricordi lontani. In questo senso ogni viaggio in Italia è un'anamnesi che permette a chi lo compie di riscoprire la ricchezza e la diversità di un'eredità comune e di ritrovare sé stesso integrandola con la sua memoria e la sua esperienza.
repertorio
Dal pellegrinaggio al Grand Tour
I lunghi soggiorni degli studenti stranieri nelle università italiane e degli umanisti anglosassoni presso le corti della penisola, nel corso del 15° e del 16° secolo, possono essere visti come il trait d'union fra la tradizione medievale del pellegrinaggio - diretto soprattutto a Roma e ai mirabilia Urbis, e completamente disinteressato a paesaggi e dati storici, tutto immerso com'era nella dimensione religiosa - e un modo nuovo e moderno di concepire il viaggio, inteso come il completamento della formazione degli aristocratici e di alcuni borghesi, al passaggio fra l'adolescenza e l'età adulta (cioè fra i 16 e i 22 anni). Il costume del viaggio di formazione, senza uno scopo o un'incombenza pratica ben definiti, aveva iniziato a diffondersi tra i giovani aristocratici (e anche tra i rampolli delle classi emergenti, burocrati e professionisti) inglesi, francesi, tedeschi, fiamminghi nel 16° secolo. L'Italia era la meta privilegiata di questi itinerari mossi dalla curiosità, dal desiderio di evasione (anche per l'attrazione esercitata da un paesaggio naturale dominato dalla luce, dal sole, dal rigoglio), dalla sensibilità al richiamo della cultura classica e dalla volontà di esercitare quello spirito di osservazione che la nuova scienza baconiana, da una parte, e la mentalità storiografica francese, dall'altra, stavano radicando negli intellettuali europei.
Alla fine del 17° secolo, tale costume si istituzionalizzò e prese il nome di Grand Tour, espressione che compare per la prima volta nella 'guida' di Richard Lassels (1697), il quale afferma: "Nessuno è in grado di comprendere Cesare e Livio come colui che ha compiuto il Grand Tour completo della Francia e il giro dell'Italia". II Grand Tour, il 'giro' attraverso vari paesi europei, con arrivo nella stessa località dalla quale si era partiti, prevedeva la visita, più o meno parziale, delle Fiandre, della Germania, della Svizzera, della Francia, ma la tappa considerata di importanza centrale, irrinunciabile, era l'Italia. Agli occhi dei viaggiatori stranieri (ai quali appariva come un 'luogo dello spirito' idealmente coeso), nei diari dei grandi viaggiatori, nei loro saggi, nel vedutismo di disegni, dipinti, incisioni, l'Italia recuperava quell'immagine unitaria che la frammentazione politica le aveva sempre precluso.
La tipologia del viaggio in Italia - con le dovute eccezioni - prevedeva l'arrivo all'inizio di settembre, via mare da Marsiglia, Tolone o Nizza, oppure via terra dal Moncenisio: la prima città era rispettivamente Genova o Torino, anche se alcuni viaggiatori giungevano direttamente a Livorno e proseguivano alla volta di Pisa e Lucca. Attraverso la via costiera Genova-Pisa, o quella interna Torino-Milano-Bologna, si arrivava a Firenze, prima vera tappa che richiedeva una sosta piuttosto lunga. Quindi si passava a Siena e a Viterbo, per giungere a Roma ai primi di novembre. Nella capitale ci si fermava, generalmente, più a lungo che in qualsiasi altra città; comunque, si assisteva alle cerimonie per il Natale e l'anno nuovo e, potendo, anche alle celebrazioni della festa dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno, con i fuochi d'artificio notturni da Castel Sant'Angelo. Il posto privilegiato che la capitale occupava nel tour italiano derivava dall'intrecciarsi di varie componenti: la tradizione rinascimentale e la riscoperta della classicità, la presenza delle testimonianze storiche della cristianità, la crescente importanza del riassetto urbanistico a partire dalla seconda metà del 15° secolo. Tra il Carnevale e la settimana santa, o tra la Pasqua e la fine di giugno, ci si recava a Napoli, tappa finale, fino alla metà del 18° secolo, del viaggio in Italia. Napoli e il suo golfo, la Campania Felix, erano considerate luoghi molto più salubri di Roma per trascorrervi i mesi estivi. Tornando, si faceva una breve sosta a Loreto e poi si proseguiva per Ferrara, Padova e Venezia, dove si giungeva in febbraio, per il Carnevale. Di qui si ripartiva e, passando per Vicenza o Verona, si tornava in patria uscendo in Svizzera o in Francia.
repertorio
Grandi viaggiatori inglesi
La 'teoria del viaggio' di Francis Bacon
In epoca elisabettiana, il viaggio in Italia è un'istituzione ormai consolidata. Del resto, nell'Europa del 16° secolo la cultura italiana ha un ruolo dominante: la filosofia, le arti, la letteratura, la musica parlano italiano, e la voga italiana detta legge anche nell'abbigliamento e nel vasellame da tavola. Il teatro shakespeariano è intessuto di temi e concetti italiani. Pittori, scultori e architetti italiani sono al servizio delle più importanti corti europee e gli artisti nordeuropei (fra i quali Albrecht Dürer) giungono nella penisola per studiare l'arte classica.
In un vero e proprio trattato, Of travel (1615), Francis Bacon stende una sorta di minuzioso, dettagliatissimo decalogo del viaggiatore - comprendente norme di comportamento ed elenchi delle 'cose da vedere e da osservare' - per trarre il massimo beneficio da questa forma di conoscenza: viaggiare significa, in ossequio al metodo scientifico, rendersi conto con i propri occhi della realtà del mondo e quindi anche delle città e dei paesi del Continente. La 'carta del viaggiare' di Bacone, compilata con spirito estremamente pratico, comprende anche la raccomandazione di non interrompere completamente, al ritorno, i contatti con i paesi visitati, mantenendo una corrispondenza con le persone di maggior valore conosciute. Il fatto che ha viaggiato dovrà intuirsi piuttosto dai suoi discorsi che dai suoi abiti o dai suoi gesti, per non dare l'impressione di cambiare i modi del suo paese per quelli dei luoghi forestieri. Basterà che si limiti a seminare 'alcuni fiori' di ciò che ha imparato all'estero in mezzo ai costumi del suo paese. Torna alla mente, a questo proposito, la battuta con cui Porzia, nel Mercante di Venezia di Shakespeare, fulmina il suo spasimante inglese: "Ma guarda, com'è vestito buffo! Deve aver comprato il farsetto in Italia, la calzamaglia in Francia, il berretto in Germania e acquisito ovunque quel suo modo di comportarsi".
La Venezia di Richard Lassels
Prete cattolico, scrittore, uomo di cultura, Lassels, tra il 1637 e il 1668, anno della sua morte, compie ben cinque viaggi in Italia, documentati dalla Description of Italy (1654), un testo manoscritto che si riferisce alla sua seconda esperienza italiana, e soprattutto da The voyage of Italy, a complete journey thro' Italy (edito postumo, a Parigi, nel 1670). Il Voyage descrive, nella prima parte, i caratteri del popolo italiano e illustra, nella seconda parte, le città principali, con i loro monumenti, le opere d'arte e le biblioteche. Attento osservatore delle cose antiche e moderne, Lassels giunge fino a Napoli, ma resta incantato da Venezia, dalle sue leggi e dal suo governo, ma anche dall'architettura, dallo straordinario paesaggio lagunare, dai costumi. Ha inizio con lui quel vero e proprio 'innamoramento' dei viaggiatori inglesi tra 17° e 19° secolo per questa città: un gusto che toccherà il suo culmine, nel 19° secolo, con l'opera di John Ruskin.
I Remarks di Joseph Addison
Il poeta Addison, futuro animatore dello Spectator, compie il suo tour dal 1701 al 1703, e registra le sue impressione in un volume, Remarks on several parts of Italy, che, pubblicato per la prima volta nel 1705, ebbe tre ristampe nel corso dei due decenni successivi, divenendo un vademecum per moltissimi viaggiatori, non solo inglesi, nella prima metà del Settecento. La cultura classica dell'autore domina ovunque, e l'Italia descritta da Addison, più che rispecchiare il paese reale, è ricostruita attraverso le citazioni dai testi antichi, le epigrafi, le reminiscenze. Lo stesso autore afferma di aver avuto come guida Orazio nel viaggio da Roma a Napoli e Virgilio in quello da Napoli a Roma. La passione erudita di Addison dà comunque dell'Italia un'immagine in qualche modo reale: la straordinaria fortuna del libro dimostra infatti che questa era l'Italia che molti intellettuali europei volevano scoprire viaggiando.
Gli itinerari palladiani di Lord Burlington
Lord Burlington si reca in Italia una prima volta nel 1714 e una seconda nel 1719. Colto e ricchissimo, Burlington è un appassionato collezionista d'arte e un valente architetto, e proprio per questo motivo è soprattutto la sua seconda visita in Italia, condotta fra Vicenza e il resto del Veneto sulle orme del Palladio, a rivestire l'importanza maggiore. A Villa Maser, Burlington acquista i rilievi delle terme romane, dando inizio a quella passione inglese per il collezionismo palladiano che verrà coronata due anni più tardi dall'acquisto di un cospicuo numero di disegni del maestro da parte di John Talman. A Chiswick House, il neopalladianesimo dell'architetto inglese avrà la sua realizzazione più compiuta.
George Berkeley e la scoperta del Sud
Il Journal of a tour in Italy (1717-18) di Berkeley segna il passaggio a un nuovo tipo di viaggiatore, che parte alla scoperta dell'Italia senza farsi minimamente influenzare dai luoghi comuni e dagli stereotipi tradizionali. I viaggiatori del Grand Tour avevano sempre considerato Napoli come l'estrema propaggine di un'Italia divisa a metà. L'atteggiamento empirico di Berkeley, i suoi interessi antropologici ed etnografici, la sua curiosità per la botanica e la geologia, oltre a un ideale estetico in cui la natura e il mito si toccano, lo spingono a scoprire l'altra metà d'Italia, di cui diventa cultore e interprete sensibilissimo.
John Ruskin e le pietre di Venezia
Figlio di un ricco mercante di sherry, Ruskin fu critico d'arte e riformatore sociale. La sua formazione, riferita nelle belle pagine autobiografiche di Praeterita (pubblicato tra il 1885 e il 1889 e rimasto incompiuto) fu segnata, più che dagli studi, svolti in maniera irregolare, dai molti viaggi, dall'osservazione attenta della natura, dei monumenti e delle opere d'arte, dall'assidua lettura dei classici. Giunto in Italia, nel 1845, continuò a lavorare ai suoi Modern painters (il secondo volume uscì nel 1846), studiando i Bellini e la scuola veneziana, il Beato Angelico e la pittura toscana del primo Rinascimento, e interessandosi ancora di scultura e architettura. Con The stones of Venice (1851-53), risultato dei suoi studi sull'architettura e la scultura dell'Italia settentrionale, Ruskin si fece promotore del gothic revival; nello stesso 1851 pubblicò il saggio sul Pre-Raphaelitism, che decise la fortuna di quel movimento.
repertorio
Grandi viaggiatori francesi
Il Journal di Montaigne
Partito da Parigi nel giugno 1580, Michel de Montaigne vi fa ritorno nel novembre 1581. Nel viaggio in Italia è accompagnato dal fratello e da altri gentiluomini, e da alcuni domestici, fra i quali il suo segretario, al quale detta la prima parte del Journal du voyage en Italie (il cui manoscritto fu scoperto nel 1770 e pubblicato per la prima volta nel 1774, in un'epoca, cioè, in cui la fortuna del Grand Tour era al culmine); nel febbraio 1580, Montaigne prende a scrivere di suo pugno, annotando e aggiornando anche la prima parte del diario. Alle impressioni sui luoghi visitati si aggiungono le annotazioni sul decorso della nefrite, per curare la quale lo scrittore cerca le fonti più note di acque medicinali.
Montaigne entra in Italia dal Trentino e visita poi Verona, Vicenza, Venezia, Rovigo, Ferrara, Bologna, Firenze, Siena. Venezia lo lascia quasi indifferente, mentre Bologna gli appare una "grande e bella città"; Firenze in un primo momento non lo entusiasma, ma si ricrede nel viaggio di ritorno: "In fine confessai, ch'è ragione che Firenze si dica la bella". La campagna toscana lo affascina; l'amena posizione di Lucca, i paesaggi collinari dell'Appennino e lo spettacolo imponente delle Alpi lo riempiono di ammirazione; ma è innegabile che il Journal sia dominato dall'esperienza romana (novembre 1580-aprile 1581). Parlando di Roma, Montaigne descrive il metodo da lui adottato per conoscere una nuova città: il 26 gennaio, sale sul monte Gianicolo "al di là del Tevere, per vedere le particolarità del luogo [...] e per contemplare il panorama di tutte le parti di Roma, che non si vede da alcun altro luogo così chiaramente". Cerca dunque di abbracciare in un unico sguardo tutte le parti della città, valutando la disposizione topografica dei quartieri in base alla loro destinazione funzionale, e solo dopo essersi fatta un'idea precisa dell'insieme passa alla visita particolareggiata. A Roma Montaigne assiste alle cerimonie solenni e alle feste pubbliche, frequenta cardinali, ambasciatori, antiquari, cortigiani. Il 29 dicembre 1580, l'ambasciatore francese lo conduce in udienza da papa Gregorio XIII: dalla descrizione dell'udienza, con il triplice inginocchiamento e il bacio del piede calzato d'una pantofola rossa, traspare la malcelata ammirazione dello scrittore per il fasto della corte pontificia. Ma ancor più che dai fasti e dall'arte contemporanea, che pure era in un momento di grande splendore, la sua attenzione è catturata dalle memorie di Roma antica:
"[Il signor di Montaigne] diceva che di Roma non si vedeva altro che il cielo sotto cui era un tempo adagiata, e il luogo dove sorgeva; che la scienza ad essa relativa di cui s'era fatto padrone [l'archeologia], era astratta e teorica, nulla essendoci che cadesse sotto i sensi; che quanti asserivano esserci almeno di visibile le rovine di Roma, dicevano troppo: le rovine d'un organismo sì immane avrebbero infatti recato ben altro onore e rispetto per la sua memoria; ma altro non era se non il suo sepolcro. Il mondo nemico della sua lunga dominazione aveva dapprima spezzato e infranto tutte le membra di quel corpo mirabile; e poiché, morto com'era e abbattuto e sfigurato, ancora gl'incuteva timore, ne aveva sepolti perfino i resti medesimi. Quanto ai piccoli segni della sua rovina che ancora compaiono sopra la sua bara, era la sorte che li aveva conservati, a testimonianza della grandezza infinita che tanti secoli, tanti incendi, la congiura del mondo intero tante volte formatasi per abbatterla, non avevano potuto distruggere in ogni sua parte".
Il Voyage di Montesquieu
Charles-Louis de Montesquieu, i cui appunti di viaggio (Voyages) furono pubblicati per la prima volta nel 1894-96 da Albert de Montesquieu, arriva in Italia, proveniente da Vienna, nell'agosto 1728, per rimanervi circa un anno. Quando si mette in viaggio per l'Europa, il suo scopo è quello di raccogliere materiali e di studiare 'sul campo', con spirito di naturalista e di scienziato, geografia, clima, economia, strutture sociali dei luoghi che visita. Montesquieu ha notevoli interessi scientifici, è appassionato di tecnica e di agronomia (anche per la sua esperienza di proprietario terriero). Oggetto del suo interesse sono anche le infrastrutture militari e commerciali, le fortezze e i porti. Dalla molteplicità e diversità dei dati Montesquieu tenta di trarre principi e leggi; il suo 'metodo' per penetrare in una città nuova ricorda quello di Montaigne: "Quando arrivo in una città, salgo sempre sul più alto campanile, o sulla torre più alta, per avere una veduta d'insieme, prima di vedere le singole parti; e nel lasciarla faccio la stessa cosa, per fissare le mie idee". In maniera analoga procede quando attraversa un territorio: dalla valutazione generale passa a registrare alcuni particolari, per poi tornare a valutazioni complessive.
Montesquieu soggiorna a Milano nel settembre 1728, dopo essersi trattenuto per circa un mese a Venezia, ma per quanto riguarda gli aspetti artistici Firenze e Roma sono i 'luoghi' centrali del suo viaggio. Il suo gusto è dominato dal classicismo eloquente tipico della cultura francese tardo-settecentesca: Raffaello per la pittura e Michelangelo per l'architettura e la scultura restano i suoi modelli, ma giudica positivamente anche Bernini, e soprattutto Pietro da Cortona e Borromini, quindi senza farsi condizionare dai preconcetti scolastici. Ecco le impressioni registrate dopo la visita alla Cappella Sistina (le parole in corsivo sono in italiano nel testo originale): "Ho visto ieri la Cappella Sistina, dove il Papa tiene cappella, e dove tutta la corte romana può riunirsi. La tribuna et la volta sono tutte due dipinte da Micaël-Angelo. Nella tribuna, o muro che è dietro l'altare, c'è il famoso Giudizio universale. Nella volta sono le storie della Genesi, come la Creazione dell'uomo, la Tentazione, ecc. Il Giudizio è più sbiadito della volta. Questa pittura dà un'idea completa del genio di Michelangelo più di tutte le sue altre opere, e non credo che le Logge di Raffaello siano superiori. Tuttavia ho notato due difetti: il primo è che non ha rispettato la prospettiva, perché le figure in alto della Loggia sono più grandi di quelle in basso; inoltre, nella volta e nello stesso quadro, ha messo due volte il Padre Eterno, che crea, e, in un altro, due volte Adamo: il che è contro il buon senso. Ma certo nelle sue pitture c'è una maestà, una forza di espressione, uno stile grande che lasciano stupefatti".
Le Lettres del presidente de Brosses
Charles de Brosses, consigliere e poi presidente a vita del Parlamento di Borgogna, studioso di storia, archeologia, geografia, linguistica, intraprende il viaggio in Italia nel 1739-40, in compagnia di cinque amici, fra i quali l'erudito antichista Bouhier e il naturalista Buffon. Il suo scopo è quello di compiere ricerche filologiche sui testi di Sallustio, oggetto particolare dei suoi studi, del quale spera di trovare nuovi manoscritti nelle biblioteche di Milano, Firenze e Roma.
Le Lettres familières écrites d'Italie en 1739 et 1740, rielaborate fino al 1755 (delle 58 epistole, soltanto una decina furono realmente scritte in Italia), costituiscono una vera e propria guida, in cui un'enorme mole di aneddoti, descrizioni, ritratti, osservazioni testimonia di uno spirito arguto, ironico, curioso e, soprattutto capace di un'autonomia di giudizio, di una totale mancanza di preconcetti, piuttosto rare all'epoca. Il sentimento che de Brosses ha dell''antico' si fonda sì sulla cultura erudita e antiquaria propria del suo tempo, ma è rivissuto con passione e una buona dose di spregiudicatezza, come appare evidente, per es., dal progetto di riuso del Colosseo: "Il mio progetto (sono fertile in fatto di progetti, io) sarebbe di ridurre il Colosseo a semianfiteatro, di abbattere il resto della cerchia dalla parte del monte Celio, di restaurare nell'antica forma l'altra metà che si lascerebbe in piedi, e di fare dell'arena una bella piazza. Non è forse meglio avere mezzo Colosseo in buono stato, che averlo tutto intero in pezzi? E chi vi impedisce, signori romani, di collocare al centro di questa piazza una vasta fontana, o persino un laghetto, per dare l'impressione di un'antica naumachia?".
L'Italia di Stendhal
Henri Beyle è in Italia nel 1817, ed è qui che usa per la prima volta il nome Stendhal: Monsieur de Stendhal, officier de cavalerie. L'Italia che ci presenta in Rome, Naples et Florence en 1817 (pubblicato una prima volta nel 1817 e quindi, rivisto, nel 1826) - e successivamente nelle Promenades dans Rome (nate dal suo sesto soggiorno romano, quello del 1827) - è il paese raccontato da un uomo che confessa di esservi stato "felice per sei mesi" (riferendosi al primo viaggio, quello del 1817). L'Italia è per Stendhal la grande avventura amorosa della sua vita; rappresenta pienamente il suo stato d'animo e la sua poetica in questa fase giovanile e tornerà nei libri successivi come una costante. Lo scrittore vi giunge pieno di 'deliziosa aspettativa', pronto a coglierne con tutti i sensi le mille attrattive. È incantato da Milano, il luogo del primo incontro con il paese, mentre trova Firenze civilissima ma fredda e priva di passione, 'inexaltable'.
Il tema della passione, dell'energia vitale di un popolo costretto dalle circostanze politiche nei limiti della vita privata e tuttavia, sia pure in questo ambito ristretto, felice, si accosta continuamente a quello della libertà come elemento necessario all'arte: "L'Italia avrà una letteratura solo dopo che avrà avuto le due Camere; fino ad allora, tutto quanto si fa è solo falsa cultura, letteratura d'accademia. Può anche spuntare un uomo di genio in mezzo alla generale mediocrità; ma Alfieri lavora alla cieca, non ha da sperare in un vero pubblico [...]. Solamente la musica vive in Italia e altro non s'ha da fare in questo bel paese, che l'amore; gli altri godimenti dell'animo vi sono impediti; qui, se si è cittadini, si muore avvelenati di melanconia. La diffidenza qui spegne l'amicizia; in cambio, qui l'amore è delizioso; altrove, se ne ha solo la copia". Le indicazioni di Stendhal per chi voglia partire alla scoperta di Roma sembrano validissime ancora oggi: "Ecco un consiglio ai turisti: arrivando a Roma non vi lasciate invischiare da nessun pregiudizio, non acquistate nessun libro: il momento della curiosità e della cultura sostituirà anche troppo presto quello delle emozioni [...] evitate la vista e ancor più il contatto dei curiosi. Solo se durante la visita ai monumenti nella mattinata avrete il coraggio di arrivare fino alla noia per mancanza di compagnia, anche se siete ormai completamente traviati dalle piccole vanità salottiere, alla fine arriverete a sentire l'arte [...]. Come entrate a Roma, salite su una carrozza e, secondo che vi sentiate disposti a gustare il bello incolto e terribile, o il bello grazioso e artefatto, fatevi condurre al Colosseo o a San Pietro. Se ci vorrete andare a piedi, non ci arriverete mai: troppe cose meravigliose vi fermeranno lungo la strada. Non rivolgetevi a nessuna guida né a nessun cicerone. In cinque o sei mattinate il vostro cocchiere vi farà fare le dodici corse che vi indico [...] Tornate a rivedere quello che vi ha maggiormente colpito; cercate le cose che vi somigliano. È questa la strada maestra che la natura vi apre per farvi penetrare nel tempio delle arti belle".
La Venezia di Proust
Marcel Proust giunge nella città lagunare, insieme alla madre, nella primavera del 1900, in un "radioso mattino di maggio", come scrive Marie Nordlinger, compagna, insieme a Reynaldo Hahn, degli itinerari veneziani dello scrittore. Proust e la madre alloggiano all'Hotel Danieli: la mattina dopo l'arrivo, prima di scendere per la colazione, dal balcone del suo appartamento, egli sperimenta quella particolare qualità della luce che è la cifra stilistica di Venezia. Proprio questa luce, con la sua 'freschezza' e il suo 'splendore', è l'elemento fondamentale del sogno di essere a Venezia che il narratore-bambino fa in Dalla parte di Swann, e della descrizione della città nella Fuggitiva.
Un pomeriggio, a San Marco, frequente meta delle passeggiate di Proust, scoppia un violento temporale, e la luce si oscura: la Nordlinger legge allo scrittore un passo delle Pietre di Venezia di Ruskin, in cui si parla della decadenza e dei peccati della città. Affascinato, Proust tornerà a Venezia l'anno successivo in segreto, per seguire, a detta del suo biografo George D. Painter, i suggestivi itinerari evocati da questa lettura, che la presenza della madre gli aveva impedito di sperimentare.
Piena di fascino, è una delle pagine della Fuggitiva, in cui lo scrittore descrive le sue peregrinazioni notturne: "La sera, uscivo da solo, nella città incantata, perdendomi per quartieri sconosciuti come un personaggio delle 'Mille e una notte'. Era rarissimo che non m'avvenisse di scoprire per caso, durante le mie passeggiate, qualche piazza sconosciuta e spaziosa di cui nessuna guida, nessun viaggiatore, mi aveva parlato. Ero penetrato in un intrico di straducole, di calli. Di sera, con i loro alti camini svasati cui il sole reca i rosa più vivi, i rossi più chiari, sopra le case sembra fiorire tutto un giardino, con tanta varietà di sfumature che lo diresti, coltivato sulla città, il giardino d'un appassionato di tulipani di Delft o di Haarlem. E poi, l'estrema vicinanza delle abitazioni faceva d'ogni crocicchio la cornice dalla quale sogguardava fantasticando una cuoca, o una ragazza che, seduta, si faceva pettinare da una vecchia dal profilo, indovinato nell'ombra, di strega, tramutando in una esposizione di cento quadri olandesi giustapposti ogni povera casa silenziosa e contigua alle altre a causa dell'estrema strettezza di quelle calli. Compresse le une contro le altre, quelle calli dividevano in ogni direzione, con le loro scanalature, il settore di Venezia ritagliato fra un canale e la laguna, come se si fosse cristallizzato seguendo quelle forme innumerevoli, tenui e minuziose. D'improvviso, in fondo a una di quelle stradette, pareva che nella materia cristallizzata si fosse prodotta una distensione. Un vasto, sontuoso 'campo', che, in quella rete di stradicciole, certo non avrei saputo immaginare di tanta importanza, e al quale non avrei saputo dare spazio, si estendeva dinanzi a me, circondato da bei palazzi, pallido di chiaro di luna. Era uno di quei complessi architettonici verso i quali, in altre città, le strade si dirigono, vi conducono, designandoli. Qui, pareva intenzionalmente nascosto in un intrico di straducole, come quei palazzi dei racconti orientali dove nottetempo viene condotto un personaggio che, riaccompagnato a casa propria prima dell'alba, non deve saper ritrovare l'abitazione magica dove finirà col credere di essere stato soltanto in sogno. Il giorno dopo andavo alla ricerca della mia bella piazza notturna, seguivo calli che si somigliavano tutte fra di loro e rifiutavano di darmi qualsiasi ragguaglio, se non per farmi perdere ancor più l'orientamento. Talora un vago indizio, che credevo di riconoscere, mi faceva supporre che presto mi sarebbe apparsa, nella sua solitudine claustrale e nel suo silenzio, la bella piazza esiliata. In quel punto, qualche cattivo genio, che aveva assunto le apparenze di una nuova calle, mi faceva tornare, mio malgrado, sui miei passi e mi trovavo bruscamente ricondotto al Canal Grande. E, siccome fra il ricordo di un sogno e il ricordo di una realtà non ci sono grandi differenze, finivo col domandarmi se non fosse stato il sonno a generare, in un cupo frammento di cristallizzazione veneziana, quella strana fluttuazione che offriva una vasta piazza, circondata da romantici palazzi, alla meditazione lunare".
repertorio
Grandi viaggiatori tedeschi
Il neoclassicismo di Johann Joachim Winckelmann
Attratto fin da giovinetto dagli studi classici, Winckelmann ebbe modo di approfondirli mentre era bibliotecario del conte Enrico di Bünau (dal 1748), perfezionandosi poi nel disegno accademico a Dresda. Con l'aiuto del nunzio apostolico in Polonia, monsignor Alberico Archinto, che lo aveva indotto a convertirsi al cattolicesimo, compì il suo primo viaggio a Roma nel 1755. Entrato subito in amicizia con il pittore Raffaello Mengs e con alte personalità della Chiesa e delle scienze, tra cui il cardinale Alessandro Albani (nipote di papa Clemente XI), di cui divenne bibliotecario, poté avere a disposizione le maggiori collezioni artistiche di Roma (la Vaticana, la Capitolina, la collezione privata Albani e altre minori) e dedicarsi allo studio dell'arte classica greca attraverso le copie romane. Viaggiò poi nell'Italia centrale e meridionale, mentre conduceva a termine la sua opera maggiore, Geschichte der Kunst des Altertums (1764), cui fecero seguito i Monumenti antichi inediti di collezioni romane (1767), preceduti da un Trattato preliminare del disegno e delle bellezze (riassunto della parte teorica della Geschichte). Soprintendente alle antichità di Roma, richiestissimo come guida di ricchi viaggiatori stranieri a Roma e in Italia, Winckelmann esercitò un'influenza grandissima sull'arte e sul gusto del tempo. Il senso dell'armonia, del 'composto', della passione dominata, che costituiscono, secondo l'autore, i motivi fondamentali dell'arte greca, si ritrovano, pienamente attuati, nella lirica settecentesca e nell'arte neoclassica.
Il decisivo viaggio in Italia di Johann Wolfgang Goethe
L'Italiänische Reise, rielaborato e sostanzialmente riscritto nel 1815, e pubblicato fra il 1816-17 e il 1829, è un resoconto sistematico dell'itinerario seguito da Goethe in Italia fra il settembre 1786 e il maggio 1788. La sua lettura si arricchisce molto se le si accosta quella delle lettere scritte 'a caldo' a Frau von Stein.
Goethe giunse a Venezia nell'autunno del 1786, e ne diede conto con molta solennità (e un pizzico di pedanteria nella notazione sul 'fuso orario'): "Sul libro del destino era dunque scritto alla mia pagina che il 28 settembre del 1786, alle ore cinque di sera secondo la nostra ora, entrando dal Brenta nella laguna, avrei visto per la prima volta Venezia". Il 5 ottobre annotava, a proposito dello studio dell'arte classica nel quale aveva intenzione di immergersi: "Come un antico spirito l'architettura sorge dalla tomba, mi comanda di studiare le sue dottrine al pari di regole d'una lingua morta, non per applicarne e per goderne come di cosa viva, ma solo per onorare in tacita meditazione l'esistenza veneranda di antiche età tramontate per sempre". Niente di più lontano dalla pur amata estetica winckelmanniana: il passato è alle nostre spalle, non può essere un modello, così come la storia non è maestra di vita: "La conoscenza della storia non mi faceva avanzare d'un passo, le cose distavano appena un palmo da me; ma un muro impenetrabile mi separava da esse. E anche adesso, in realtà non ho affatto l'impressione di vederle per la prima volta, bensì di rivederle". Soltanto l'esperienza diretta gli forniva dell'antico un'idea 'imperfetta', ma tuttavia 'chiarissima e vera'; è questa la via privilegiata per cogliere la realtà: "Lo scopo di questo magnifico viaggio non è d'illudermi, bensì di conoscere me stesso nel rapporto con gli oggetti: e allora devo dire con tutta sincerità che poco m'intendo dell'arte del pittore, del suo mestiere. La mia attenzione, la mia osservazione possono riguardare soltanto l'aspetto pratico, il soggetto e la trattazione del soggetto stesso". Certo, la natura e il paesaggio sono spesso filtrati dalla passione erudita, ma in Goethe, a differenza che in molti altri viaggiatori appassionati di antichità, sono sempre vive un'autentica sensibilità naturalistica e una reale competenza scientifica. Egli, si potrebbe affermare, aspira a 'leggere' l'arte attraverso il metodo delle scienze naturali.
Una parte notevole, nel viaggio italiano di Goethe, ebbe la sua propensione al disegno e alla pittura, che soprattutto il soggiorno romano, occasione d'incontro con la colonia di artisti tedeschi, gli permise di coltivare e di perfezionare. A Roma Goethe arrivò la sera del 29 ottobre 1786, entrando dalla Porta del Popolo: "Mi decisi a intraprendere un così lungo e solitario cammino, alla ricerca di quel punto centrale verso cui mi attirava un'esigenza irresistibile [...]. Tutti i sogni della mia gioventù li vedo ora vivere; le prime incisioni di cui mi ricordo [...] le vedo nella realtà, e tutto ciò che conoscevo già da lungo tempo, ritratto in quadri e disegni, inciso su rame o su legno, riprodotto in gesso o in sughero, tutto è ora davanti a me; ovunque vada, scopro in un mondo nuovo cose che mi son note; tutto è come me l'ero figurato, e al tempo stesso tutto nuovo". Scese alla Locanda dell'Orso, la stessa che aveva ospitato Montaigne; il giorno successivo si trasferì in casa dell'amico Tischbein, che aveva organizzato in segreto il viaggio dello scrittore e ne proteggeva l'anonimato. Anche nell'assidua peregrinazione alla ricerca delle vestigia della città antica, la formazione scientifica e gli interessi naturalistici di Goethe funzionavano da antidoto contro il pericolo degli eccessi di erudizione. Dopo appena una settimana, con notevole spirito pratico annotava: "Ma, confessiamolo, è una dura e contristante fatica quella di scovare pezzetto per pezzetto, nella nuova Roma, l'antica; eppure bisogna farlo, fidando in una soddisfazione finale impareggiabile. Si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l'una e l'altro, la nostra immaginazione. Ciò che hanno rispettato i barbari, l'han devastato i costruttori della nuova Roma".
Per quanto riguarda la Roma rinascimentale, i poli di attrazione sono, per Goethe, San Pietro e Raffaello. Nella Basilica si rese conto che vi sono nell'arte, come nella natura, fenomeni eccezionali, che sfuggono a qualsiasi classificazione e valutazione di gusto; entrando, insieme a Tischbein, in San Pietro, illuminata da una magnifica giornata di sole, scrive: "Ci saziammo dell'umano godimento di quello spettacolo sontuoso e grandioso, senza lasciarci fuorviare, stavolta, da un gusto troppo sofisticato e saccente, e astenendoci da critiche arcigne. Godemmo quello che v'era da godere". È l'ennesima dimostrazione di una notevole autonomia di giudizio, in un'epoca dominata dall'antibarocchismo più deciso. Insieme a San Pietro, alla Cappella Sistina, alle Stanze di Raffaello, il Sublime goethiano comprende come termini essenziali anche il Pantheon e il Colosseo.
Quarant'anni dopo i 14 mesi del soggiorno romano, Goethe, rievocando con Eckermann quei giorni lontani, confesserà di essere riuscito soltanto a Roma a sentire "cos'è realmente un uomo" e di non aver mai più raggiunto "quell'altezza, quella felicità del sentire". Facendo il confronto con il suo stato d'animo a Roma, potrà ben affermare: "in realtà non sono stato felice mai più".