Vicino Oriente antico. La cura del corpo
La cura del corpo
di Marten Stol
L'espressione 'medicina babilonese' è comunemente usata per designare le conoscenze mediche dell'antica Mesopotamia e delle aree circostanti nell'arco di tempo compreso approssimativamente tra il 3000 e il 300 a.C. Per i primi mille anni, le testimonianze scritte riguardanti la medicina sono molto scarse; fatta eccezione per alcune formule magiche, ci sono pervenuti soltanto due testi sull'uso di piante officinali. Anche i dieci secoli successivi non furono ricchi di testi di medicina, che emersero, invece, numerosi soltanto dopo il 1000 a.C., provenendo, in modo particolare, dalla famosa biblioteca del re Assurbanipal (668-627) a Ninive. Successivamente, le biblioteche dei templi nel periodo persiano e in quello seleucide si arricchirono di testi di medicina che tramandavano le antiche tradizioni.
In questo capitolo saranno presi in considerazione i testi che offrono una descrizione chiara delle malattie e ne prescrivono una cura più o meno razionale. I Babilonesi, tuttavia, avevano un'altra concezione delle malattie e del modo di curarle, in quanto credevano che gli dèi, i demoni, gli spiriti dei morti e gli stregoni ne fossero la causa e per "distruggere il male" usavano rituali specifici.
Già nei più antichi testi sumerici, provenienti da Ebla e da Shuruppak (la moderna Fara) e databili intorno al 2500, sono state trovate brevi descrizioni di rituali, praticati anche attraverso l'uso di formule magiche, contro la puntura dello scorpione e il morso del serpente, oppure contro le coliche e per facilitare i parti. Questo tipo di trattamento rimarrà sempre di primaria importanza nel mondo mesopotamico; un esempio molto citato in proposito è quello del cosiddetto "verme dei denti": se una persona soffriva di mal di denti, era evocato un incantesimo che raccontava, in un linguaggio poetico, come la causa del suo male, un verme che cercava il suo cibo nelle gengive, facesse infine ritorno agli dèi. Durante questo rito, il mago-esorcista afferrava il verme per la coda e lo estraeva. Nella tradizione del Vicino Oriente sopravvive ancora la credenza che il mal di denti sia provocato da un verme.
Di fronte a questi testi essenzialmente religiosi, si ha la sensazione di occuparsi di storia delle religioni piuttosto che di medicina; in questa sede, tuttavia, sarà posto in primo piano l'aspetto medico della tradizione babilonese.
Due manuali
Il più importante materiale di riferimento è costituito dai manuali di medicina, che è possibile distinguere in due tipi: i testi 'terapeutici' e quelli 'diagnostici'. La biblioteca di Assurbanipal conteneva alcune grandi tavolette di argilla incise su due colonne da entrambi i lati; queste tavolette facevano parte di una serie (nel senso moderno del termine), dal momento che ognuna formava un capitolo di un manuale. La serie più conosciuta è quella intitolata Se il cranio di un uomo ha caldo (šumma amīlu muḫḫašu umma ukâl), titolo costituito dall'incipit della prima tavoletta. Questo manuale, trovato nella città di Uruk e appartenente al periodo tardobabilonese, era composto da 45 tavolette; le versioni precedenti trovate nella biblioteca di Assurbanipal non erano ancora riunite in gruppo, ma la tendenza a raccoglierle insieme è chiaramente testimoniata dai colophon delle singole tavolette. La prima riga (a volte anche più di una) inizia con una ricetta in cui alla descrizione dei sintomi segue una prescrizione medica, formata generalmente da più righe e introdotta dalla formula "per curare [il paziente]". La prima parte di queste grandi tavolette elenca diverse sostanze medicinali, soprattutto piante; indica come trattarle, come mischiare le droghe e come somministrarle al paziente; per curare un sintomo era possibile prescrivere più di un rimedio. È degno di nota il fatto che raramente è indicata la quantità di piante o di droghe da impiegare: da ciò si presume che il lettore esperto ne fosse già a conoscenza. Per designare queste prescrizioni impieghiamo il termine 'terapeutiche'. La seconda parte delle tavolette riporta spesso brevi preghiere o incantesimi seguiti da rituali, nei quali predomina l'uso di alcune piante ritenute magiche; per un approccio che è infatti definito 'magico'. In conclusione, un colophon riporta il titolo della serie impiegando come raccordo la prima riga della tavoletta successiva.
Queste tavolette provengono unicamente da biblioteche appartenenti al periodo più tardo e sono state ricostruite attentamente attraverso l'esame di testi precedenti e di formato minore. Altre compilazioni di questo tipo riportano molte prescrizioni analoghe a queste; ciò significa che possiamo trovare prescrizioni identiche, ricopiate fedelmente, sparse nel corpus dei testi medici; naturalmente, però, i testi canonici sono originali. Sono stati trovati centinaia di testi, di formato grande e piccolo molti dei quali rotti o conservati soltanto parzialmente, ma i duplicati venuti alla luce ‒ non solamente nei grandi centri culturali quali Babilonia, Ninive e Uruk, ma anche nelle città di provincia ‒ possono essere di aiuto per restaurare il testo originario. Il tipo di scrittura impiegata, in particolare in un testo sugli effetti fisici della stregoneria, appartiene al periodo paleobabilonese (XX-XVII sec. ca.), che sembra sia stato un periodo particolarmente fertile per la produzione di questo tipo di testi, e le poche ricette paleobabilonesi da noi conosciute hanno già la struttura di quelle più recenti. Del precedente III millennio non si conoscono testi medici in senso stretto: abbiamo molti incantesimi e una tavoletta che riporta alcune ricette, tutto in sumerico. Nonostante questa lingua si sia estinta intorno al 2000, i termini tecnici e gli incantesimi continuarono a essere impiegati in periodi più tardi, quando i Greci e i Romani ormai dominavano il Vicino Oriente.
Il secondo tipo di manuale medico, che in termini moderni potremmo chiamare 'diagnostico', era composto da 40 tavolette. Esso descriveva, spesso in maniera molto dettagliata, sintomi che erano diagnosticati successivamente in base alla loro causa, molto spesso attribuibile alla "mano" di un particolare essere soprannaturale; a volte, poi, seguivano le prognosi, spesso espresse nei termini "il paziente morirà" o "il paziente vivrà". Sono stati ritrovati soltanto pochi frammenti di questo manuale, risalenti ai periodi paleobabilonese e mediobabilonese; un catalogo più recente, che espone i contenuti del manuale diagnostico canonico, individua colui che raccolse il materiale disponibile e compose quella che doveva essere l'edizione standard: era un celebre studioso vissuto durante il regno di Adad-apla-iddina, re di Babilonia (intorno al 1050 a.C.). Egli compose anche un manuale di prognosi e di diagnosi basate sulla popolazione sana e principalmente sulla fisionomia delle persone; i due lavori erano dunque complementari. Il manuale diagnostico più che canonico era un classico. I cambiamenti o le aggiunte possono a malapena esservi identificati ed esso divenne ben presto un testo quasi venerato, come è dimostrato dall'esistenza di successivi commentari sulle parole difficili e dalle tracce di una versione in sumerico, forse artefatta. A volte alcune parti di esso sono citate nel manuale terapeutico, che contiene informazioni sulla principale causa della malattia, perlopiù provocata dalla volontà divina, e spesso ne prefigura l'esito. In questo manuale la persona che opera è il mago-esorcista, lo specialista del mondo soprannaturale (Tav. I).
La farmacologia e la somministrazione delle droghe
Una branca importante della medicina era costituita da ciò che noi chiameremmo farmacologia. La maggior parte delle sostanze medicinali erano piante e i testi terapeutici ne forniscono spesso lunghi elenchi. Erano utilizzati anche minerali come l'argilla, l'allume e il vetro poroso; le sostanze di derivazione animale erano invece piuttosto rare, ma quando erano impiegate comparivano nelle ricette in misura maggiore rispetto alle altre (v. cap. XVIII, par. 2).
A volte erano date le istruzioni, con un leggero alone di magia, su dove e su come cogliere una particolare pianta; essa, o una determinata sua parte, prima di essere trattata doveva essere pesata, lavata, seccata, macerata, passata al setaccio o essere spremuta; successivamente poteva essere mischiata ad altre piante, immersa in un liquido, mescolata, scaldata o cotta ‒ a volte era messa nel forno ‒ quindi i medicamenti caldi erano fatti raffreddare e, successivamente, filtrati e travasati. La pozione poteva anche essere lasciata tutta la notte "sotto le stelle" e sottoposta all'influenza magica emanata da quei divini corpi celesti (a volte il medicamento era preparato in maniera diversa, a seconda che si fosse in estate o in inverno). A questo punto, la droga era pronta e poteva essere somministrata in vari modi: nel caso di malattie "interne" era impiegata principalmente per via orale oppure rettale, cioè era bevuta nella birra o nel vino, spesso a stomaco vuoto, oppure "versata nell'ano", presumibilmente impiegando dei clismi. Esistevano anche altri modi di somministrare il medicamento, che poteva essere soffiato nelle narici o introdotto nel pene o nella vagina impiegando una canna o un tubo di metallo; inoltre era noto anche l'uso delle supposte, chiamate "ghianda" o "dito". Ci è pervenuta notizia di alcuni casi di malattie polmonari curati anche con inalazioni. Le droghe erano sotto forma di unguenti o polveri, raramente di pillole, oppure con esse erano imbevute bende e tamponi. I suffumigi, le frizioni fatte con linimenti e l'uso di borse di pelle riempite con materiale magico (a volte chiamato "cataplasma"), erano ritenute cure magiche ed erano spesso accompagnate da incantesimi. Per fare i suffumigi era spesso bruciato incenso di ginepro sulle braci ardenti ricavate da piante speciali.
I guaritori
Per curare un malato esistevano due tipi di specialisti: il medico (asû) e l'esorcista (āšipu). I testi li mettono in contrapposizione, affermando che il medico lavorava con le "bende" e il mago con gli "incantesimi". Il medico si limitava a guarire i malati con pozioni, unguenti, bende di lino, cataplasmi e bisturi, mentre l'esorcista era un esperto del mondo soprannaturale ed era tenuto a scoprire le cause e il futuro di una malattia. L'esorcista era una persona colta e con un'ampia gamma di attività, di cui la medicina era solamente una, anche se importante; attraverso i suoi manuali e le sue lettere ci sono giunte molte notizie sulla sua figura. Il medico, invece, non aveva caratteristiche precise: attraverso le lettere paleobabilonesi e i testi letterari lo vediamo scegliere le piante, curare gli ascessi, fasciare le ferite; egli aveva una borsa con gli strumenti e alcune parti del Codice di Hammurabi dimostrano che era pagato per le sue prestazioni chirurgiche e che era responsabile personalmente dei risultati (parr. 215-223). Non bisogna tuttavia sopravvalutare le sue capacità chirurgiche: sembra che l'"apertura delle tempie" per mezzo di un bisturi di bronzo (par. 215) non andasse al di là di un'incisione superficiale della cute; il taglio cesareo non era conosciuto e anche i testi successivi non mostrano altro che incisioni o punture; raramente sono menzionati i salassi. In un testo letterario, la descrizione di un medico della città di Nippur fa supporre che egli portasse con sé strumenti per cauterizzare (naqmû).
Il manuale terapeutico più recente illustra poche semplici prescrizioni e non descrive tecniche manuali, poiché evidentemente queste capacità si apprendevano con la pratica. Alla descrizione di una malattia, a volte segue il suo nome e questo era il termine comunemente impiegato dal medico nel linguaggio quotidiano; il medico era, infatti, molto esperto nella medicina popolare e chiamava le malattie con i nomi comuni, non atribuendole alla "mano di un dio". Egli era uno studioso in condizione di parità con il mago, lavorava in modo empirico, conosceva e impiegava tutti i metodi disponibili per guarire un paziente. Il lavoro del medico e quello dell'esorcista erano complementari: se un metodo non era efficace ci si rivolgeva all'altro. In una lettera assira, per esempio, è richiesta la presenza di "un esorcista e un medico perché eseguano insieme il rituale". Tra le due professioni non vi erano contrasti né competizione e il manuale terapeutico conferma che a molti trattamenti con le droghe seguivano rituali magici: in un caso di malattia persistente che "non può essere eliminata né dall'arte medica né dall'arte dell'esorcista", per esempio, si prescrive una ricetta che, nell'ambito della tradizione del medico, fa uso di piante medicinali e non di magia. In questo caso l'ultima speranza del paziente non era l'esorcista, ma il medico e numerose lettere ci dicono che la prima cosa da fare quando ci si ammalava era andare dal 'medico'.
Qual era, allora, l'importanza dell'esorcista con il suo 'manuale diagnostico'? Egli era il teologo in grado di riconoscere la vera natura della malattia e ne conosceva l'esito: la vita o la morte. Ciò lo rendeva, agli occhi dei Babilonesi, l'autorità suprema. Il medico, infatti, non trattava i casi senza speranza, quelli in cui l'esorcista prevedeva che "il paziente sarebbe morto" e perciò il manuale terapeutico citava, a volte, il manuale diagnostico. L'esorcista aveva anche un altro compito, la profilassi: per mezzo degli amuleti e di altri strumenti magici, apotropaici, egli proteggeva il paziente dalla malattia, nuova o ricorrente; prescrizioni di questo tipo abbondano nel manuale terapeutico.
La dea della guarigione
L'esorcista era il rappresentante sulla Terra degli dèi della magia e applicava i loro metodi; queste divinità erano Ea (il sumerico Enki) e Marduk (il sumerico Asallukhi). Di interesse più diretto era però la dea della guarigione, sotto la cui protezione lavorava il medico, conosciuta come Gula, Ninkarrak o Ninisina (quest'ultimo termine significa "Signora di Isin", poiché ella aveva i suoi templi, di cui uno chiamato "casa della vita", nell'antica città sumerica di Isin e, in teoria, un medico doveva fare tirocinio in questa città). Gli inni a questa dea la rappresentano come un medico che portava con sé piante medicinali, una borsa di pelle, un coltello e un bisturi; i testi letterari sumerici sottolineano che era in grado di curare persino gli storpi. Ella rivolgeva i propri incantesimi alla malattia come se questa fosse un essere vivente. Un lungo inno celebra la dea con i nomi di varie divinità femminili (un caso di sincretismo) e le attribuisce la seguente descrizione: "Io sono il medico, posso salvare la vita./ Io porto ogni erba, scaccio la malattia./ Io sono cinta della sacca contenente gli incantesimi che danno il vigore./ Io porto i testi che fanno stare bene/ Io do salute alla razza umana./ [Le mie] bende pulite leniscono le ferite./ [Le mie] morbide fasciature alleviano le sofferenze." (Foster 1993, p. 495).
Scavi recenti hanno portato alla luce il complesso dei templi di Isin, dove sono state trovate le ossa di più di 30 cani: sia i testi sia le raffigurazioni iconografiche collegano il cane con Gula, la dea della guarigione. Sono state trovate anche statuette di argilla raffiguranti parti del corpo umano, probabilmente alcuni dei rarissimi esemplari di ex voto scoperti in Mesopotamia.
Le cause della malattia
Il modo in cui una malattia s'impossessava di un essere umano era già indicativo delle sue cause; per questo motivo si parlava delle malattie come se vi operassero degli esseri viventi e si usavano espressioni quali "prendere con forza" e, meno frequentemente, "toccare" o "colpire"; alcune indisposizioni erano ritenute effettivamente opera di uno specifico dio o spirito ed erano definite "presa", "tocco" e "colpo". Tra queste parole doveva esserci una sottile differenza a noi tuttora sconosciuta. Si attuava poi una distinzione tra le diverse cause delle malattie, che potevano essere di origine naturale oppure provocate dalla collera divina, da altri fattori soprannaturali o dalla stregoneria.
a) Cause naturali. I Babilonesi, probabilmente, avevano compreso che alcune indisposizioni, come le ferite e i colpi di sole, avevano delle cause naturali evidenti. Questo tipo di male era spesso chiamato 'ferita' (simmu), in contrasto con il termine 'malattia' (murṣu), che indicava principalmente qualcosa di interno. Spesso come medicamento era usato semplicemente l'olio di sesamo. Ma cosa era considerato 'naturale'? Il Babilonese si chiedeva immediatamente "perché questo sta accadendo a me?" e cercava una spiegazione a livello metafisico che lo conduceva, come Giobbe nella Bibbia, a considerazioni religiose sulla sofferenza umana. Al di là di una causa naturale, quindi, ve n'era comunque un'altra legata all'intervento di un'autorità superiore.
Analizzando la medicina tradizionale, gli studiosi moderni potrebbero essere portati a distinguere tra malattie con cause naturali e malattie con cause soprannaturali e ad ipotizzare che le prime fossero curate con mezzi razionali e le seconde fossero trattate con procedure religiose. Probabilmente, però, i Babilonesi non facevano questa distinzione: il morso di un serpente o la puntura di uno scorpione, entrambe cause 'naturali', potevano essere curati con la magia. Un corpo estraneo nell'occhio era rimosso tramite un incantesimo che recitava "cadi come una stella, crolla come il fuoco, prima che il coltello di selce e il bisturi di Gula ti infastidiscano": ciò significa che s'iniziava con un trattamento magico per poi procedere a un trattamento chirurgico. I testi terapeutici, inoltre, a volte avvertivano che una malattia provocata da cause naturali, per esempio un colpo di sole, dopo un lungo periodo di tempo poteva svilupparsi in una "mano" soprannaturale; in termini generali, ciò indica che se una malattia si protraeva o si aggravava non era più percepita come naturale: essa "si trasformava" in "mano" e il mago doveva fare il suo ingresso.
b) Collera divina. Nel mondo antico tutti gli esseri umani si consideravano peccatori: il peccato provocava la collera degli dèi, che, per punizione, potevano infliggere le malattie. I salmi penitenziali babilonesi lamentavano che in tale situazione il paziente era abbandonato persino dal nume tutelare della sua famiglia, la gente lo respingeva ed egli supplicava la divinità di perdonarlo; esistono numerosi esempi di questo tipo di preghiere. A volte la condizione del paziente era descritta elencando dalla testa ai piedi ogni possibile disturbo e la descrizione era deliberatamente generica, a volte vaga, poiché queste preghiere servivano a qualsiasi scopo. Al contrario, il manuale diagnostico, con il suo approccio 'tecnico', magico e medico, riportava con grande precisione sintomi specifici, ai quali seguiva la diagnosi; spesso la malattia era attribuita alla "mano" di una particolare divinità, la cui identità poteva essere rivelata dallo studio del fegato di una pecora (extispicio). Alcune rare testimonianze attribuiscono i sintomi di impotenza e di problemi al basso ventre alla "mano" di Ishtar, la dea dell'amore, ma, a parte questa eccezione, finora non è stato possibile ravvisare un collegamento tra sintomi specifici e la "mano" di una particolare divinità.
Un caso particolare di punizione per le colpe umane era la "mano" di una maledizione che poteva colpire chi avesse infranto un giuramento. Le formule di maledizione, abbinate ad accordi vincolanti, quali i giuramenti, minacciavano il trasgressore di varie punizioni, tra le quali "una ferita che non termina mai", perché inflitta dalla stessa divinità che dà la guarigione. È possibile che la "mano" della maledizione fosse responsabile anche dei castighi per la violazione dei tabù, sia intenzionale sia involontaria, e per i peccati commessi accidentalmente; un manuale magico dà alcune istruzioni su come purificare la vittima (Šurpu).
c) Altri fattori soprannaturali. In questi casi l'uomo non era colpevole. I testi medici parlano frequentemente della "mano" di uno spirito o anche di "presa" e "tocco" da parte di esso. Ciò significa che una persona poteva essere perseguitata dagli spiriti dei morti di cui non ci si era presi cura in modo adeguato, per esempio di coloro che erano annegati o bruciati. Si riteneva che lo spirito entrasse nel corpo attraverso le orecchie e, infatti, i problemi alla testa erano considerati sintomi di questa condizione. Le conseguenze della "mano" di uno spirito colpivano principalmente la testa e il collo, procurando vertigini, febbre e altro ancora.
I demoni erano ben conosciuti, ma nei due manuali medici sono menzionati raramente; è possibile citarne soltanto alcuni: Akhazu ("colui che afferra") era responsabile dell'itterizia; Lamashtu era una figlia "caduta" del dio Cielo Anu, pericolosa per le madri e per i loro neonati; Shulak, un demone in agguato nell'acqua sporca, infliggeva percosse; Lugal-urra, "il signore del tetto", era il demone dell'epilessia. Nei manuali magici i demoni abbondano, ma le loro azioni e i loro effetti sono descritti soltanto in termini generici, anche se spaventosi.
d) Stregoneria. I testi medici diagnosticano gli effetti della stregoneria dandogli il nome di "mano dell'uomo". Si temevano molto le macchinazioni di streghe sconosciute, poiché si riteneva che fossero soprattutto le donne a esercitare questo tipo di magia, e il metodo più comune era quello di propinare al paziente cibi o bevande stregate (in cui la strega avesse sputato); alcuni testi medici prescrivevano, in effetti, degli emetici. La cosa più importante era eliminare la strega stessa, anche se questo non era compito della medicina vera e propria; il mago impiegava, infatti, a questo scopo un manuale che apparteneva completamente al campo della magia (Maqlû).
Le introduzioni mitologiche agli incantesimi testimoniano la credenza che molte malattie piovessero dal cielo, in particolare dalle stelle, mentre di altre si diceva che derivassero "dalle montagne".
Morte, contagio ed epidemie
Alcune malattie non potevano essere curate. Nei patti o nei giuramenti le formule delle maledizioni stabilivano che il trasgressore dovesse affrontare "una ferita che non termina mai", inflitta da Gula, la dea della guarigione, o una grave malattia della pelle (come la lebbra), mandata dal dio Luna Sin, o l'idropisia ("l'acqua che non termina mai"), che era la punizione di Marduk. A volte questi anatemi erano seguiti dalla maledizione "possa egli vagare per il deserto come un asino selvaggio" e questa metafora, come le precedenti malattie, suggerisce una forma di isolamento sociale. Esaminando il fegato di una pecora si giungeva, a volte, alla conclusione che "il medico non porrà la sua mano sul paziente, l'indovino non farà una prognosi" ed era espresso lo stesso parere se il malato versava in condizioni critiche in particolari giorni del mese; in questi casi erano i teologi ad affermare, in qualità di maghi e indovini, l'inutilità di qualsiasi cura. Il manuale terapeutico cita alcune previsioni di questo tipo.
Il contagio era molto temuto. Alcune lettere provenienti dalla città di Mari recano le istruzioni per isolare una donna malata che viveva in un harem: "Nessuno beva dalla sua tazza, nessuno si sieda dove si è seduta; nessuno usi il suo letto". Un'altra donna era tenuta rinchiusa in una stanza perché si riteneva fosse meglio che morisse soltanto lei piuttosto che tutte le altre. Il contagio provocato da una giovane schiava era invece di origine religiosa: ella era "piena dell'ira del dio", era quindi scacciata mentre il palazzo era purificato dai sacerdoti delle lamentazioni (Neufeld 1986, pp. 53-66; Durand 1988, pp. 544-554).
Le epidemie ci sono note principalmente attraverso le lettere; nelle metafore erano rappresentate come un dio che "mangia" il paese ‒ e generalmente erano attribuite a Nergal, dio della morte ‒ oppure si credeva che la popolazione fosse stata "toccata". A parte la fuga, la preghiera e i sacrifici, l'unica cosa da fare in questi casi era afferrare un piede della divinità; forse in questo modo la "mano del dio sarebbe giunta a riposare" e a questo sarebbe seguita la purificazione della città. Numerosi testi dimostrano che le pestilenze devastavano le città, tuttavia ci è impossibile identificarle; l'epidemia più frequente, spesso menzionata nei testi letterari con il nome di'u, potrebbe essere stata la malaria.
Le malattie
Dai 'dizionari' sumero-accadici è stato tratto un elenco di malattie e quel che ne è rimasto conta più di 200 problemi fisici, che variano da un piede zoppo a particolari malattie della pelle. Alcuni incantesimi danno un'idea di come venisse immaginata la malattia da scacciare. Questi componimenti sono, di fatto, delle poesie e molti di essi sono presenti nelle moderne antologie di letteratura mesopotamica. La difterite, che colpisce soprattutto il tratto respiratorio, era così descritta: "Forte è la sua presa. Come un leone essa ha afferrato l'ugola, come un lupo ha afferrato la gola. Ha afferrato la morbida [guancia], la lingua. Si è insediato nella trachea. Vattene, o difterite!" (Köcher 1963-80, II, pp. 36-41).
I processi gastrointestinali a volte erano raffigurati come quelli che avvenivano nei recipienti in cui si faceva fermentare la birra; a proposito della costipazione, per esempio, si affermava: "Gli intestini sono malati, ricoperti come in una cassa. Come acqua in un fiume essi non sanno dove andare, come acqua in un pozzo non hanno modo di fluire. Sono ricoperti come un tino per la fermentazione, cibo e acqua non possono entrarvi" (Foster 1993, p. 121).
Un'altra metafora li rappresentava come canali chiusi da dighe che dovevano essere aperte. La conoscenza dell'anatomia umana era molto scarsa e questo è un fatto sorprendente per un popolo che aveva così tanti aruspici, esperti conoscitori dell'anatomia animale. Per 'ventre' e 'cuore' essi usavano la stessa parola (libbu) e nella loro terminologia non vi era distinzione tra vasi sanguigni e muscoli. Organi interni considerati importanti erano i polmoni, la bile, l'intestino, i reni e la milza (mai il fegato).
I Babilonesi non avevano le nostre categorie nosologiche e le loro "mani" comprendevano problemi fisici e mentali molto diversi tra loro. Un gruppo molto ampio di malattie deve essere stato quello che includeva le indisposizioni provocate dal "calore del sole", soprattutto le febbri. Altri disturbi avevano origine dai "soffi di vento"; anche l'aria all'interno del corpo, o quella che colpiva gli occhi, rappresentava un problema ed è facile capire perché, in un paese subtropicale, si fossero sviluppate queste opinioni. Nell'emettere la diagnosi si prestava molta attenzione alla condizione delle vene delle tempie, che potevano essere "stabili" o "fluenti" (pulsanti) e ciò era probabilmente connesso alle idee babilonesi sul flusso del sangue. Anche lo stomaco sembra aver avuto un valore diagnostico poiché le sue condizioni sono riportate frequentemente, mentre si prestava attenzione al colore delle urine soltanto nel caso di malattie strettamente urinarie; il cuore non aveva alcun ruolo nel pensiero medico.
All'interno del vasto insieme di testi terapeutici si nota un marcato interesse per le malattie connesse ad alcune specifiche parti del corpo: occhi, orecchie, capelli, denti, respiro, naso, polmoni, bile; si presta inoltre attenzione al "grande dolore" (malinconia), ai problemi dell'ano (comprese le emorroidi) e dei piedi. Una parte riguardante le coliche è inaspettatamente interrotta da una ricetta contro le coliche dei cavalli. La paralisi, il carbonchio e il "rossore" (samānu) erano problemi trattati in maniera più generica. L'impotenza e i parti difficili rientravano nel campo della magia. Il manuale Se il cranio di un uomo ha caldo è composto da almeno 63 capitoli dedicati ai problemi provocati dalla stregoneria e tratta molte indisposizioni; anche molti testi medici indicano una specifica terapia per la "mano" di uno spirito o di una maledizione. I testi riguardanti la vita quotidiana testimoniano la frequenza di malattie ai piedi, che erano contratte anche solamente camminando nell'acqua sporca, proibita. Si diceva che un re fosse morto per il "morso di una calzatura" (non è riportato nei testi medici; era forse gotta?). Un caso singolare era rappresentato dalle numerose malattie della pelle, che spaventavano in modo particolare perché potevano riflettere la collera divina (ciò ricorda l'angoscia biblica provocata dalla lebbra, malattia per la quale nel cap. XIII del Levitico si indicano precise regole di condotta); è notevole il fatto che soltanto in questo caso i testi terapeutici babilonesi diano due possibilità di diagnosi: il nome comune e l'identificazione teologica con una "mano".
Il manuale diagnostico riporta un esame sistematico di diversi problemi fisici; purtroppo se ne conosce soltanto una metà, anche se c'è la speranza che un giorno la parte rimanente venga riportata alla luce. Dopo due capitoli di introduzione dedicati alla figura del mago (tavolette I-II), è descritto l'aspetto delle varie parti del corpo e i possibili sintomi concomitanti, partendo dal cranio per arrivare ai piedi (III-XIV). I due capitoli successivi trattano, invece, le malattie in relazione alla loro durata: da uno a sei giorni, 15 giorni, un mese o "per lungo tempo" (XV-XVI). I capitoli seguenti sembrerebbero più complessi, ma ne è andata perduta una gran parte riguardante lo sviluppo della malattia e i concetti di "caldo" e "freddo". Il capitolo XXIII è organizzato in base alle diagnosi: le cause sono la stregoneria, le malattie sessuali, la "maledizione", la "mano" di Marduk, il demone Namtar, ecc. Sono ben conservati i capitoli sull'epilessia, sui colpi apoplettici e i problemi a essi collegati (XXVI-XXVIII), mentre è andata perduta la maggior parte di quelli sulle febbri; ci sono pervenuti anche alcuni capitoli della parte finale del manuale, riguardanti le donne incinte e i loro bambini (XXXVI-XL).
Per quanto riguarda l'eventuale esistenza di un sistema di classificazione delle malattie, nei testi terapeutici si distingue spesso fra le malattie causate dal calore del sole, quelle causate dal vento, due tipi di paralisi (il torpore era forse una di esse), le malattie muscolari, la "mano" di uno spirito o quella di una maledizione, la stregoneria, i problemi rettali, e "tutti gli altri tipi di malattia". Non sappiamo ancora se questo fosse un elenco standard di tutte le possibili malattie, o se riunisse in un unico gruppo quelle che erano trattate con i clisteri.
Soltanto in un testo, che risale agli ultimi secoli della medicina babilonese, numerose malattie (circa 36 o 37) sono raggruppate in funzione delle quattro parti del corpo dalle quali "provengono": il cuore, lo stomaco, i polmoni e i reni. Tale opinione sull'origine fisica della malattia è completamente nuova e sembra razionale; non è tuttavia possibile rintracciare alcun collegamento con i quattro umori fondamentali nella teoria greca delle malattie.
Oltretutto, nella letteratura medica greca la descrizione del decorso di una malattia culmina in una "crisi", mentre la sintomatologia babilonese ne dà un'immagine statica, aggiungendovi a volte soltanto un commento sulla durata della malattia e raramente si afferma che una malattia "si estende" ad altre parti del corpo. Il manuale diagnostico spiega, comunque, che una malattia si può "trasformare" in un'altra (tavoletta XXVIII); una lettera avverte che la tosse e le coliche possono trasformarsi nella "mano" della maledizione e alcune droghe possono impedire che ciò avvenga. Un caso interessante è quello dell'indisposizione cronica (forse Lupus erythematosus disseminatus) del re Esarhaddon (680-669). Come si apprende dalla lettere a lui indirizzate, si riteneva che gli fossero di aiuto gli amuleti di pietra legati a un filo, i rituali, alcuni sacchetti protettivi riempiti con materiale magico e quindi appesi al collo, unguenti, suffumigi e pozioni: naturalmente si applicavano sia le arti del medico sia quelle dell'esorcista. Il re era così confortato: "colui che è in buona salute muore giovane, chi è malaticcio vive a lungo" (Parpola 1983, pp. 229-239).
La scienza medica babilonese, come parte di una dotta tradizione culturale, mostra una grande continuità e nel II millennio, di pari passo con l'espansione del linguaggio e del sistema di scrittura babilonese, fu adottata dai popoli che vivevano in Occidente, sulle rive del Mediterraneo. Qui, nelle città di Ugarit, Emar e Khattusha, capitale dell'impero hittita, i testi medici e magici babilonesi furono ricopiati e quindi utilizzati. Nel 1250, in seguito alla rovina di queste città, le fonti si estinsero e si perse ogni traccia dell'influenza babilonese.
di Danielle Cadelli
In un inno a lei dedicato, Gula, dea mesopotamica della medicina, si esprime in questo modo: "Io reco tutti i rimedi, allontano la malattia" (Lambert 1967, p. 120, riga 80). La conoscenza di questi "rimedi", termine tradotto dall'accadico šammu che indica sia la pianta sia il principio attivo che se ne estrae, ci è pervenuta dalle numerose ricette farmacoterapeutiche rinvenute in diversi siti mesopotamici. Il loro ritrovamento anche a Susa, in Elam, e nella capitale hittita Khattusha, in Anatolia, documenta una corrente di tradizione medica di diretta derivazione mesopotamica anche in quelle aree (v. precedente par. 1). Per quanto riguarda la farmacopea dell'antica Palestina, invece, la natura, frammentaria e non tecnica, delle fonti bibliche e talmudiche, ci lascia in una relativa incertezza riguardo alle terapie in uso. Le prime ricette mesopotamiche pervenuteci risalgono all'epoca neosumerica della III dinastia di Ur (XXI sec.); la presenza di questo genere di documentazione a Uruk ancora in epoca seleucide (fine IV-III sec.) attesta la grande estensione temporale di questa tradizione. Le conoscenze relative alla farmacopea sono organizzate, nei testi, secondo un criterio lessicale, caratteristico dei procedimenti scientifici mesopotamici (v. cap. VII, par. 1); in questo modo i diversi ingredienti sono inclusi in liste tematiche. Alcune di esse, puramente lessicali, comprendono termini classificati in funzione dei tre regni: vegetale (caratterizzato dai determinativi Ú per le piante, GIŠ per gli alberi, ŠIM per le piante aromatiche, SAR per le leguminose, GI per le canne), minerale (in particolare NA4 per le pietre, IM per la terra, MUN per il sale, URUDU per il rame) e animale (MUŠEN per gli uccelli, KU6 per i pesci e così via). Altre liste, invece, di natura più descrittiva, cercano di definire una pianta o una pietra secondo il suo aspetto (le liste šammu šikinšu e abnu šikinšu) e forniscono anche indicazioni sulle sue proprietà terapeutiche. Alcune liste, infine, hanno il carattere di compendi, una sorta di vademecum a uso, verosimilmente pratico, del medico curante, e indicano il nome di una pianta precisandone eventualmente la parte da utilizzare e l'impiego terapeutico.
La lista bilingue sumero-accadica "Uru-anna = maštakal" è una serie di riferimento, costituita da quattro tavolette, che cataloga numerosi ingredienti (piante, minerali, cosmetici e altri ancora) dando sinonimi ed equivalenze, eventualmente in lingue straniere come il cassita o l'elamita, e fornendo indicazioni sul loro impiego e sui metodi di preparazione e somministrazione. Il legame con la lessicologia non è solamente teorico: in "Uru-anna = maštakal" si trova anche esplicitato l'equivalente vegetale, o di altro genere (espresso con un sumerogramma, inusuale in questo senso), di sostanze escrementizie o particolarmente insolite, appartenenti alla cosiddetta Dreckapotheke (in ted. 'farmacia dai rifiuti'), come gli escrementi umani o il grasso di serpente. Si tratta probabilmente di nomi segreti, riservati a una categoria di iniziati.
L'identificazione di numerose sostanze, soprattutto vegetali, è ancora incerta allo stato attuale, poiché il procedimento etimologico può rivelarsi fonte di errori. Questo impedisce a priori di discutere in questa sede dell'efficacia dei trattamenti. A questo proposito i testi, nella maggior parte dei casi, ci assicurano del successo della cura (il pronostico più frequente è "guarirà") e la portata simbolica di certi ingredienti va nella stessa direzione (essa è evidenziata in certi scongiuri o traspare, per es., nell'etimologia popolare di piante medicinali di uso molto frequente: imḫur-ešrā "[ne] ha affrontati 20" e imḫur-līm "[ne] ha affrontati 1000"). Tuttavia sono documentati trattamenti pertinenti, quale, per esempio, l'uso, sia interno sia topico, del fegato crudo in un caso di emeralopia notturna (sinlurmâ), affezione attribuibile a una carenza di vitamina A, possibile conseguenza della prevalenza, nella dieta di quell'epoca, della componente cerealicola.
La presenza di farmacie, nel senso di luoghi in cui sono immagazzinati prodotti medici già preparati, è altamente improbabile per ragioni tecniche relative alla conservazione di diversi tipi di preparati. La preparazione del farmaco è, di fatto, un compito che spetta a chi pratica la cura: essa è intimamente legata all'atto medico e si esegue per un determinato paziente una volta stabilita la diagnosi (v. precedente par. 1). Diversi indizi, tuttavia, puntano all'esistenza di drogherie dove erano immagazzinate riserve di numerosi ingredienti e che dipendevano, almeno in certi casi, dall'amministrazione del palazzo o di un tempio: a Nippur, per esempio, esisteva probabilmente una sorta di drogheria centrale. Un testo proveniente da Assur, che rappresenta un inventario di farmacia, oppure una guida didattica su come riporre gli ingredienti, indica la precisa ripartizione dei diversi prodotti su scaffali di legno e menziona talvolta anche il recipiente specifico per contenerli. Anche alcuni prodotti rari e importati da lontano potrebbero essere stati immagazzinati in queste riserve, mentre prodotti molto comuni, come, per esempio, il latte, l'olio di sesamo o il vino, potevano seguire le vie di approvvigionamento usuali o, più semplicemente, essere disponibili in casa del paziente. La raccolta degli ingredienti vegetali, che le ricette raccomandano di usare freschi, doveva essere effettuata, negli orti o nella steppa, poco prima dell'uso.
I testi farmacologici presentano un vocabolario specifico e preciso relativo alla preparazione e alla somministrazione dei rimedi, di cui talvolta ci sfuggono ancora le sfumature e in cui certi elementi sono comuni ad altre tecniche affini, come la culinaria e la produzione di profumi (v. oltre: parr. 3 e 4). Nelle prescrizioni, bisogna, inoltre, sottolineare la presenza di una componente rituale non trascurabile, che si manifesta in vari modi, dalla scelta degli ingredienti, determinata tra l'altro da connotazioni molto specifiche (per es., "una melagrana di un ramo che cresce a nord"), ai procedimenti (come la ripetizione di gesti, la raccolta notturna o l'esposizione dell'ingrediente a un'influenza astrale).
Il dosaggio degli ingredienti, quando è riportato, è indicato secondo misure che a volte sono piuttosto vaghe (come il pugno), mentre in altri casi sono precise (conformi alle usuali misure di peso e volume), talvolta con la menzione dell'impiego di una bilancia per la pesatura. Alcuni testi prescrivono di prendere gli ingredienti in parti uguali. Di solito, una ricetta è composta da svariati ingredienti, che possono raggiungere anche il numero di 20 o più. In una lettera di epoca cassita si sottolinea l'importanza del loro effetto sinergico, sottolineando che l'assenza anche di un solo componente, renderà il rimedio inefficace (Parpola 1983, p. 495).
La preparazione dei farmaci comprende un numero molto variabile di operazioni; essa può risolversi in una sola fase o, al contrario, seguire una procedura assai complessa. Di solito, le operazioni hanno inizio con l'essiccazione e la tostatura degli ingredienti, che sono poi pestati, tritati o macinati, passati al setaccio e pressati. Si mescolano, quindi, i diversi componenti e si aggiunge un eccipiente; a questo punto la preparazione può essere impastata o lavorata, oppure anche riscaldata o cotta, bollita o messa in forno. Talvolta la ricetta specifica il tipo di recipiente da utilizzare, per esempio la pentola diqāru o il tamgussu, un contenitore in bronzo. Si può, quindi, far raffreddare il preparato, lasciarlo riposare tutta la notte sotto le stelle e poi filtrarlo.
La somministrazione dei preparati assume diverse forme: quella interna può avvenire per via orale (la forma preferita è la pozione, ma può trattarsi anche di una pillola o addirittura di un rimedio da leccare) oppure per via rettale, con l'introduzione di supposte o l'impiego di clisteri, per i quali è talvolta menzionata una "pelle per clisteri". I farmaci possono essere assunti anche per via vaginale, tramite tamponi, oppure uretrale, iniettando o insufflando attraverso il meato uretrale, operazione per la quale è talvolta menzionato un tubo di bronzo. Il tampone può essere introdotto anche in altri orifizi, come il naso, per bloccare un'emorragia, o le orecchie. A livello topico esterno, numerose sono le creme, le lozioni, le pomate da spalmare, delle quali alcune specificamente oculari, le fasciature e i cataplasmi da applicare e le polveri da spargere. Sono documentate le gocce oculari o auricolari da instillare, i suffumigi e le inalazioni, nonché le insufflazioni.
È da notare che diversi rimedi hanno uno scopo sottrattivo: le purghe e gli emetici, sotto forma di pozioni o lavande, occupano un posto importante nella farmacopea, riflettendo in tal modo un'eziologia spesso attribuita a un agente esterno che è necessario eliminare (v. precedente par. 1).
L'azione curativa dipende da diversi fattori. Dalle numerose varianti proposte per la stessa affezione, si percepisce innanzitutto una certa libertà di chi pratica la cura, nonché il carattere empirico delle prescrizioni. Di tanto in tanto, il testo può lasciare libero il medico nello svolgimento di una fase del suo lavoro (con espressioni del tipo "se ne hai voglia"), mettendolo tuttavia in guardia con affermazioni quali: "[Attenzione], se esageri, morirà" (Köcher 1963-80, n. 578 i 16), evidenziando argutamente la sua libertà d'azione ma, al tempo stesso, il fatto che il suo margine di manovra può essere ristretto, limitato, nel caso del testo citato, da un possibile effetto tossico. Da un altro punto di vista, le prescrizioni presentano un carattere fisso: diverse ricette o ingredienti sono definiti come "provati" e rimandano talvolta a una tradizione plurisecolare come garanzia di qualità. Così, per esempio, una ricetta oftalmologica del I millennio (ibidem, n. 159 iv 22) ha la qualifica di "provata" e rinvia all'epoca paleobabilonese di Hammurabi (XVIII sec.). Alcune lettere di corte documentano anche l'uso occasionale di far assaggiare ai servitori un preparato prima di somministrarlo ai loro signori o al re, allo scopo di assicurarsi che non fosse tossico, oppure di far provare gli ingredienti separatamente per determinare quello di maggior efficacia. Anche fattori esterni sono considerati come influenti sull'azione terapeutica: nei testi emerologici, per esempio, certi giorni sono considerati propizi e altri nefasti per l'attività medica, per cui in questi ultimi il medico deve evitare d'intervenire sul malato. Il trattamento può subire, inoltre, un'influenza celeste positiva; per questo gli ingredienti posti di notte su una terrazza, alla luce degli astri notturni, traggono beneficio dalle loro irradiazioni e, in particolare, da quelle della dea Gula, per mezzo della sua manifestazione stellare, la "stella della capra" (la Lira).
La farmaceutica del Vicino Oriente antico non deve essere concepita come una scienza a sé stante. Se l'azione terapeutico-farmaceutica è affidata principalmente al medico (asû), tuttavia anche l'esorcista (v. cap. IV, par. 4) è coinvolto nel processo curativo, come testimoniano, per esempio, alcune ricevute medioassire di ingredienti per farmaci da parte d'un esorcista mašmaššu, o le biblioteche di esorcisti di Assur e Uruk, contenenti ricette terapeutiche, o, ancora, il Manuale dell'esorcista, che cataloga tavolette di piante e pietre, nonché le serie descrittive di piante e minerali menzionate precedentemente. Di tanto in tanto, era consultato anche l'indovino; in un rapporto si riferisce di un extispicio effettuato allo scopo di verificare l'opportunità dell'assunzione di una pozione terapeutica da parte del re Esarhaddon (Starr 1990, n. 185). D'altro canto, le ricette non presentano solamente il trattamento dei sintomi medici, ma possono servire a riconciliare gli dèi irati, mirando così alla causa latente di mali diversi. Alle cure fisiche del corpo corrispondono anche scongiuri con rituali, inclusi a volte nelle serie mediche, che fanno intervenire direttamente agenti divini in un rapporto molto più complementare che contrapposto (v. cap. IV, par. 4).
di Danielle Cadelli
Nei siti del Vicino Oriente antico sono stati ritrovati numerosi oggetti adibiti alla cura estetica del corpo: specchi, pettini, bastoncini e tubetti per il kohl (un trucco nero per gli occhi), recipienti e cucchiai per il trucco e per gli unguenti, spatole, cucchiaini per pulire le orecchie, pinzette da depilazione, stuzzicadenti e altri accessori, talvolta raccolti in piccoli nécessaire, ritrovati, per esempio, a Susa. Diversi oggetti d'avorio di questo tipo rinvenuti a Ur documentano un flusso di traffici commerciali con la Siria e la Fenicia, particolarmente intenso nei periodi neobabilonese e persiano.
La prima delle cure del corpo è il lavaggio, che si poteva effettuare semplicemente con acqua, o con olio, oppure con un principio attivo detergente, la soda (NAGA), ottenuta dalle ceneri alcaline di una pianta saponaria come la Salsola kali. Il segno NAGA è, infatti, incluso con quello della mano (ŠU) nel sumerogramma che indica il bagno. Sia da una fonte hittita sia da fonti ebraiche sono documentate sostanze minerali alcaline, come il natron, per il lavaggio di alcune parti del corpo. Nella Bibbia è citato un lavaggio con soda e potassa (Geremia, 2, 22). In diversi siti sono stati ritrovati impianti sanitari, soprattutto in strutture palatine: la stanza da bagno della sala 7 del palazzo di Mari, per esempio, comprende due vasche da bagno di ceramica, installate su un pavimento lastricato e a tenuta stagna, dotate di un sistema di evacuazione delle acque utilizzate. Per quanto riguarda l'igiene dentaria è verosimile che l'usanza rituale di masticare delle piante purificatrici rifletta una pratica quotidiana. Nella concezione vicino-orientale, la pulizia, che libera dalla sporcizia, è anche garanzia di purezza; numerosi rituali comportano abluzioni che sono al tempo stesso misure di purificazione, come è documentato anche dalle fonti bibliche e talmudiche (per es., nel Levitico). Così, il termine accadico bīt rimki, che indica la stanza da bagno, è anche il nome di un rituale di purificazione eseguito dal re. Inoltre, il bagno occupa un posto importante nell'ambito della medicina, dove il suo effetto va molto al di là della semplice misura d'igiene.
L'unzione, caratterizzata dallo spalmare il corpo di olio, profumato o meno, è una pratica importante nel Vicino Oriente antico. Le razioni di olio (piššatu, termine che deriva dalla stessa radice del verbo pašāšu, 'spalmare'), essenzialmente di sesamo, insieme a quelle di lana e cereali, fanno parte delle razioni regolari ricevute dai lavoratori. Le condizioni climatiche del Vicino Oriente, infatti, rendono necessaria una protezione della pelle esposta alle aggressioni del vento e del Sole. Uno scongiuro vanta un ulteriore merito dell'unzione: "Olio puro […] olio che dà sollievo ai muscoli/tendini degli uomini" (Meier 1937, VII 36 e segg.); nella saga di Gilgamesh si rende omaggio a questa usanza poiché le è attribuita la funzione di 'rendere umano' Enkidu, amico fraterno del protagonista. L'olio è anche ampiamente utilizzato nella terapeutica. In campo religioso esisteva una categoria di sacerdoti significativamente chiamati gli "unti" (pašīšu), ed era effettuata la pratica del bagno e dell'unzione delle statue degli dèi, preferibilmente con olio aromatizzato.
L'odore ha un ruolo importante in Oriente: per quanto riguarda il cattivo odore, per esempio, nella Mesopotamia antica si credeva che potesse disturbare gli dèi, e ciò spiega forse, in parte, certi tabù alimentari che raccomandano di evitare, soprattutto nei periodi in cui si svolgono cerimonie religiose, alimenti in grado di sprigionare un odore sgradevole. Il profumo, invece, è legato alla vita e la mancanza di unzione può essere segno di lutto, come in Israele (II Samuele, 14, 2; Daniele, 10, 3). Ugualmente, quando Enkidu si reca agli Inferi, nel mondo dei morti, Gilgamesh gli consiglia di non ungersi di profumo (Gilgamesh, XII 16-17). L'olio poteva essere profumato con essenze diverse, alcune importate e assai preziose. Nel periodo paleobabilonese a Mari l'olio profumato era consegnato in piccole quantità e a uso essenzialmente del palazzo, per la cura del corpo o per cerimonie religiose. Gli oli profumati si ottenevano per macerazione, a freddo o a caldo, di diversi prodotti vegetali, in forma grezza, come il legno di mirto, cedro, bosso, cipresso, canne odorose, oppure in forma resinosa, come il kukrum: l'identificazione di numerose piante è ancora incerta (v. cap. XVIII). Alcune ricette di profumi del periodo medioassiro hanno fatto supporre l'esistenza di un processo di distillazione e documentano una tecnica che non sembra sia mutata in modo significativo fino al periodo arabo. Una gran quantità di vasi del tipo alabastra, che testimoniano l'ampia diffusione dei prodotti profumati in essi contenuti, sono stati ritrovati in tutto il Vicino Oriente e anche in tutto il bacino del Mediterraneo. Nella Palestina antica si faceva largo uso di profumo; la Bibbia e il Talmud vi fanno spesso allusione, citando anche diverse piante e sostanze, come l'aloe e la mirra, con cui si producono profumi e unguenti. "L'olio e il profumo rallegrano il cuore" (Proverbi, 27, 9); l'unzione con olio di mirra e altre sostanze aromatiche può far parte dei preparativi di bellezza delle giovani donne (Ester, 2, 12), ma anche gli uomini si spalmano barba e capelli con oli preziosi (Salmi, 133, 2 e 141, 5 e Qoelet, 9, 8).
In Mesopotamia, i capelli, paragonati talvolta a una lattuga che cresce presso l'acqua, erano lavati, unti con olio e poi pettinati con un pettine d'osso, d'avorio o di un metallo prezioso. I testi medici, attraverso le diverse prescrizioni contro la canizie, l'eccessiva sottigliezza o una caduta anormale, danno testimonianza indiretta dell'importanza attribuita alla capigliatura. Portare una parrucca poteva costituire un motivo di fascino in più, il cui scopo era forse non soltanto di natura estetica, ma anche preventiva per evitare, mediante la rasatura del cuoio capelluto e l'unzione della testa, la presenza di parassiti. Sulla testa si potevano mettere diversi ornamenti per raccogliere o adornare i capelli, ma anche per indicare il rango sociale.
Sulla pelle poteva essere applicato del trucco (mēqītu, mēqû): un inno paleobabilonese dedicato a Ishtar, dea guerriera dell'amore, la definisce "ornata di frutta [seduzione], trucco e fascino". L'uso del trucco è poco documentato nei testi, ma le testimonianze archeologiche sono numerose. Piccole conchiglie bivalve (Arcidae e Cardiidae), e anche loro imitazioni di rame, d'argento o d'oro, contenenti pigmenti cosmetici, sono state ritrovate in parecchi siti del III millennio, tra l'altro nelle tombe reali di Ur (fra cui quella della regina Pu-abi, che conteneva grandissime conchiglie, numerosi cofanetti per il trucco e nécessaire da toilette). Si era pensato inizialmente che queste conchiglie fossero caratteristiche delle tombe femminili, ma sono state ritrovate anche nella città di Kish, dove la maggioranza delle tombe è maschile, e anche in sepolture di bambini. La polvere cosmetica era in primo luogo pestata (alcuni esemplari di pestello sono stati ritrovati nel sito iraniano di Tepe Siyalk), poi era mescolata su una tavoletta con oli o unguenti. Il termine mušālu indica sia uno specchio sia una tavoletta per il trucco, talvolta di legno di bosso. Le grandi conchiglie decorate di Tridacna dell'area siro-palestinese del VII sec., potrebbero aver avuto questa funzione.
Sono state effettuate alcune analisi fisico-chimiche dei pigmenti su alcuni campioni del III millennio: in generale, il blu e il verde sono ottenuti da minerali di rame e gli altri colori principalmente dal ferro e dal manganese. I colori predominanti sono il verde (con un diluente bianco) e il nero (di composizione molto variabile); gli altri sono il bianco (idrossido di apatite, probabilmente da cenere d'osso), il blu (con o senza diluente bianco), il rosso (ematite), il giallo (ocra in toni caldi, in un caso goethite, in un altro wolframite) e il porpora (un caso, con presenza di ematite). Per quanto riguarda il trucco per il viso, i testi citano in particolare l'illūr pāni, che si era pensato fosse un trucco giallo (il termine sumerico equivalente indica, infatti, una terra gialla, IM.GUŠKIN.SIG7 : SIG7, 'giallo'), ma che bisogna piuttosto considerare rosso, dall'omonimo fiore rosso illūru. Le paste colorate hanno anche un uso rituale: con la pasta rossa šaršerru, per esempio, era spalmato il volto di una figurina.
Il trucco degli occhi riveste un'importanza particolare. Il cosmetico per gli occhi per eccellenza è il guḫlu, di cui conosciamo l'equivalente arabo, il kohl, un prodotto nero che in un primo tempo si è pensato fosse antimonio. Questa identificazione non è confermata dalle analisi fisico-chimiche che mostrano la presenza preponderante di manganese e ferro e, in un caso, di galena (PbS, solfuro di piombo). Un uso quotidiano del guḫlu doveva avere anche uno scopo medico di prevenzione. Il vocabolo, alla stregua di altri termini cosmetici come ṣadīdu e šimbizidû, è registrato nella serie farmaceutica "Uru-anna = maštakal" e una liturgia dedicata a Ninisina (altro nome di Gula, dea della medicina) riferisce che esso è stato prodotto espressamente per la dea in Elam. L'occhio riveste, d'altronde, un'importanza particolare nel Vicino Oriente e il trucco che lo ingrandisce e aumenta l'intensità dello sguardo, è strumento di seduzione e di vigilanza, capace d'ispirare persino timore. Così, anche alle statue divine si applica del trucco, che, come abbiamo già detto, non è appannaggio esclusivo delle donne. L'intenzione di sedurre è manifesta nel nome del fard di Inanna (equivalente sumerica della semitica Ishtar) nella versione sumerica della sua discesa agli Inferi: "che venga! che venga!", in parallelo con quello della sua fascia per i seni: "Uomo, vieni! vieni!". Ancora raro al tempo dei re di Israele, il trucco degli occhi è considerato dalla Mishnah un'usanza comune. Tra i rari riferimenti biblici v'è un passo che descrive Gezabele alla finestra con gli occhi truccati (II Re, 9, 30) e ancora il nome della terza figlia di Giobbe "flacone per il trucco" (Giobbe, 42, 14).
Le tappe principali dei preparativi di bellezza sono riassunte nei testi relativi al mito del matrimonio sacro (ierogamia), quando Inanna si prepara alla visita del dio pastore Dumuzi: "Ho fatto un bagno e mi sono lavata, […] mi sono strofinata con unguento […] ho truccato gli occhi con il kohl; ho reso lucenti sulla nuca i miei capelli scarmigliati". La dea, poi, si acconcia i capelli e indossa una parure di gioielli, bracciale, collana e orecchini.
Per i semplici mortali, lavarsi, profumarsi e truccarsi, così come d'altronde portare certi oggetti, quali amuleti o collane di pietre, aveva una funzione decorativa (eventualmente una parure poteva indicare il rango sociale), e al tempo stesso protettiva e preventiva, da una parte mediante le misure igieniche che erano anche di purificazione, dall'altra per l'effetto apotropaico e farmacologico attribuito ai prodotti utilizzati.
di Lucio Milano
Riprendendo un lavoro di M. Freeman sulla cucina cinese (Freeman 1977, p. 144), Jack Goody ha brillantemente riassunto le condizioni di base per la nascita e l'affermazione di tradizioni di alta cucina nelle società premoderne: (a) la disponibilità di un ampio inventario di ingredienti, locali o importati; (b) l'esistenza di una consistente élite di funzionari e di mercanti, e non soltanto di una clientela di palazzo; (c) occasioni ricorrenti per pratiche conviviali (commensalità ufficiale, ecc.); (d) un consistente e generale sviluppo dell'agricoltura e del commercio; (e) la diffusione della scrittura, che rappresenta un requisito fondamentale (Goody 1982, p. 98 e segg.). Tutte queste condizioni sono in effetti presenti nelle società urbane del Vicino Oriente almeno a partire dai primi secoli del III millennio, dove, accanto a un generale sviluppo dell'economia e a una struttura estremamente gerarchizzata dell'amministrazione, la scrittura gioca un ruolo fondamentale nella trasmissione del sapere tecnico. In Mesopotamia la redazione di lunghe liste lessicali che riguardano, tra l'altro, il repertorio conosciuto di piante, animali, prodotti e preparati alimentari (cibi e bevande) sta a dimostrare non soltanto la reperibilità di un gran numero di ingredienti, ma anche l'elaborazione sistematica dei prodotti e delle specie, che è evidentemente in rapporto con pratiche culinarie e di farmacopea.
È soltanto di recente, comunque, che la scoperta e l'edizione di vere e proprie raccolte di ricette alimentari, risalenti al periodo paleobabilonese, ha permesso di accertare l'esistenza di tradizioni culinarie formalizzate, che gettano nuova luce sulla gastronomia e sulla storia del gusto nel Vicino Oriente antico (Bottéro 1995). Tali raccolte s'inseriscono nell'ambito di una letteratura tipica del periodo, che comprende opere di carattere manualistico e normativo dedicate a vari aspetti della tecnologia (per es., la fabbricazione del vetro, dei profumi, dei coloranti, ecc.), delle quali condividono l'accuratezza descrittiva e la ricchezza lessicale. Le ricette sono ripartite fra tre testi scritti in lingua babilonese, disomogenei quanto a carattere, stile e dimensioni, ma tutti provenienti verosimilmente da uno stesso archivio e da una stessa città della Mesopotamia meridionale. I due testi più lunghi (Yale Oriental Series 11, 25 e 26) contengono rispettivamente 25 e 7 ricette; il terzo (ibidem 11, 27) solamente 3 ricette. È evidente la loro derivazione da tradizioni culinarie e manualistiche differenti, come dimostrano lo stile dei testi (che può essere formulare e stringato, oppure discorsivo e analitico) e le diverse modalità delle preparazioni per una stessa ricetta. Inoltre, in una delle raccolte (ibidem 11, 25) si ha un'esplicita suddivisione tra ricette vegetariane e ricette a base di carne (chiamate rispettivamente warqum, "verdura" e mê šīrim, "bolliti di carne"), mentre un'altra è caratterizzata da un'invocazione conclusiva alla dea della scrittura Nisaba e al suo consorte Haia (ibidem 11, 26). In quest'ultimo caso il tenore delle ricette è chiaramente didattico: il passaggio dalla prima alla seconda persona ("Io faccio questo … tu fai quello") e la simmetricità delle operazioni evocano l'atteggiamento del maestro nei confronti dell'apprendista, secondo modalità di trasmissione orale che sono tipiche di tutte le tecniche (Tav. II).
Rispetto al limitato repertorio degli alimenti di base della dieta mesopotamica, quali sono documentati fin dal III millennio dai testi di razioni per i dipendenti di templi e palazzi, gli ingredienti delle ricette paleobabilonesi sono estremamente più variati, specie per quanto riguarda le essenze aromatiche. Le razioni ‒ destinate a fornire 'massa alimentare' per la popolazione lavoratrice ‒ prevedevano infatti una distribuzione mensile di cereali (soprattutto orzo) o farina, di qualche prodotto orticolo (come cipolle e aglio), e soltanto occasionalmente di pesce e carne, laddove le ricette documentano per la sola preparazione del brodo di cottura l'impiego di circa 40 'additivi'. Tra questi vi sono prodotti liquidi e dolcificanti, come il miele, il sangue e il latte (a vari stadi di fermentazione), ma anche diversi tipi di birra e di aceto; vi è inoltre largo uso di cereali triturati o pestati e di farine miste, usate per condire o ispessire il sugo; e soprattutto di aromi, utilizzati freschi (come è il caso di numerose agliacee) oppure essiccati e ridotti in polvere (cumino, zafferano, menta, porro, crescione, cuscuta, ecc.). L'uso del sale, quasi immancabile, non è tuttavia banale: nelle ricette esso è infatti utilizzato non solamente per insaporire il sugo, ma anche per "lavorare", a più riprese, la carne: nell'atto di "frollarla", "frizionarla", "spolverarla", ecc.
La distribuzione degli 'additivi' nell'ambito dell'intero corpus delle ricette culinarie evidenzia una spiccata sensibilità gastronomica. Salvo infatti alcuni prodotti, utilizzati più comunemente (aglio, porro, cipolla, sale e coriandolo), la maggior parte di essi ha distribuzione non omogenea: si tratta cioè di additivi che servono a caratterizzare il gusto di ciascuna ricetta. Tipica, a questo fine, si rivela anche l'associazione di prodotti specifici: per esempio, la miscela di diverse agliacee, quella di sale e menta, di porro e crescione, di cipolla e coriandolo, ecc. Poiché queste associazioni si trovano anche nell'ambito della farmacopea e nei testi magici, non c'è dubbio che le preferenze e i comportamenti alimentari fossero in rapporto con determinate concezioni di tipo magico-religioso.
La tecnica culinaria, così come emerge dalle ricette, distingue accuratamente la fase della manipolazione della carne da quella della preparazione del brodo, a cui fa seguito la cottura vera e propria. La macellazione dell'animale segue procedure rigidamente formalizzate e ritualizzate, che sono comuni alla sfera e alle procedure del sacrificio (in tutte le lingue semitiche il termine che indica il 'macellare' è lo stesso di quello che indica il 'sacrificare'). Sia che si tratti di bovini, di ovini o di selvaggina (cervo, gazzella, volatili), l'animale è squartato, eviscerato, dissanguato, gli è tagliata la testa, sciacquate a più riprese le carni e, separatamente, le parti molli. Queste operazioni, per le quali esiste un vocabolario tecnico estremamente analitico, derivano da una tradizione consolidata, che è documentata anche da manuali specifici sulle procedure sacrificali. Dopo la preparazione del sugo ‒ a base di acqua, grasso animale e aromi ‒ la carne è bollita in pentola, spesso dopo una fase di precottura effettuata in un calderone (pressoché senza liquido) per agevolare la sgrassatura e la nettatura delle superfici. La carne può essere più volte "prosciugata" e "annaffiata" nel condimento, che prevede aggiunta di liquido (acqua, latte, birra). Dosi e tempi di cottura sono raramente suggeriti, e per lo più sono a discrezione del cuoco. La presentazione del piatto ‒ riassunta nel caso delle carni dalla rubrica "da servire al coltello" (meḫer naglabi, alla lettera "di fronte al coltello") ‒ è parte integrante della ricetta: il piatto è generalmente presentato ai convitati con il sugo a parte e decorato con sformati di pasta semiliquidi o crostati.
La maturità di una scienza culinaria capace di fare del gusto e dell'estetica uno strumento di identità culturale (è significativo, per es., che tra le ricette ve ne siano 'di stile assiro' o 'di stile elamita') si evidenzia anche attraverso la capacità di mettere in ridicolo il proprio orizzonte gastronomico. È questo il caso di un'operetta di tradizione scolastica, pervenutaci in copie neoassire, nella quale un buffone di corte prende di mira le ricette di un esorcista, cimentandosi in una menologia a sfondo gastronomico, che suona nel modo che segue:
In ottobre, qual è il tuo menù? Pranzerai con porri in olio rancido e porridge di spennature d'oca. In novembre qual è il tuo menù? Pranzerai con erbacce in [salsa di] rape e detersivo vegetale in polvere di assafetida. In dicembre qual è il tuo menù? Pranzerai con letame di mulo in aglio amaro e pula di farro in latte acido. In gennaio qual è il tuo menù? Pranzerai con uova d'oca di letamaio, affogate nella sabbia, e con cumino infuso in acque dell'Eufrate, [in salsa di] burro. In febbraio qual è il tuo menù? Pane ancora caldo [e] il deretano di un asino infarcirai con escrementi di cane ed escrementi di mosca e [ci] pranzerai. (Foster 1993, pp. 825-826)
Queste ricette burlesche, che s'ispirano agli intrugli dell'esorcista e al tempo stesso agl'ingredienti delle ricette alimentari, configurano appunto una 'cucina rovesciata', un consapevole ribaltamento in negativo delle regole gastronomiche fissate dalla tradizione scribale.
La scoperta di un'alta cucina babilonese, le cui radici potrebbero essere rintracciate già in età sumerica ‒ basta pensare alla varietà delle ricette per la birra attestate fin dalla metà del III millennio ‒ getta nuova luce su un'ampia documentazione di registrazioni contabili che riguardano i prodotti serviti in occasione di banchetti o pasti ufficiali. Per fare il solo caso dei testi di Mari (XVIII sec. ca.), le centinaia di menù per la "tavola del re", che distinguono tra prodotti aromatici e vegetali e parti di animali macellati, dimostrano che nelle cucine del palazzo il lavoro era specializzato secondo le regole descritte nei manuali di ricette: preparazione della carne e preparazione del brodo erano probabilmente affidati a settori diversi del personale, che erano riforniti separatamente, ma in funzione di uno stesso pasto.
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