Vedi Vietnam dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il secolo scorso ha visto il Vietnam nel punto di confluenza di due dinamiche globali: quella della decolonizzazione, da un lato, e quella della guerra fredda, dall’altro. Alle istanze nazionaliste dei popoli un tempo sotto dominio coloniale si è andato rapidamente sovrapponendo il crescente conflitto politico e ideologico tra i due blocchi internazionali, di matrice statunitense e sovietica.
Nel 1945 il movimento indipendentista Viet Minh, costituitosi nel 1941 in funzione anticoloniale e guidato dal leader nazionalista e comunista Ho Chi-minh, proclamò l’indipendenza dalla Francia e diede avvio alla guerriglia. La reazione del governo e dell’esercito francesi, che intendevano mantenere l’influenza di Parigi nella regione, portò a un inasprimento dello scontro che condusse alla suddivisione del paese in due stati di fatto, separati e indipendenti, sebbene alquanto fragili. La débacle militare francese, culminata nel 1954 con la sconfitta di Dien Bien Phu, portò poi agli Accordi di Ginevra e al graduale quanto irreversibile disimpegno dell’ex potenza coloniale, che lasciò il Vietnam diviso, all’altezza del 17° parallelo, tra un nord comunista e un sud legato agli occidentali.
Sin dal 1950, inoltre, gli Stati Uniti da una parte, la Cina e l’Unione Sovietica dall’altra avevano cominciato a impegnarsi direttamente nel conflitto, internazionalizzandolo. Gli Usa aumentarono gli aiuti finanziari e la presenza di consiglieri militari nel Vietnam del Sud. Cina e Urss fornirono armi e supporto logistico al Nord. Nel decennio successivo agli Accordi di Ginevra, il fallimento della riconciliazione e i timori statunitensi di un ‘contagio’ comunista nell’intero Sud-Est asiatico condussero al crescente impegno militare di Washington, per reprimere l’insurrezione armata nel Sud dei Viet Cong, collegati ai comunisti del Nord. L’escalation sfociò nel 1964 in una vera e propria guerra che, al suo apice, coinvolse circa mezzo milione di soldati americani. La campagna vietnamita si rivelò tragica e fallimentare per le forze statunitensi che subirono pesanti perdite da parte dei guerriglieri e dovettero fronteggiare anche in patria un’opinione pubblica sempre più ostile alla guerra. Nel 1973 furono così siglati a Parigi gli accordi di pace e nel 1975 venne completato il ritiro delle truppe.
Malgrado gli accordi prevedessero la conferma dello status quo della divisione del Vietnam in due stati, il Nord invase il Sud e riuscì a sottometterlo rapidamente, completando la riunificazione del paese e inaugurando il dominio da parte del Partito comunista, a tutt’oggi al potere quale partito unico. Il complesso scenario indocinese, con alleanze incrociate (il Vietnam con l’Unione Sovietica,
la Cambogia con la Cina) sfociò nel 1979 nell’invasione della Cambogia da parte delle forze vietnamite. L’occupazione durò dieci anni. La conseguente definitiva rottura dei rapporti con Pechino provocò un’improvvisa invasione da parte cinese e continui scontri di frontiera durante tutto il corso degli anni Ottanta. Ciò tuttavia non ha modificato i confini tra i due paesi.
Con il termine della Guerra fredda, al nuovo assetto politico mondiale è corrisposto un cambio di rotta nella strategia del Vietnam. Il paese si è orientato verso una graduale apertura, tanto timida dal punto di vista politico quanto accentuata sul piano economico. La nuova costituzione, adottata nel 1992, è l’espressione concreta di tale cambiamento. La retorica rivoluzionaria della precedente legge fondamentale è stata espunta dai nuovi articoli e l’economia statalista si è aperta al mercato globale, pur non senza contraddizioni e nel tentativo di rispettare l’ideologia socialista. Del resto, pur attuando una separazione dei poteri, il Partito comunista ha mantenuto un ruolo chiave esercitato tramite il Politburo, organo collegiale ristretto composto da 14 membri eletti al Congresso del partito nazionale. L’Assemblea dopo le ultime elezioni del maggio 2011 conta solo 42 eletti, estranei al partito, su 500 membri. Tuttavia gli ultimi anni mostrano che il legislativo sta assumendo un ruolo crescente. Nel corso dell’11° Congresso del Partito nel 2011 Tru’o’ng Tấn Sang, leader dell’ala conservatrice, ha ottenuto la presidenza, ma gli osservatori internazionali hanno accolto la nomina senza inquietudine perché Sang ha dimostrato la volontà di procedere pragmaticamente con le riforme economiche. All’interno dell’ala conservatrice esiste però una frangia che propugna una linea dura incentrata sulla ‘self evolution’ invece della ‘peaceful evolution’, ed è quest’ala a destare qualche preoccupazione tra gli alleati di Hanoi, Washington in primis. Anche sul piano diplomatico e internazionale la Repubblica socialista del Vietnam ha avviato, dunque, un processo di cambiamento, lento ma radicale. Nel 1995 il Vietnam aveva spezzato l’isolamento regionale in cui versava entrando a far parte dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) e nel 2007, dopo 12 anni di negoziati, è stato ammesso all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Importante è inoltre la distensione verificatasi tra Vietnam e Stati Uniti: nel 1994 questi ultimi ritirarono l’embargo che per trent’anni aveva soffocato l’economia vietnamita e nel 1995 riallacciarono i rapporti diplomatici. Nel 2008 i due paesi hanno dato l’avvio a esercitazioni militari congiunte nel Mar Cinese meridionale. Dopo la visita del segretario di stato statunitense Hillary Clinton nel 2010, l’anno seguente Vietnam e Stati Uniti hanno firmato il primo accordo militare per facilitare gli scambi nel settore medico. La partecipazione del Vietnam ai negoziati della Trans Pacific Partnership a guida statunitense è un altro indicatore che il paese si sta rivelando l’alleato più solido di Washington nella regione del Mekong. I rapporti con la Cina sono invece orientati da una visione pragmatica sul piano economico e dal tentativo di entrambe le parti di superare la storica diffidenza. Oltre alla storia, fonte di tensione tra Hanoi e Pechino è, tuttavia, la disputa territoriale sulle Isole Spratly e le Paracel, rivendicate da entrambi: si tratta di isole strategiche sia perché poste lungo un’importante rotta marittima, sia perché si suppone che custodiscano preziosi giacimenti di petrolio e gas. L’affinità ideologica e le comuni vedute politiche tra Vietnam e Russia
hanno invece perso oggi la loro ragion d’essere, con la dissoluzione dell’Urss e con la fine del sistema bipolare. Tuttavia, Mosca continua a giocare un ruolo importante per lo sviluppo della difesa vietnamita.
Il paese ha recentemente raggiunto i 90 milioni di abitanti, più della metà dei quali è nata dopo la fine della guerra contro gli Stati Uniti. Il 68% della popolazione vive in aree rurali, mentre più di un terzo del restante 32% si concentra nella capitale Hanoi, nel Nord del paese, o a Ho Chi Minh City, nel Sud. Sotto il profilo etnico, la popolazione è decisamente omogenea: l’86% degli abitanti del paese è di etnia Viet, mentre nessuna minoranza supera il 2%.
Gli indici di alfabetizzazione, istruzione e sanità tracciano un quadro sociale relativamente avanzato rispetto al contesto regionale, ma la situazione sul piano dei diritti politici e civili, delle libertà e dell’informazione è quella tipica di un paese autoritario. La repubblica socialista è considerata da Freedom House un paese non libero, controllato a maglie strette dal partito unico. I media non possono esprimere opinioni critiche nei confronti del regime, né accusare esponenti politici di malgoverno, corruzione o atti illeciti. Quando ciò avviene, i giornalisti e i blogger rischiano l’arresto. Ciononostante, data la bassa età media, nello scorso decennio in Vietnam si è verificato un formidabile boom nell’utilizzo di Internet, con un aumento degli utenti di 12.000 volte.
L’economia vietnamita poggia sul concetto di ‘socialismo orientato al mercato’, ovvero sull’idea di mantenere un forte controllo statale, pur aprendosi alla competizione internazionale. Tale politica economica, chiamata Doi Moi e adottata nel 1986, è stata perseguita nell’arco dei vent’anni successivi, portando a una sensazionale espansione del settore privato (il 96% del fatturato delle imprese oggi attive proviene da aziende private) e a una graduale crescita delle reti commerciali (grazie all’ingresso nell’Asean e nel Wto). Dal 1990 a oggi il paese ha fatto registrare una significativa crescita del PIL, una contrazione della percentuale della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà (dal 58% del 1993 al 14% del 2010) e un accrescimento dei livelli occupazionali.
A rendere più dinamica l’economia nazionale hanno contribuito anche le rimesse dei lavoratori vietnamiti all’estero e il sostegno dei paesi donatori. Tuttavia, il miglioramento complessivo dell’economia vietnamita, che è valso l’inserimento nelle cosiddette ‘Next eleven economies’, potrebbe indurre le istituzioni internazionali a ridurre, negli anni a venire, i crediti agevolati e le donazioni.
Nuovo impulso alla crescita economica è stato fornito anche dall’apertura agli investimenti esteri, in particolar modo dal 2006 e poi ancora dal 2009, quando alle imprese straniere è stato permesso di aprire punti vendita al dettaglio e all’ingrosso nel settore della distribuzione, con una partecipazione finanziaria totale.
Forte di tali risultati, ma preoccupato per gli alti tassi d’inflazione, il governo vietnamita ha fissato l’obiettivo di industrializzare l’intero paese entro il 2020, puntando così sul settore che a oggi contribuisce per il 39,9% al pil nazionale. Il settore primario, invece, concorre per il 21,3% del pil ed è costituito per la quasi totalità dalla coltivazione di riso e caffè, di cui il Vietnam è rispettivamente tra i primi due esportatori al mondo. Eccezion fatta per gli Stati Uniti, principale partner per le esportazioni per un valore di 22,4 miliardi di dollari nel 2012, il maggior mercato per le esportazioni è quello asiatico, con Cina, Corea del Sud e Giappone tra i migliori partner. Il Vietnam è membro dei principali trattati commerciali regionali e fa parte della Trans Pacific Partnership a guida statunitense, dalla quale è significativamente esclusa la Cina. Sta inoltre negoziando un trattato di libero scambio con l’Unione Europea. Per incrementare lo sviluppo economico occorre ora incrementare lo sviluppo della rete ferroviaria, relativamente trascurata negli ultimi anni ma vitale per alleggerire la congestione del traffico, e ridurre le imprese statali, che a oggi sono ancora oltre 3000.
In ultima istanza meritano attenzione i settori energetico e minerario, che si stima rivestiranno un ruolo strategico di primo piano. Il Vietnam copre il suo fabbisogno energetico grazie a centrali idroelettrici, a gas e termiche alimentate da carbone e da petrolio e, nonostante la richiesta di elettricità sia in costante aumento, il paese registra ancora un utile per le esportazioni. Sul territorio vietnamita sono dislocate riserve di gas per una produzione pari a 60 miliardi di metri cubi (ma si stima che il livello possa essere anche triplo), riserve petrolifere per 3,4 miliardi di barili, il cui valore economico potrà aumentare con la costruzione di nuove raffinerie, e riserve di antracite per 3,8 miliardi di tonnellate. Infine il paese può contare anche su significative risorse minerarie di ferro e di bauxite.
Il Vietnam continua a sostenere un considerevole sforzo militare, in termini sia economici che umani. La mancanza di un ampio consenso popolare e la presenza ingombrante della vicina potenza cinese, con la quale è in corso la già citata disputa per le Isole Spratly e Paracel, hanno indotto il regime a mantenere una spesa militare pari al 2,2% del pil (si tratta però di una stima, in quanto i valori effettivi sono un segreto di stato) che ha portato ad un incremento dell’82% tra il 2002 e il 2011. Il paese impiega nelle forze armate ben 482.000 soldati e 40.000 paramilitari e dispone, in caso di necessità, di 5 milioni di riservisti, inquadrati nelle forze del popolo di autodifesa per le zone urbane e nella milizia del popolo per le zone rurali. L’esercito vietnamita risulta così il quarto più grande al mondo, dopo quelli della Russia e delle due Coree. Con il confluire degli interessi di potenze straniere nel Mar Cinese meridionale, le cui acque hanno acquisito un particolare valore strategico sul piano energetico e della sicurezza, l’élite militare ha impostato negli ultimi anni una serie di accordi internazionali per migliorare la marina, costituita da 40.000 soldati. In tal senso, il Vietnam ha stretto accordi con Stati Uniti e India. Quest’ultima, nel 2010, ha acconsentito a fornire
tecnologia per equipaggiare le basi navali vietnamite e ha accettato di avviare operazioni militari congiunte in zone montuose e nella giungla. Gli Stati Uniti, invece, che nel corso degli anni 2000 hanno aiutato il paese a disinnescare le mine disseminate durante la guerra e a trovare una soluzione per ridurre gli effetti nocivi dell’Agente Arancio (erbicida utilizzato dagli statunitensi per stanare i Viet Cong negli anni Sessanta), svolgono dal 2007 esercitazioni navali comuni, nell’ambito degli accordi bilaterali che gli Usa hanno siglato con diversi paesi della regione.
Nel 2005 Goldman Sachs ha coniato l’espressione ‘Next eleven economies’ per definire un gruppo di 11 paesi destinati ad affermarsi nel 21° secolo come le più importanti economie del mondo. La banca statunitense ritiene che dopo l’ascesa dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) sarà la volta di Vietnam, Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Corea del Sud e Messico. Tuttavia solo questi ultimi due paesi, a detta degli esperti della Goldman Sachs, hanno le potenzialità per assumere, a livello economico, un ruolo di leadership globale paragonabile a quello dei BRIC. I parametri per definire le N-11, eterogenee per assetto politico, sociale ed economico, sono l’apertura al commercio e agli investimenti esteri, la stabilità macroeconomica, la maturità politica e la qualità del sistema educativo. Dal 1990 a oggi il Vietnam, paese tra i più poveri delle ‘Next eleven economies’, ha compiuto sostanziali miglioramenti nei settori monitorati dalla Goldman Sachs; si stima che nel prossimo decennio avrà la crescita di PIL pro capite più alta, e che nel 2025 sarà la diciassettesima potenza economica al mondo dopo l’Iran e prima del Pakistan.