Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La registrazione di avvenimenti su nastro magnetico, filtrata dal tubo catodico e trasmessa su monitor costituisce la base della videoarte. Negli anni Sessanta l’uso della telecamera si diffonde in ambiti ristretti e sperimentali, come strumento con cui confrontarsi, ancora rudimentale e ingombrante, ma occasione di sperimentazione con l’immagine in movimento. Gli esordi del video si differenziano dallo specifico cinematografico per l’assenza del montaggio e la consequenzialità della ripresa, e come tali ostentano spesso una forzata non manipolazione spazio-temporale del materiale. L’integrazione dell’immagine filmata è ormai parte costante di molte pratiche artistiche contemporanee.
Visioni e televisioni
La possibilità dei media elettronici di “registrare” la quotidianità su una pellicola rappresenta un’innovazione stupefacente, insieme alla capacità di unire l’immagine al sonoro in una dimensione immateriale, che spesso ha un grande effetto di coinvolgimento dello spettatore.
La ricerca di Wolf Vostell, Nam June Paik e gli artisti che confluiranno nel gruppo internazionale Fluxus nasce dall’opposizione alla televisione come mezzo di divulgazione, di manipolazione collettiva e di sopraffazione ideologica. Il conflitto con la televisione – e con il potere di omologazione delle informazioni trasmesse – si trasforma in una presa di posizione verso il sistema dell’arte. L’interesse di questi artisti si concentra sul medium di massa per scardinarne la forza, annullandola dall’interno. Le prime sperimentazioni con il video avvengono nell’ambito di Fluxus, che nasce nel 1962 per iniziativa George Maciunas, nel tentativo di sovvertire l’istituzionalità elitaria dei circuiti dell’arte. Le manifestazioni del gruppo consistono in happening e azioni musicali con una successione sgrammaticata di gesti banali prelevati dal quotidiano in un fluire energetico, animati dall’idea che “ [...] l’arte deve essere divertente e occuparsi di cose insignificanti, perché tutto è arte e tutti possono fare gli artisti”.
Il coreano Nam June Paik, considerato il padre fondatore della videoarte, è tra i primi a sondare le possibilità dei nuovi media elettronici ed esordisce come performer e compositore d’avanguardia. Propone dapprima delle installazioni spazialmente articolate, che utilizzano l’immagine televisiva ma la trasformano in una sequenza di forme mutanti. L’artista decostruisce l’idea statica della tv-utensile: prelevandola dal suo contesto abituale, la destruttura fino a renderla parte di una complessa videoinstallazione, un artificio tridimensionale che fonde immagini, suoni, televisori, pianoforti e oggetti vari, all’interno dell’opera. Con l’aiuto di grosse calamite poste all’altezza del tubo catodico, crea delle distorsioni visive che trasformano le immagini figurative dei programmi trasmessi in forme astratte, modificandone il circuito orizzontale e verticale che le rende riconoscibili. Nel 1963 presenta alle Gallerie Parnasse di Wuppertal 13 TV: 13 distorted TV sets, 13 monitor disposti nello spazio che generano sequenze sintetiche, distorte. Forme vibranti di luce prodotte dalle frequenze elettroniche alterate da un magnete. La televisione, simbolo di una tecnologia in via di perfezionamento, dalle potenzialità massificatrici, diventa per l’artista coreano un unico e scarno tassello per ricostruire una nuova visione della realtà, sospesa tra radicalità tecnologica, spiritualità Zen e un avanguardistica logica del caso.
Filmare il tempo
L’anno successivo venne immessa sul mercato la prima telecamera portatile e Paik realizza lunghe riprese amatoriali di esterni, passaggi ininterrotti che scorrono fuori dal finestrino di un taxi, percorrendo, in un flusso visivo indifferenziato, tutta la penisola di Manhattan.
Sono le prime riflessioni sulla temporalità, la scansione automatica degli istanti durante il filmato e la possibilità del movimento percepiti in un fluire continuo senza scarti. Questo rende il video, almeno all’inizio, uno strumento anarchico e indipendente dalla volontà dell’artista.
Il tedesco Wolf Vostell, altro pioniere, nel 1959, in Tv Dé/coll/age, utilizza il linguaggio televisivo per scopi anticonsumistici, minacciandone la funzionalità e contestando la massificazione del pensiero e la nascente omologazione della pubblicità commerciale. L’artista smaschera le contraddizioni della società capitalistica imponendo di compiere delle azioni spiazzanti, del tipo: “sedetevi vicinissimi allo schermo e lavatevi i denti” oppure “correte e strisciate nella vostra stanza. Ripetete tutto ciò che viene detto in televisione”. Il suo lavoro si intreccia con la politica e la denuncia sociale; sono operazioni rivolte contro il potere mediale che si traducono in complesse installazioni: l’oggetto-televisore viene così sepolto, distrutto e privato di energia.
La sperimentazione elettronica sempre più sofisticata di Paik, la protesta insita nelle azioni di Vostell e l’ascolto del ‘silenzio’ di John Cage, altro artista/musicista vicino a Fluxus, segnano un radicale cambiamento di visione.
Anche l’americano Bruce Nauman (1941-), nella sua multiforme attività, ha utilizzato il video per registrare azioni ripetitive in tempo reale. In Holograms. Making faces del 1968 si filma mentre compie gesti banali per un tempo prolungato, imponendo al corpo estenuanti manipolazioni. Per tutta la durata del nastro, Nauman sottopone il suo volto a tensioni epidermiche che generano smorfie, deformazioni quasi animali, contrazioni della mimica facciale. In altri lavori ha utilizzato telecamere e dispositivi di sorveglianza per trasmettere nel pubblico un’atmosfera ansiogena. Il disagio di essere spiati si sviluppa attraversando le videoinstallazioni della serie Corridors, realizzate tra il 1968-1970: l’artista fissa un sistema di telecamere a circuito chiuso alle estremità di un angusto corridoio: durante i transiti, all’interno della struttura, lo spettatore disorientato si osserva nel monitor in direzione opposta, e mentre avanza verso lo schermo vede se stesso allontanarsi.
Nel 1969 il gallerista Gerry Schum apre a Düsseldorf uno spazio dedicato alle pratiche del video, alla produzione e alla distribuzione dei lavori. In questo contesto si sviluppano le prime esperienze processuali e di intervento sul territorio, trasmesse da un canale della televisione tedesca. Il video come mezzo di registrazione è impiegato in azioni destinate a scomparire: le operazioni di land art avvengono nello spazio esterno attraverso procedimenti imponenti ma effimeri, destinati a non durare, a sparire nel tempo. I progetti, le fotografie e i videotape, della preparazione e poi dell’esecuzione dell’opera, sono le uniche testimonianze che restano del lavoro.
In Italia la prima rassegna istituzionale dedicata al video Gennaio 70. Comportamenti Progetti Mediazioni si svolge alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, a cura di Renato Barilli, Maurizio Calvesi e Tommaso Trini, e presenta i filmati delle azioni degli artisti poveristi e concettuali, concepite per essere registrare su nastro magnetico e trasmesse su monitor.
Nelle ricerche degli esordi la componente ideologica è molto forte: artisti e attivisti assumono il mezzo come strumento di controinformazione, di disturbo mediatico, senza porsi – come accadrà nel decennio successivo – alcuna finalità estetica. Insieme al suo indispensabile apporto documentario, il video diventa opera d’arte per la forza delle immagini impressionate sulla pellicola. Un’indipendenza che andrà sempre più consolidandosi nel tempo tanto da divenire, già degli anni Novanta, una modalità di espressione concettualmente autonoma.