Vicino Oriente antico. Architettura
Architettura
La presenza di habitat diversi, contigui e facilmente accessibili ha messo a disposizione dei gruppi umani nel Vicino Oriente antico un'ampia varietà di materie prime e di spazi per la creazione di ricoveri occasionali e permanenti. Le prime società di villaggio, alle soglie della trasformazione neolitica, tra X e VIII millennio, possiedono, al termine di una lunga fase di sperimentazioni, un articolato bagaglio di conoscenze sulle proprietà dei materiali edilizi primari (argilla, pietra, canne, legno), che maturano gradualmente nell'età neolitica, tra VII e VI millennio. Lo sviluppo di complesse funzioni sociali ed economiche nelle società calcolitiche del chiefdom, (organismi politico-sociali guidati da un capo, con specializzazione del lavoro da parte dei membri della comunità, ma senza una struttura amministrativa permanente) tra V e IV millennio, comporta nuovi modelli abitativi e funzionali, domestici e comunitari, e con essi l'adozione e la codificazione di regole costruttive e dispositivi strutturali. Con le prime società urbane, tra la metà del IV e il III millennio, si elaborano sistemi costruttivi e modelli formali coerenti per funzioni cerimoniali e direzionali, destinati a una grande fortuna nel tempo e a una notevole diffusione nello spazio; di conseguenza, le strutture pubbliche e private nelle città e nei villaggi, tra pianificazioni organizzate e crescita spontanea, si adeguano rapidamente e si dotano di infrastrutture essenziali, vie, canali, scoli, cisterne. La nascita e la moltiplicazione degli Stati delle Età del Bronzo tra III e II millennio porteranno, infine, a definire linguaggi architettonici regionali, ma anche a incrementare, tra i diversi ambienti, la circolazione di materie prime, di stili, di modelli spaziali, di stimoli tecnologici. Il potenziamento degli strumenti di lavorazione con lo sviluppo prima della tecnologia del bronzo, tra III e II millennio, e poi del ferro, nel I millennio, incrementerà l'impiego di materiali architettonici durevoli, dalle elevate qualità statiche e di sostegno, anche per fini decorativi e di protezione esterna. Un'architettura resistente alle sollecitazioni dinamiche e statiche e agli agenti di degrado, prende forma nel tempo attraverso un'attività di ricostruzione e uno sforzo di adeguamento tecnico e funzionale, che spesso tradiscono messaggi di propaganda e valori ideologici.
L'argilla è facilmente accessibile nel Vicino Oriente e se ne sperimentano precocemente la duttilità di manipolazione e le proprietà termiche; impastata con acqua e paglia e seccata a lungo al sole nei mesi più caldi, forniva un materiale plastico, resistente ed economico. In assenza di fine argilla alluvionale, la sola terra, mescolata con sabbie e terre silicee o quarzose, poteva costituire, al caso, un materiale accessibile e idoneo. La paglia, come legante, aumenta la coesione interna e la solidità della massa; si è valutato che 100 mattoni richiedessero 60 kg di paglia. L'argilla è usata prima come rivestimento per foderare le prime capanne di canne e fogliame, in parte interrate, e in seguito come materiale unico per gli alzati in Palestina e in Siria tra età kebariana e natufiana (14.000-10.000). Con il tempo, il materiale è modellato per facilitarne la messa in opera; è steso in corsi orizzontali pressati a mano e lasciati seccare per un giorno (tauf); successivamente, è pressato in casseforme regolari (in francese terre pisé) e, infine, modellato a mano in pani di dimensioni diverse. I primi mattoni, a forma di sigaro (51 cm × 12 cm × 6 cm), sono introdotti in Mesopotamia nel Neolitico Preceramico A a Nemrik e Qermez Dere (10.000-9500) e si diffondono presto in tutta l'area, consentendo di velocizzare i tempi e di standardizzare i metodi di costruzione. Nella seconda metà del VI millennio, i mattoni compaiono a Choga Mami, Eridu, Tell es-Sawwan, in Mesopotamia. La creazione di moduli dimensionali fissi sarà un successivo passo conseguente alla formalizzazione di modelli strutturali comuni. Nei diversi periodi i mattoni, realizzati in stampi lignei standardizzati, forniscono il materiale edilizio primario degli alzati: sono lunghi mattoni di 75-90 cm × 35-16 cm nel Neolitico anatolico, piccoli mattoni di 21 cm × 16 cm nell'età di Obeid (5000-4000), piccoli parallelepipedi a sezione quadrata (in ted. Riemchen) di 16 cm × 6 cm × 60 cm, grandi mattoni rettangolari (in ted. Patzen) di 80 cm × 40 cm × 14-16 cm nell'età di Uruk (3700-3000); sono mattoni pianoconvessi nel protodinastico di Mesopotamia (2900-2500), dalla caratteristica messa in opera a spina di pesce, riempita di malta, che consentiva una forte elasticità agli alzati; in età protodinastica finale tornano ad essere mattoni parallelepipedi, di 33 cm × 24 cm × 6 cm.
L'impiego di composti, o di materiali, diversi per fabbricare mattoni è invece sporadico. Un impasto di gesso è documentato dalla fase di Halaf, ma solamente nell'architettura monumentale di Uruk è sperimentato in forma di mattoni nel muro mediano dello Steingebäude (edificio di pietra), ai piedi della terrazza, e di grandi blocchi nello Steinstifttempel (tempio a mosaico di coni di pietra), nel quartiere sacro Eanna. Al mattone crudo, seccato al sole, si affianca, inoltre, il mattone cotto in fornace, che conosce un uso limitato; raramente è adottato come rivestimento esterno in strutture di prestigio, come nella terrazza dell'Eanna, livello III (3000 ca.), o come materiale strutturale nelle tombe ipogeiche più ricche di Ur, mentre un impiego più diffuso si ha nelle pavimentazioni di corti cerimoniali o come fodera nelle infrastrutture idriche. Fornaci per mattoni erano forse occasionali e ne è stato identificato soltanto un gruppo sotto il tempio dei mosaici di Uruk.
Il mattone invetriato, dalla funzione decorativa di rivestimento, è impiegato in età medio- e neoassira, a partire dal tempio di Ishtar a Nuzi, e in età neobabilonese e achemenide, come nella celebre porta di Ishtar di Babilonia. Una volta cotto, l'impasto di fritta era steso all'interno di un contorno disegnato o, come a Susa e Persepoli, in spazi delimitati da sottili fili di rame; era poi contrassegnato con numeri e punti d'invetriatura nerastra per essere messo in opera correttamente. Nell'architettura neoassira grandi pannelli di mattoni smaltati e anche modanati creavano decorazioni geometriche e floreali ma anche scene cultuali e narrative. L'uso di tessere di faïence come decorazioni mosaicali in un pavimento di una casa a Nippur, di fase accadica, e nel vano 49 del palazzo di Mari, è un'eccezione. Coni di argilla a estremità dipinta o incavata, o cilindri cavi di ceramica erano inseriti nelle pareti di edifici cerimoniali in Mesopotamia, nella fase di Uruk, sia per rivestimento sia per decorazione con motivi a stuoia. In età medioassira e medioelamita si usa apporre nelle pareti, all'interno di una placca, chiodi di terracotta, anche invetriata, talvolta con estremità antropomorfa, teriomorfa o con una rosacea (sikkatu) o, dall'età neoassira, a forma di pugno.
L'intonacatura di fango, ossia terra mescolata con acqua e paglia, od ottenuta da un misto di calce e gesso, costituisce un primo elementare metodo per proteggere le pareti di mattoni crudi dagli agenti atmosferici e dall'uso; essa era rinnovata prima della stagione delle piogge. Una malta, prevalentemente senza paglia, era invece usata per legare i corsi di mattoni e, occasionalmente, per regolarizzarne la stesura nella messa in opera. Talvolta, come nelle facciate della ziqqurat cassita di Aqar Quf, si usava un impasto di mattoni frammentati e malta, steso su due strati. Il solo gesso (solfato di calce) cotto a bassa temperatura (100-130 °C) e misto ad acqua offriva un materiale resistente per l'intonacatura e poteva essere steso su un'incannucciata a traliccio. L'intonaco di calce era più complesso per tempi, tecnologia e materiali impiegati, specie di combustibile; si otteneva cuocendo ad alte temperature (800-900 °C) per tre-quattro giorni il calcare, fino a decomporlo in carbonato di calcio e ossido di calcio, passando lentamente da calce viva a calce spenta. Tale composto, levigato fino a divenire brillante e occasionalmente dipinto, fu impiegato nelle pavimentazioni e nei rivestimenti di arredi nel Neolitico in Anatolia (8700-8200), a Cafer Höyük, Çayonu, Nevali Çori. Le intonacature di gesso potevano essere incatramate oppure dipinte in bianco o nero. Occasionalmente i testi citano l'aggiunta all'impasto di mattoni o di intonaco di varie sostanze, come olio, vino, miele, birra, resine, grasso animale, che probabilmente simboleggiavano la ricchezza o alludevano a rituali di purificazione.
La pietra era impiegata con funzioni diverse, in rapporto alla reperibilità del materiale. La pietra più comune e accessibile è il calcare; nelle aree vulcaniche del Levante e in Anatolia abbonda il basalto; non mancano, inoltre, la diorite, la dolerite, le trachiti, l'arenaria. Nel Levante meridionale sono presenti granito e arenaria, e in Arabia lo scisto. In Mesopotamia il gesso era diffuso anche in un tipo non cristallino noto come 'marmo (o alabastro) di Mossul'; la diorite si otteneva dalle aree del Golfo Persico. Le lastre tabulari, un materiale di facile impiego destinato a una certa continuità anche in fasi storiche e medioevali, sono diffuse limitatamente alle aree di approvvigionamento. Materiali di risulta dai letti dei fiumi erano utilizzati come materiale da costruzione; grandi ciottoli, provvisti di scanalature per i cappi, erano utilizzati come strumenti da percussione e per l'estrazione delle pietre, che erano poi rifinite, al caso, con strumenti di metallo. I ciottoli di fiume erano inoltre impiegati come materiale di riempimento nelle intercapedini dei muri e dei solai, e nella preparazione dei piani pavimentali, ma spesso erano anche lasciati a vista nelle pavimentazioni degli esterni. Nel I millennio, è documentata, infine, per i pavimenti, una decorazione mosaicale con ciottoli dipinti.
In Mesopotamia, nella città di Uruk, nei livelli VI-V, pietre e lastre di calcare sono impiegate estensivamente nelle fondazioni e nelle piattaforme dei templi, come riempimento nel vano centrale dello Steingebäude e nelle canalizzazioni. Tale uso sopravvive nell''edificio inferiore', forse basamento di un tempio di Tello (antica Girsu), di età protodinastica, nella metà del III millennio. In questo periodo, grazie all'introduzione e al miglioramento di strumenti di rifinitura e di scalpelli di bronzo, il calcare comincia a essere tagliato e squadrato regolarmente in lastre per soglie, cardini e stipiti.
Pietrame di varia natura e origine è presto impiegato nelle prime strutture abitative di età Natufiana e Sultaniana, nel Neolitico Preceramico A, a Einan e Nahal Oren, per rinforzare la base delle capanne. Il suo uso diviene comune nel Neolitico Preceramico B tra Levante e Anatolia, sia nelle fondazioni sia nei basamenti. Il caso di utilizzazione di grandi lastre sbozzate, come a Çayonu, per marcare aree cultuali o di esclusivo uso di pietre per grandi opere comunitarie, come nella torre e nelle mura di Gerico, è eccezionale.
Siria e Levante conoscono un impiego diffuso della pietra nei basamenti e nelle fondazioni; con il III millennio il perfezionamento degli strumenti di lavorazione permette di creare lastre di paramento in tombe a camera di un certo prestigio. Calcare e basalto, tra II e I millennio, nel Levante e in Anatolia, sono tagliati in blocchi poligonali o, più comunemente, in conci e in lastre squadrate, anche di grandi dimensioni, che possono essere connesse tra loro per il tramite di incastri interni a coda di rondine. Le porte urbiche delle città siropalestinesi del Bronzo Medio (1900-1600) e Tardo (1600-1200) sono rivestite all'interno da grandi lastre di pietra (ortostati) o costruite con grandi blocchi. Stipiti e soglie sono spesso realizzati con grandi lastre levigate. Nell'architettura hittita (1600-1200) la lavorazione della pietra trova un impiego sofisticato e decorativo con l'aggiunta di rilievi negli stipiti e nelle facciate delle porte urbiche ogivali a Boğazköy e Alaca Höyük, ma anche nei massicci e spesso monumentali blocchi che formano basamenti, soglie e stipiti dei templi e perfino in grandi viadotti. La presenza di fori regolari, realizzati con il trapano sul piano di posa superiore, indica l'uso di intelaiature di legno a costituire un cassone di sostegno della muratura in crudo degli alzati. La maestria nel lavorare la pietra rimarrà caratteristica dell'ambiente anatolico, da cui ancora in fase achemenide s'importeranno le maestranze nella fabbrica di Persepoli. L'uso decorativo e strutturale delle lastre ortostatiche si mantiene in Siria nel I millennio e si affermerà poi in Assiria come elemento parietale decorativo nei palazzi assiri, dove è impiegato il fine alabastro di Mossul. Il basalto e il calcare prevalgono per le infrastrutture, specie nel palazzo di Sargon a Dur-Sharrukin, mentre la breccia rossa, importata dall'alto Eufrate, è usata insieme al calcare per pavimentare a Babilonia la via processionale. Ancora a partire dal Bronzo Tardo, si afferma nel Levante, a Ugarit, e in Anatolia, a Eflatun Pinar, la lavorazione a bugnato. Nel I millennio muri in bugnato sono documentati nella bamah di Tell Dan, a Samaria, sulla collina di Ophel a Gerusalemme, a Hazor, a Megiddo, a Ramat Rahel, a Biblo e a Sidone. In Assiria l'acquedotto di Jerwan, fatto costruire dal sovrano Sennacherib, è decorato a bugnato; da questo uso dipendono alcune strutture a bugnato di Toprakkale in ambiente urarteo e altre in ambiente sudarabico. Con il I millennio, specie nel Levante, l'uso della pietra prevale nella decorazione architettonica, nelle basi di colonne rette da sfingi e leoni, nei fusti di colonne antropomorfi, nei pilastri e nei capitelli a volute e palmette, diffondendosi in ambiente urarteo e sudarabico.
In Anatolia e nel Levante un importante materiale edilizio impiegato fin dalle fasi preistoriche è il legname, ricavato da alberi d'alto fusto, come il pino, il cipresso, il pioppo, il salice, la quercia e l'alto cedro, e da arbusti, come il ginepro e il terebinto. Fin dal III millennio i sovrani mesopotamici compirono spedizioni nel Levante per approvvigionarsi del prezioso materiale, non diversamente dai faraoni sulla costa fenicia e a Biblo. Più incerta è l'identificazione di legni pregiati, come il tek e la mangrovia, importati, secondo i testi, dalla lontana Melukha (India).
I tronchi erano utilizzati per rinforzare gli alzati in crudo con telai di sostegno, per sorreggere i solai e nelle soffittature. Nel primo caso, documentato nel Levante e in Anatolia fin dalle fasi preistoriche, si costruiva, tramite travi alternate orizzontali e verticali, un'armatura lignea che era riempita con terra o con mattoni. Nel secondo caso, travi di varia lunghezza erano impiegate per sorreggere i solai; gli alti cedri si adattavano per coprire anche sei metri di luce. Fusti lignei predisposti servivano anche come colonne di sostegno della soffittatura e potevano poggiare su basi di pietra. Soglie e stipiti non raramente erano di legno, mentre di regola lo erano gli architravi. Legni di bosso, di cedro e di cipresso, di acero, gelso, tiglio e pistacchio, di tamarisco e terebinto sono celebrati nelle costruzioni dei palazzi da Assurnasirpal II, Sargon II e Sennacherib. Fusti di palme erano usati come elementi non soltanto funzionali, come nel portico del tempio di Obeid, di età protodinastica, ma anche decorativi, fino a essere singolarmente imitati con una sofisticata tecnica (fusti di argilla ruotati, mattoni modanati o scolpiti) nelle semicolonne addossate nelle facciate dei templi di Tell Leilan, Terqa, Tell Brak, Larsa, e nel 'tesoro di Sin-iddinam' di Ur nel II millennio.
Nelle aree alluvionali le canne costituiscono il secondo materiale primario e sono a lungo utilizzate per costruire non soltanto capanni e ricoveri stagionali ma, rivestite di malta di fango e argilla, anche strutture permanenti. All'origine se ne sfruttano l'elasticità e la duttilità, per dare forma ad alte strutture a volta ogivale, che costituiscono probabilmente i primi modelli per un'architettura comunitaria espressa in elevato. Ancora a lungo telai di canne, intercapedini di canne intrecciate e stuoie sono usati nelle terrazze cultuali per aumentare l'elasticità e favorire la traspirazione della massa dei mattoni.
Il bitume, presente in depositi superficiali in Mesopotamia (Kirkuk), Iran (Khuzistan), nel Levante (Mar Morto) e nel Golfo (Dilmun), è utilizzato come isolante nei basamenti e nei battiscopa dei muri, come adesivo, per l'asfaltatura e la preparazione pavimentale di piani di cotto e come intercapedine, alternato a mattoni e a stuoie, all'interno di strutture poderose, quali le terrazze cultuali (ziqqurat) o le tombe a volta. Usualmente esso era impastato con altri materiali, argilla o polveri di calcare e gesso. Materiale impermeabilizzante per eccellenza, il bitume trova applicazione nelle infrastrutture idriche, come nei moli e nelle banchine fluviali. Nei testi si differenzia un bitume naturale (ittû) e un bitume lavorato con sabbie, paglia e argilla per ottenere probabilmente un mastice (kupru), che era preparato in loco, come mostra, nel tempio N di Nippur, una fornace di mattoni cotti. Il bitume era conservato in pani e in canestri, dei quali i residui mantengono spesso la forma.
La nozione di un'architettura provvista di uno specifico bagaglio di tecniche edilizie si ascrive in genere alla prima cultura urbana di Uruk, nella Mesopotamia meridionale della fine del IV millennio, che conosce la specializzazione del lavoro e registra, nella lingua sumerica, i procedimenti del costruire. In testi tardi il dio Ea crea gli dèi costruttori, Kulla, dio del mattone, Ninildu, dio carpentiere, Ninsimug, dio metallurgo, Ninzadim, dio scultore, Ninkurru, dea lapicida. Tutte queste specialità sono riconosciute come parte di un bagaglio originario: sono i me che la dea Inanna riesce a sottrarre al dio Enki nella città di Eridu e a portare a Uruk per diffonderli tra gli uomini. Il dio Kulla presiedeva alla fabbricazione dei mattoni in stampi, il dio Mushdamma allo sviluppo delle fondazioni, alla costruzione di case e agli atti rituali di purificazione. Anche Nusku, dio del fuoco, è considerato un dio costruttore e restauratore. Gli dèi nei miti sono costruttori in prima persona; così Marduk fa costruire i templi di Babilonia agli dèi Anunnaki, ed Enki costruisce il suo tempio, Engurra, le cui fondamenta sono poste nell'Apsû, nell'abisso. Tempi e modi del costruire sono regolati dagli dèi, e seguono poi il ritmo delle stagioni; i mattoni sono impastati con le paglie dopo la mietitura, si seccano al sole nei mesi caldi e sono posti in opera e intonacati prima delle piogge.
L'importanza dell'atto edificatorio è documentata dalla presenza di rituali che ne regolano le procedure e di testi di fondazione che declamano scopi e particolari del lavoro. L'esercizio dell'edificare appartiene alle prerogative della regalità ed è spesso ordinato in sogno dagli dèi; i testi di costruzione costituiscono così un genere della propaganda regale, che culmina in età neoassira in resoconti particolareggiati. Riti speciali assicuravano la buona riuscita del lavoro attraverso il seppellimento di cassette di fondazione e la posa di primi mattoni, al caso recanti scritte con il nome del re costruttore, come i mattoni del palazzo di Naram-Sin a Tell Brak o di Yakhdun-Lim nel tempio di Shamash a Mari. Strumenti vari compaiono nei rituali di fondazione, come pioli e chiodi in un rituale di Boğazköy per la costruzione di templi. Nelle fondazioni sono seppelliti cilindri, prismi, coni e tavolette in pietra e in argilla, che ricordano gli edifici costruiti, come il gruppo di cinque tavolette di pietra di Adad-nirari I, trovate nel tempio di Ashuritu, o quelle di argilla dello stesso sovrano depositate in speciali recessi nel muro del molo di Assur, o quelle d'oro e d'argento di Tukulti-Ninurta I nel deposito di fondazione dei sacelli di Ishtar, Ashuritu e Dinitu. In età neoassira si usavano scatole di fondazione iscritte, che contenevano tavolette e altri oggetti di fondazione realizzati con materiali spesso preziosi. Riti erano rivolti anche alla costruzione delle fondazioni, alla messa in posa di soglie e cardini, alla ricerca di travi lignee per la soffittatura.
In genere si celebra la nuova costruzione su suolo vergine o edifici preesistenti, ma si celebra anche la ricostruzione, di cui si decantano le migliorie tecniche e funzionali, o il restauro, spesso a fine devozionale. Nell'impresa il sovrano afferma d'intervenire in prima persona portando la malta e fabbricando i primi mattoni durante i rituali di fondazione: Ur-Nanshe di Lagash è raffigurato nell'atto di portare il cesto della malta ed è celebrato nell'iscrizione come fondatore. Per le sue fabbriche sacre, Gudea, sovrano di Lagash, cerca l'argilla in un luogo puro, la impasta e ne fabbrica i mattoni in stampi. Nelle cassette rituali di fondazione poste agli angoli degli edifici cerimoniali, il piolo che assicura il cardine fondatorio assume l'immagine del dio e del sovrano come operaio caneforo, che sostiene, sulla testa, il cesto con l'argilla dei mattoni. Il re Ur-Nammu appare in questa veste nella stele di Ur, che celebra la costruzione di canalizzazioni a Eridu, dove egli figura con gli strumenti da costruzione in spalla, mentre gli operai portano le ceste con l'argilla. Così ancora si faranno raffigurare, sulle loro stele, Assurbanipal e Shamash-shum-ukin. Perfino nelle scene miniaturistiche dei sigilli cilindrici non mancano rappresentazioni di costruzione di podi e di torri templari.
Anche l'opera di ricostruzione è motivo di vanto per i sovrani. Shamshi-Adad I fa ricostruire l'Emashmash di Ishtar a Ninive, andato in rovina, dando così inizio a un'attività di pia salvaguardia e di restauro dei templi antichi. Salmanasar I ricostruirà ad Assur il tempio distrutto da un incendio e Tiglat-pileser I si vanterà di aver ricostruito nella stessa capitale il tempio di Anu e Adad, che Ashur-dan non era riuscito a rifare. D'altronde, in un'architettura prevalentemente in crudo, non solamente le migliorie ma i restauri e le intonacature dovevano essere ripetute di frequente; dopo stagioni particolarmente piovose, una nuova intonacatura esterna poteva essere indispensabile. Il basso costo del materiale permetteva un'attività non soltanto di rinnovo costante ma anche, al caso, di facile demolizione, e di seguente ricostruzione sopra le macerie livellate, che potevano costituire una sottofondazione adeguata.
Per la progettazione si eseguivano disegni preparatori, che riportavano i principali dati dimensionali, come ricostruiamo da alcuni schizzi di edifici domestici e cerimoniali presenti su tavolette in argilla; essi riportavano in genere le misure dei muri. Talvolta disegni e misure si ripetono sui due lati della tavoletta e sono forse relativi a due piani dello stesso edificio. La tavoletta che Gudea tiene, nella sua statua, riporta la pianta di un tempio. I testi matematici paleobabilonesi registrano talvolta problemi di edilizia legati alla costruzione di muri, allo scavo di canali e al conteggio dei mattoni, moltiplicati in unità prefissate per le dimensioni dei muri (Tav. II).
Per la costruzione di templi e palazzi il terreno poteva essere preparato e isolato con procedimenti diversi, con gettate di sabbia (tempio ovale a Khafagia, del periodo Protodinastico II; tempio di Ishtar a Ur), con ghiaia sabbiosa (Susa, palazzo achemenide) o con sottostrutture di varia natura (Babilonia, palazzo S, periodo neobabilonese; tempio del Porto di Ur, di Nabonedo) destinate anche a funzioni secondarie. In genere, i materiali derivanti dalla distruzione degli edifici antichi costituivano sottostrutture adeguate, che potevano essere livellate e riempite facilmente, essendo in gran parte in crudo, e non di rado fornivano parte dei materiali edilizi, come tronchi di legno o lastre di pietra. Per un fine di legittimazione, le antiche fondazioni di templi potevano essere scavate per servire di base a nuovi templi. È il caso del tempio di Shamash (chiamato Ebabbar) a Sippar, che Nabonedo vanta di aver ricostruito sulle fondazioni di quello di Naram-Sin, o dell'Ebabbar di Shamash a Larsa o dell'Eanna di Ishtar a Uruk di Nabucodonosor o ancora dell'Eulmash di Ishtar a Akkad fatto erigere da Nabonedo. In epoca neobabilonese le fondazioni divengono grandi sottostrutture, finalizzate anche all'isolamento delle fabbriche dall'umidità, come a Babilonia, dove raggiungono 10 metri di profondità nella porta di Ishtar; così a Uruk, dove la facciata della ziqqurat ha una profonda fossa di fondazione coperta di argilla pressata e mezzi tronchi di palma; così a Ur, dove il Gigparku ha fondazioni di oltre 3 metri. La preoccupazione della stabilità delle strutture porta a elaborare artifici diversi di sostegno, come nella porta di Ishtar, dove le ali laterali di collegamento alle cinte murarie erano assicurate al corpo dell'edificio da giunti scanalati.
Nell'architettura civile le fondazioni potevano essere realizzate in trincee predisposte, e le dimensioni e lo spessore dipendevano dal numero dei piani realizzati; in genere pochi corsi di pietra, ma anche di mattoni, bastavano per sostenere anche due piani in alzato in crudo. In fase neolitica, in Anatolia, si sviluppa un sistema di sottostruttura elevata, sia come zoccolo di pietre sia con muri allineati a griglia o a celle, che potevano anche fungere da magazzini. Questa tecnica ricorre ancora in ambiente anatolico nel II millennio, in particolare nella cittadella della capitale hittita di Khattusha.
In rapporto alla dimensione degli edifici, contrafforti esterni o interni potevano rinforzare le strutture; il loro uso è documentato in modo irregolare fin dalla preistoria. Allo stesso modo, colonne e pilastri interni servivano a sostenere i solai superiori e le soffittature e trovavano un ampio impiego, ovviamente, là dove il legname era abbondante, come nel Levante e in Anatolia. Fondazione e basamento spesso costituivano un corpo unitario, indifferenziato, nella tecnica costruttiva e nel materiale; soltanto in un'architettura monumentale o di prestigio i basamenti erano, infatti, realizzati con blocchi lavorati posti a secco, dai giunti anche regolari e perfino foderati da lastre ortostatiche di paramento. In Palestina, all'uso del paramento ortostatico o del basamento a lastre o a conci ben tagliati s'accompagnava la tecnica del rivestimento a cassone, con riempimento di pietrame e alzato in crudo. Dalla fine del II millennio conci ben tagliati sono messi in opera a corsi regolari di testa e di taglio, raramente con bugnato grezzo esterno. Con il I millennio la tecnica a telaio prevede l'alternanza di pilastri, realizzati da conci a giunti regolari, a un'intercapedine di pietrame.
Mentre le prime abitazioni a Ein Gev I, in Palestina, di fase kebariana, presentavano un rivestimento basso di pietre, dalla fase neolitica la muratura appare realizzata sempre con materiale crudo, in pisé prima, in tauf poi e con mattoni modulari a partire dalla fase neolitica tarda. Una grande importanza culturale assume allora la creazione dello stampo da mattone, attribuita nella mitologia alle stesse divinità come, a Lagash, alla dea Gatumdug, o alla dea Nanshe. Dai testi siamo in grado di ricostruire stampi per mattoni semplici, composti e doppi. I mattoni erano impilati, contati e spesso trasportati su carri e su barche fino al luogo della costruzione. Il terzo mese dell'anno, Simānu, (maggio-giugno) era destinato alla fabbricazione dei mattoni, per la presenza di scorte di acqua e di paglia residua della raccolta; esso era abbreviato nella formula iti-sig4 "mese mattone" e chiamato il mese di Kulla, il dio che presiedeva alla fabbricazione dei mattoni. I mattoni erano seccati nei mesi più caldi, luglio e agosto, e poi posti in opera, non a caso, sotto la protezione del dio del fuoco. Alcune tavolette cuneiformi di età neosumerica enumerano i mattoni di due diversi tipi, forse crudi e cotti, in quantitativi fissi in rapporto alle dimensioni dei muri. I testi matematici paleobabilonesi elencano almeno una dozzina di tipi diversi di mattoni, che erano raggruppati in unità di 720; in genere i mattoni costituivano almeno i 5/6 di un muro. La messa in opera degli alzati prevedeva spesso una sofisticata apparecchiatura dei mattoni, che erano alternati in corsi disposti a testa o a faccia, sia di piatto sia di taglio, in modo da costituire una massa densamente legata all'interno. A Ur, nel 1400, pareti di mattoni cotti stesi con malta e bitume chiudevano all'interno nuclei di macerie o di materiale grezzo.
Materiali da costruzione più pregiati erano trasportati anche da lontano. Le pietre potevano essere sbozzate sul posto di estrazione e rifinite poi a destinazione, come documentano i molti blocchi scolpiti di alcune cave di basalto del Tauro, le lettere di Khorsabad sul trasporto delle grandi statue di tori per le porte (lamassu), raffigurato anche nei rilievi di Sennacherib a Ninive. I casi di muri realizzati interamente con pietre erano rari, come in alcuni edifici anatolici di età neolitica o in edifici-dolmen di siti stagionali della Palestina meridionale.
Le coperture degli ambienti prevedevano una tecnica elementare di solai piani; questi consistevano in uno strato di canne e d'argilla, al caso con materiale interno residuo e leggero, come ceramica o ciottoli, retto da travature trasversali, raramente incatramato e poi intonacato. Fin dalla fase di Halaf si usava una cupola a falsa volta di mattoni in edifici a pianta circolare (tholos), mentre una copertura ad arco era realizzata nei passaggi a Eridu. Cupole a falsa volta, nella tecnica a conci sovrapposti in aggetto progressivo fino alla sommità chiusa da una lastra, con porte ad arco o a volta ad assise radianti, sono documentate nel cimitero di Khafagia e nelle tombe della I dinastia a Ur. Le case private di Tell Asmar hanno porte ad arco di mattoni pianoconvessi; gli archi, giustapposti a cinque, formano volte a botte, coperte da mattoni di piatto. Nell'edificio di Tello detto 'la porta del diavolo', probabilmente una cisterna, le volte a botte sono realizzate con mattoni cotti. False volte sono anche adottate nei canali di svuotamento delle acque, costruiti con mattoni cotti e bitume, come nel tempio ovale di Khafagia e nel palazzo Nord di Tell Asmar. In età accadica la porta della cittadella di Tell Taya era coperta da una volta a botte. Nel Gigparku di Ur, in fase neosumerica, le tombe a falsa volta costruite sotto un'ala dell'edificio, appartenenti alle sacerdotesse, e le tombe reali documentano un accresciuto perfezionamento tecnologico delle coperture, con false volte ogivali slanciate, il cui equilibrio era assicurato dall'ampia massa della muratura. Le tombe a falsa volta di Ur della fase di Isin e Larsa sono numerose; una volta a botte nel palazzo di Sin-iddinam copre la grande sala a pilastri centrale. Nel tempio di Karana (Tell Rimah) in almeno dieci ambienti sono impiegati archi a pseudovolta con mattoni ad aggetto crescente.
Se la postierla a volta ogivale delle mura di Ugarit è di tecnica anatolica, la porta nordorientale di Tell Mumbaqat con copertura a botte ad assise radianti palesa i contatti con gli ambienti orientali; l'uso delle volte ogivali nella sofisticata architettura funeraria di Ugarit s'inscrive, comunque, nello sviluppo di tendenze locali di un'architettura di pietra di tecnica avanzata. In Anatolia, come nel Levante, l'architettura di pietra e legno contribuisce a sviluppi originali; la falsa volta vi è documentata con l'uso di pietre da taglio nelle prime postierle, come ad Alishar, e poi nelle postierle della capitale Khattusha e di Malatya.
Coperture a volta sono note nelle tombe regali di Assur dei sovrani Shamshi-Adad V, Ashur-bel-kala e Assurnasirpal II; volte a botte sono documentate nel palazzo di Nuzi, nella ziqqurat di Choga Zanbil e a Ur, nel tempio di Ningal e nell'E-Dub-Lal-Makh. Nel palazzo di Dur-Kurigalzu tre gruppi a corridoio tra due file di ambienti con volte a botte ribassata erano forse magazzini. A Khorsabad e a Nimrud volte a botte coprivano sia le porte urbiche e delle cittadelle, sia i passaggi interni dei grandi palazzi, come a Forte Salmanassar. L'uso della volta è documentato a Babilonia sia nei passaggi e nelle porte sia nelle tombe e nelle condotte idriche. Nel palazzo S, un quartiere unitario nell'angolo nord-orientale era costituito da camere con volte a botte; considerate già la sottostruttura dei giardini pensili, sono oggi identificate in magazzini. La porta di Ishtar, per analogia, è stata ricostruita con una serie di passaggi con volte a botte; allo stesso modo, e a confronto con l'acquedotto di Jerwan, il ponte sull'Eufrate di Babilonia si potrà allora ricostruire con una serie di archi ogivali, di cui restano alcuni piloni. Il tetto a doppio spiovente è diffuso limitatamente all'ambiente anatolico, forse in età tarda, come documentano sia la rappresentazione del tempio urarteo di Ardini-Musasir in un rilievo di Dur-Sharrukin/Khorsabad sia le facciate delle tombe rupestri frigie.
I primi villaggi sono dotati di sistemi elementari di canali di scolo scavati nel terreno. In fase protourbana, a Tepe Gawra, a Biblo, a Habuba Kebira, i canali sono foderati e coperti da pietre. Canali di drenaggio e canali di scolo delle terrazze sacre, a Eridu, sono realizzati con tubature di terracotta con il tramite di cilindri a incastro a forma di tromba. Fosse di scarico verticali si realizzano a Fara, nella fase Jemdet Nasr, con tubi di terracotta sovrapposti.
Il perfezionamento della meccanica idraulica determina l'adozione di complesse infrastrutture idriche; condotti a segmenti tubolari o a campana di ceramica, a sviluppo verticale e orizzontale, per lo scolo delle acque sostituiscono le semplici fosse non rivestite sia nei palazzi, come a Eridu, sia nei quartieri di abitazione, come a Khafagia, Nippur, Abu Salabikh. Nel palazzo di Tello è documentato un sofisticato sistema di svuotamento delle acque attraverso campane, cilindri di terracotta e camere di caduta rivestite di mattoni cotti. Notevoli sono gli impianti idrici di Nippur e Tell Asmar. Nel palazzo di Mari, tra le diverse infrastrutture funzionali vi sono canalizzazioni sotterranee con tubi di terracotta e prese d'aria lungo i muri. I sistemi di fognature a ricaduta, costruiti da segmenti di cotto verticali a incastro e fori di aerazione, diverranno con il tempo un'infrastruttura stabile dell'architettura civile urbana nei centri maggiori, rimanendo in auge fino all'età neobabilonese. Tradizionale è anche l'adozione della volta nelle infrastrutture idriche, che conosce uno sviluppo monumentale in età neoassira nell'acquedotto di Jerwan voluto da Sennacherib; esso era in parte scavato nella roccia e in parte aereo, passando su un ponte a cinque archi ogivali che attraversava il fiume Khosr.
Nel palazzo di Ebla del III millennio l'acqua, probabilmente raccolta nella città alta, defluiva in canalette realizzate sotto le lastre della scala monumentale; correva poi in canalette sotto i piani pavimentali ed era convogliata, attraverso pozzetti di smistamento, in cisterne naturali sotterranee.
Nella Palestina, alcuni centri israelitici si dotano di opere per la raccolta di acque sorgive. A Megiddo, Hazor, Gezer, Gibeon, Arad, Tell es-Saidiyeh si scavano all'interno dei depositi antichi o della roccia viva, vicino alle mura, pozzi di accesso gradinati e tunnel profondi; questi consentivano di accedere, solitamente dall'interno della città, a una sorgente profonda, o alla falda superficiale affiorante alla base del sito. È una tecnica praticata fin dal III millennio, almeno a Gerusalemme, il cui articolato apparato idrico consisteva, in fase tarda, in una serie di tunnel e di pozzi: il pozzo Warren, il canale di Siloam, che portava l'acqua della sorgente di Gihon lungo la valle di Kedron verso il limite sudoccidentale della città davidica, il canale di Ezechia, che lo sostituirà portando l'acqua dalla sorgente alla cisterna di Siloam.
La ricostruzione dei sistemi di aerazione e d'illuminazione, che la limitata conservazione degli alzati delle strutture in crudo non documenta sufficientemente, è problematica. È possibile che, non diversamente da oggi, per proteggersi dall'intensa luce estiva e dal calore le strutture domestiche comuni non fossero fornite di finestre. Luce e aerazione erano sufficientemente assicurate dalle porte; la diffusione del modulo a corte centrale garantiva la presa d'aria e di luce a tutti gli ambienti che vi si affacciavano, come si vede anche in un modello in miniatura di casa a pianta circolare da Mari. Altri modelli in miniatura di case, tuttavia, presentano o lunghe e strette feritoie (Louvre) o finestre a coppia o bifore, probabilmente con balaustrine (Emar), o feritoie triangolari (Emar, Assur). Nei testi di Ugarit, il dio Baal ordina di costruire finestre nella sua casa. Finestre, forse con un sistema di chiusura, sono ugualmente rappresentate nelle facciate di edifici raffigurati su alcuni vasi a rilievo policromi e incensieri a torre hittiti; alcuni mostrano all'interno una decorazione a griglia. Questa decorazione si ripete nello zoccolo monumentale del tempio di Ain Dara, in alcune lastre probabilmente provenienti dal tempio della Tempesta di Aleppo e in altre di basalto da Hama, forse raffiguranti balaustre. Strette finestre sono presenti su edifici a diversi piani, torri e fortificazioni, raffigurati nei rilievi neoassiri che mostrano paesi conquistati; allo stesso modo, compaiono in raffigurazioni di torri su rilievi e bronzi urartei (Adilcevaz, Kef-Kalesi). In un modellino di casa di Tell Halaf troviamo ancora bifore separate da colonnette con capitelli su alti davanzali; esse sono paragonabili alle finestre doppie che compaiono ai piani alti di edifici raffigurati nei rilievi di Sennacherib a Ninive relativi alla campagna in Fenicia. Nello stesso contesto appaiono inoltre semplici finestre incorniciate.
La crescita spontanea agglutinante regola lo sviluppo dell'agglomerato di villaggio nelle fasi neolitica e calcolitica antica. Con le culture calcolitiche del chiefdom si affermano una limitata specializzazione degli spazi e, di conseguenza, una gerarchia delle strutture dell'abitato, che riflettono funzioni economiche e sociali differenziate. Fin dalla fase neolitica (Neolitico Preceramico A) a Gerico e dal Neolitico tardo ovunque, lo spazio abitato si racchiude in cinte murarie e si dota di strutture megalitiche di sostegno o di terrazzamenti, come a Halula e ad Hacilar IIA-B. La pianta di Tell es-Sawwan III A è organica, cinta da un fossato esterno, mentre le mura con case addossate formano un impianto anulare a Hacilar IA-B e Mersin XVI. Alla fine del Calcolitico, alla metà del IV millennio, mura anulari circondano molti centri del Levante, come Jawa, Biblo, Afis, Sidone-Dakerman.
In fase protourbana, gli spazi interni sono gradualmente articolati in unità destinate alle esigenze cerimoniali della collettività, alle funzioni alimentari comuni, all'immagazzinamento e alle attività domestiche quotidiane. In genere, le prime tendono a concentrarsi al centro dell'abitato e gli impianti sono progressivamente regolarizzati tramite una pianificazione degli spazi aperti e chiusi, come nel complesso di Gawra XIII. Una concezione urbanistica espressa in realizzazioni coerenti e pianificate non si sviluppa, apparentemente, che con il processo della prima urbanizzazione della Mesopotamia e le sue diverse affermazioni monumentali a usi cerimoniali o civili; esse trovano forma non soltanto nell'impianto dell'Eanna VI-V e IVb-a di Uruk, ma anche a Malatya VIA (Anatolia), a Godin Tepe C (Iran), a Tepe Gawra IX (alta Mesopotamia), a Habuba Kebira (Siria), uno dei pochi casi urbanistici scavati estensivamente con dense isole di case accorpate, divise da vie ortogonali, a En Gedi (Palestina), a Biblo (Libano). È evidente che nelle diverse aree si sviluppano tradizioni urbanistiche regionali, le quali conformano spazi e funzioni alle diverse varianti ambientali e sociali.
Nella tradizione letteraria, la città e la sua costruzione s'identificano con i templi e gli dèi patroni. Marduk fa erigere la sua città, Babilonia, centro del mondo e sede del tempio degli abissi, Apsû, dagli dèi Anunnaki, che zappano prima la terra, fabbricano per un anno mattoni, preparano la muratura e poi alzano la copertura. Le aree cultuali e palatine costituiscono così, a partire dal III millennio, i perni funzionali della vita urbana, determinandone la configurazione degli spazi, il sistema viario e le vie di accesso. Talvolta, come spesso accade nel Levante, esse crescono e si addensano variamente intorno a sorgenti, pozzi, cisterne. La configurazione della città è quindi determinata dal circuito murario; in Palestina fin dal III millennio le mura appaiono pianificate e le strutture domestiche con le vie di collegamento appaiono aggiunte dopo. La tendenza a una crescita spontanea, con moduli a sviluppo agglutinante e paratattico, sembra qualificare in genere lo sviluppo dei quartieri civili del Vicino Oriente. Densi agglomerati divisi da strade assumono allora forme irregolari occasionali, creando isole dalle incerte divisioni sociali ed economiche, a Ur come a Biblo, o in centri minori come a Tell Melebiya.
In alcuni ambienti, il prevalere di un modello abitativo si lega ad un modello urbanistico; è il caso sia dei megara isolati in un quartiere direzionale a Troia II, ma anche a Demirci Höyük, il cui impianto circolare con megara addossati alle mura ricalca l'impianto di Mersin, sia degli insediamenti in aree marginali della steppa, stagionali o permanenti, che hanno l'aspetto di accampamenti, con unità monocellulari rotonde, spesso a pilastro centrale, riunite a cerchio o agglutinate liberamente; questi sono frequenti nel Negev, nel Sinai nel III millennio, ma anche nelle alte terre palestinesi nel I millennio. Le città del Levante hanno strutturazione più fluida e rada, con quartieri suddivisi tra direzionali e domestici da vie spesso ortogonali, ritagliate in una crescita spontanea non pianificata, come nella città di Arad, che pure si sviluppa intorno alla cisterna comune con edifici direzionali, non diversamente dalla più densa Biblo, raccolta, con i suoi templi, intorno al pozzo e alla cisterna.
Elementi di pianificazione urbanistica sono limitati ai complessi cerimoniali, veri organismi polifunzionali chiusi, suddivisi in quartieri che ruotano in corti interne, specie in Mesopotamia e in Siria. Gli esempi di urbanistica pianificata, espressa attraverso un'organizzazione coerente degli spazi, sono rari. È questo il caso delle sole città monumentali dal forte ruolo politico e cultuale, come Ur, Ebla e Tell Khuera del III millennio, Mari della prima metà del II millennio, Assur, Khattusha e Ugarit nella seconda metà del II millennio, Babilonia e le capitali neoassire del I millennio. In qualche caso, come per la cittadella di Khattusha, si delinea un'architettura degli esterni con la presenza di porticati che creano grandiose quinte architettoniche. Una tendenza alla sistemazione organica con isole separate e unità abitative agglutinate in modo organizzato è forse in parte ispirata alle opere monumentali direzionali, sia nel Levante, in centri come Megiddo, Hazor, Ebla, Biblo, Emar, Munbaqa/Ekalte, sia in Mesopotamia. Qui, nuove fondazioni paleobabilonesi, quali Tell Diniya e Tell Harmal (antica Shaduppum), documentano una sistemazione e una progettazione organica degli edifici, con isole di unità abitative a corte centrale, suddivise regolarmente da assi viari ortogonali all'interno di cinte murarie a contrafforti.
Il I millennio vede un forte impulso nella sistemazione organica dei centri abitati, che sono in gran parte ristrutturati e muniti di mura anche molteplici. Nel Levante è precoce la tendenza a un'organizzazione per isole divise da assi ortogonali, che appare seguire un primo momento di forte rinnovamento delle unità abitative in modelli planimetrici fissi, come le case a pilastro, inizialmente raggruppate nel modello arcaico dell'accampamento circolare e poi organizzate in isole regolari (Megiddo III-II, Bet Shan VI, Tell Qasile X) o in densi quartieri anulari (Tell Beersheba, Tell en-Nasbeh Nord); questi racchiudono, nei centri maggiori, cittadelle fortificate (Samaria, Megiddo, Lachish). Nell'ambiente siro-anatolico le cittadelle sono strutturate in complessi monumentali caratterizzati da porte, palazzi e templi porticati, spesso con facciate decorate da sculture e da rilievi, che disegnano gli spazi esterni (Alaca Höyük, Malatya, Karkemish, Zincirli, Tell Halaf, Hama, Ain Dara). Estese progettazioni unitarie sono proprie all'ambiente assiro e babilonese, e raggiungono dimensioni e caratteri di magniloquente grandiosità nella pratica fondatoria delle capitali dei sovrani neoassiri a Kalkhu (Nimrud), Dur-Sharrukin (Khorsabad) e Ninive, le quali sono pianificate non soltanto nelle strutture monumentali, nei palazzi e nei templi, ma anche nelle opere di difesa, nelle infrastrutture idriche, nei parchi e negli orti urbani.
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