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Il Vietnam è un paese del sud-est asiatico dalla storia secolare, ma che ha raggiunto la piena indipendenza soltanto dopo la Seconda guerra mondiale, al termine di complesse vicende che lo hanno visto situarsi nel punto di confluenza di due dinamiche globali: quella della decolonizzazione, da un lato, e quella della Guerra fredda dall’altro. Alle istanze nazionaliste dei popoli un tempo sotto dominio coloniale si è andato infatti rapidamente sovrapponendo il crescente conflitto politico e ideologico tra i due blocchi internazionali.
Nel 1945 il movimento indipendentista Việt Minh, costituitosi nel 1941 in funzione anticoloniale e guidato dal leader nazionalista e comunista Ho Chi-minh, proclamò l’indipendenza del paese dalla Francia e diede avvio ad attività di guerriglia. La reazione del governo e dell’esercito francesi, impegnati a mantenere il più possibile l’influenza di Parigi nella regione, portò a un inasprimento dello scontro che condusse alla suddivisione del paese in due stati di fatto separati e indipendenti, sebbene alquanto fragili. La débacle militare francese, culminata nel 1954 con la sconfitta di Dien Bien Phu, portò quindi agli Accordi di Ginevra e al graduale quanto irreversibile disimpegno dell’ex potenza coloniale, che lascerà il Vietnam diviso, all’altezza del 17° parallelo, tra un Nord comunista e un Sud vicino agli occidentali.
Sin dal 1950, inoltre, gli Stati Uniti da una parte, la Cina e l’Unione Sovietica dall’altra avevano cominciato a impegnarsi direttamente nel conflitto, internazionalizzandolo: i primi aumentando gli aiuti finanziari e la presenza di consiglieri militari nel Vietnam del Sud; i secondi fornendo direttamente armi e supporto logistico al Nord. Nel decennio successivo agli Accordi di Ginevra, il fallimento della riconciliazione in essi prevista e i timori statunitensi di un contagio comunista nell’intero sud-est asiatico (‘effetto domino’) furono alla radice del crescente impegno militare di Washington, volto a contrastare l’insurrezione armata nel Sud dei Viet Cong, collegati ai comunisti del Nord. L’escalation americana sfociò nel 1964 in una vera e propria guerra che, al suo apice, vide coinvolto circa mezzo milione di soldati americani. La campagna vietnamita si rivelò tragica e fallimentare per le forze statunitensi che, dopo aver subito pesanti perdite a causa della guerriglia e trovando in patria un’opinione pubblica sempre più ostile alla guerra, nel 1973 siglarono a Parigi gli accordi di pace e nel 1975 completarono il ritiro delle proprie forze dal paese.
Malgrado gli accordi prevedessero la conferma dello status quo della divisione del Vietnam in due stati, il Nord invase e rapidamente riuscì a sconfiggere il Sud, completando la riunificazione del paese e inaugurando un lungo periodo di dominio da parte del Partito comunista, a tutt’oggi al potere quale partito unico. Il complesso scenario indocinese, con alleanze incrociate nell’area (il Vietnam con l’Unione Sovietica, la Cambogia con la Cina) sfociò nel 1979 nell’invasione della Cambogia da parte delle forze vietnamite, che la occuparono per dieci anni. La conseguente definitiva rottura dei rapporti con Pechino diede adito a una rapida guerra e a continui scontri di frontiera durante tutto il corso degli anni Ottanta, che tuttavia non mutarono i confini territoriali tra i due paesi.
Con il termine della Guerra fredda, al nuovo assetto politico mondiale è corrisposto un cambio di rotta delle direttrici strategiche del Vietnam. Il paese si è orientato infatti verso una graduale apertura, tanto timida dal punto di vista politico quanto accentuata sul piano economico. La nuova Costituzione, adottata nel 1992, è l’espressione concreta di tale cambiamento. La retorica rivoluzionaria della precedente Carta è stata espunta dai nuovi articoli costituzionali e l’economia statalista si è aperta al mercato globale, pur non senza contraddizioni e tentando di rispettare l’ideologia socialista. Del resto, pur attuando una separazione dei poteri, il Partito comunista ha mantenuto un ruolo chiave esercitato tramite il Politburo, organo collegiale ristretto composto da 14 membri eletti al Congresso del partito nazionale: è sufficiente osservare la composizione dell’Assemblea, che dopo le ultime elezioni del maggio 2011 conta solo 42 eletti, estranei al Partito, su 500 membri. Tuttavia gli ultimi anni mostrano che il legislativo sta assumendo un ruolo via via crescente. Nel corso dell’11° Congresso del Partito nel 2011 Trương Tấn Sang, leader dell’ala conservatrice, ha ottenuto la presidenza, ma gli osservatori internazionali hanno accolto la nomina senza preoccupazioni perché, seppur conservatore sul piano politico, Sang ha dimostrato la volontà di procedere pragmaticamente con le riforme economiche. All’interno dell’ala conservatrice esiste però una frangia che propugna una linea dura incentrata sulla ‘self evolution’ invece della ‘peaceful evolution’, ed è questa a preoccupare gli alleati di Hanoi, Washington in primis. Anche sul piano diplomatico e internazionale la Repubblica Socialista del Vietnam ha avviato, dunque, un processo di cambiamento, lento ma radicale. Nel 1995 il Vietnam aveva spezzato l’isolamento regionale in cui versava entrando a far parte dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean) e nel 2007, dopo 12 anni di negoziati, è stato ammesso all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Importante è inoltre la distensione verificatasi tra Vietnam e Stati Uniti: nel 1994 questi ultimi ritirarono l’embargo che per trent’anni aveva gravato sull’economia vietnamita e nel 1995 riallacciarono i rapporti diplomatici; nel 2008 i due paesi hanno dato l’avvio a esercitazioni militari congiunte nel Mar Cinese Meridionale. Dopo la visita del segretario di stato statunitense Hillary Clinton nel 2010, l’anno seguente Vietnam e Stati Uniti hanno firmato il primo accordo militare dalla conclusione della guerra per facilitare gli scambi nel settore medico.
L’affinità ideologica e le comuni vedute politiche tra Vietnam e Unione Sovietica hanno invece perso oggi la loro ragion d’essere, con la dissoluzione di quest’ultima e con la fine del sistema bipolare. Tuttavia, Mosca continua a giocare un ruolo importante per lo sviluppo del comparto della difesa vietnamita. Viceversa, la Cina è tornata recentemente a essere un importante alleato della Repubblica Socialista del Vietnam, la quale ha dimostrato la propria intenzione di mantenere aperti parallelamente due binari diplomatici: uno verso gli Stati Uniti e l’altro verso la potenza asiatica. Fonte di tensione tra Hanoi e Pechino è, tuttavia, la disputa territoriale sulle Isole Spratly e le Paracel, rivendicate da entrambi e divenute strategiche a causa della loro collocazione lungo un’importante rotta marittima, nonché per la presenza di giacimenti di petrolio e gas che potrebbero trovarsi nel loro sottosuolo e nei fondali adiacenti.
Il paese conta quasi 88 milioni di abitanti, più della metà dei quali è nata dopo la fine della guerra contro gli Stati Uniti. Il 72% della popolazione vive in aree rurali, mentre più di un terzo del restante 28% si concentra nella capitale Hanoi, nel nord del paese, o a Ho Chi Minh City, nel sud. Sotto il profilo etnico, la popolazione è decisamente omogenea: l’86% degli abitanti del paese è di etnia Viet, mentre nessuna minoranza supera il 2%.
Nonostante gli indici di alfabetizzazione, istruzione e sanità dipingano un quadro sociale relativamente avanzato rispetto al contesto regionale, la situazione effettiva in cui versa la popolazione sul piano dei diritti politici e civili, delle libertà e dell’informazione è quella tipica di un paese autoritario. La Repubblica Socialista, infatti, è considerata da Freedom House un paese non libero, controllato a maglie strette dal partito unico. I media (11 quotidiani e circa 50 stazioni televisive provinciali) non possono esprimere opinioni critiche nei confronti del regime, né accusare esponenti politici di malgoverno, corruzione o atti illeciti. Quando ciò avviene, i giornalisti e i blogger rischiano l’arresto. Lo stato non garantisce i diritti essenziali nemmeno alle minoranze etniche e religiose.
Nel corso dei decenni passati, inoltre, gli strascichi dei conflitti che hanno visto coinvolto il paese hanno indotto circa 340.000 vietnamiti ad abbandonarlo, dei quali circa 300.000 risiedono oggi in Cina.
L’economia vietnamita poggia le propria fondamenta sul concetto di ‘socialismo orientato al mercato’, ovvero sull’idea di mantenere un forte controllo statale, pur aprendosi alla competizione internazionale. Tale politica economica, chiamata Doi Moi e adottata nel 1986, è stata perseguita nell’arco dei vent’anni successivi, portando a una sensazionale espansione del settore privato (il 96% del fatturato delle imprese oggi attive nel paese proviene da aziende private) e a una graduale crescita delle reti commerciali (grazie all’ingresso nell’Asean e nel Wto). Dal 1990 ad oggi il paese ha fatto registrare una significativa crescita del pil, una contrazione della percentuale della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà (dal 58% del 1993 al 14% del 2010) e un accrescimento dei livelli occupazionali.
A rendere più dinamica l’economia nazionale hanno contribuito anche le rimesse dei lavoratori vietnamiti all’estero e il sostegno dei paesi donatori. Tuttavia, il miglioramento complessivo dell’economia vietnamita, che è valso al paese l’inserimento nelle cosiddette Next eleven economies, potrebbe indurre le istituzioni internazionali a ridurre, negli anni a venire, i crediti agevolati e le donazioni.
Nuovo impulso alla crescita economica è stato fornito anche dall’apertura agli investimenti esteri, in particolar modo dal 2006 e poi ancora dal 2009, quando alle imprese estere è stato permesso di aprire punti vendita al dettaglio e all’ingrosso nel settore della distribuzione, con una partecipazione finanziaria totale.
Forte di tali risultati, ma preoccupato per gli alti tassi d’inflazione, il governo vietnamita ha fissato l’obiettivo di industrializzare l’intero paese entro il 2020, puntando così sul settore che ad oggi contribuisce per il 40,6% al pil nazionale. Il settore primario, invece, concorre per il solo 19,7% del pil ed è costituito per la quasi totalità dalla coltivazione di riso e caffè, di cui il Vietnam è rispettivamente il secondo ed il primo esportatore al mondo – nei primi dieci mesi del 2012 il Vietnam è infatti riuscito a superare il tradizionale primato brasiliano. Eccezion fatta per gli Stati Uniti, principale partner per le esportazioni per un valore di 17,4 miliardi di dollari nel 2010, il maggior mercato per le esportazioni vietnamite è quello asiatico, con Cina, Giappone e Corea del Sud tra i migliori partner commerciali. Il Vietnam è membro dei principali trattati commerciali regionali e fa parte della Trans Pacific Partnership a guida statunitense, dalla quale è significativamente esclusa la Cina. Le priorità attuali per incrementare lo sviluppo economico consistono nello sviluppo della rete ferroviaria, relativamente trascurata negli ultimi anni ma vitale per alleggerire la congestione del traffico, e nella riduzione delle imprese statali, che ad oggi sono ancora oltre 3000.
In ultima istanza meritano attenzione i settori energetico e minerario, che si stima rivestiranno un ruolo strategico di primo piano. Il Vietnam copre il suo fabbisogno energetico grazie a siti idroelettrici, gassiferi e a centrali termiche alimentate da carbone e da petrolio e, nonostante la richiesta di elettricità sia in costante aumento, il paese registra ancora un utile per le esportazioni. Sul territorio vietnamita sono infatti dislocate riserve di gas per una produzione pari a 60 miliardi di metri cubi (ma si stima che il livello possa essere anche triplo), riserve petrolifere per 3,4 miliardi di barili, il cui valore economico potrà aumentare con la costruzione di nuove raffinerie, e riserve di antracite per 3,8 miliardi di tonnellate. Infine il paese può contare anche su significative risorse minerarie di ferro e di bauxite.
Il Vietnam continua a sostenere un considerevole sforzo militare, in termini sia economici che umani. La mancanza di un ampio consenso popolare e la presenza ingombrante della vicina potenza cinese, con la quale è in corso la già citata disputa per le Isole Spratly e Paracel, hanno indotto il regime vietnamita a mantenere una spesa militare pari al 2,2% del pil statale (si tratta però di una stima, in quanto i valori effettivi sono segreto di stato) che ha portato ad un incremento dell’82% tra il 2002 e il 2011. Il paese impiega nelle forze armate ben 482.000 soldati e 40.000 paramilitari e dispone, in caso di necessità, di 5 milioni di riservisti, inquadrati nelle Forze del popolo di autodifesa per le zone urbane, e nella Milizia del popolo per le zone rurali. L’esercito, con comandante nominale Nguyễn Minh Triết e comandante de facto il segretario del Partito comunista Nguyễn Phú Trọng, risulta così essere il quarto più grande al mondo, dopo quelli della Russia e delle due Coree. Con il confluire degli interessi di potenze straniere nel Mar Cinese Meridionale, le cui acque hanno acquisito un particolare valore strategico sul piano energetico e della sicurezza, l’élite militare ha impostato negli ultimi anni una serie di accordi internazionali per migliorare la marina, costituita da 40.000 soldati. In tal senso, il Vietnam ha stretto accordi con Stati Uniti e India. Quest’ultima, nel 2010, ha acconsentito a fornire tecnologia per meglio equipaggiare le basi navali vietnamite e ha accettato di avviare operazioni militari congiunte in zone montuose e di giungla. Gli Stati Uniti, invece, che nel corso degli anni 2000 hanno aiutato il paese a disinnescare le mine disseminate durante la guerra e a trovare una soluzione per ridurre gli effetti nocivi del cosiddetto Agente Arancio (erbicida utilizzato dagli statunitensi per stanare i Viet Cong negli anni Sessanta), svolgono dal 2007 esercitazioni navali comuni, nell’ambito degli accordi bilaterali che gli Usa hanno siglato con diversi paesi della regione.
Nel 2005 Goldman Sachs ha coniato l’espressione Next eleven economies per definire un gruppo di undici paesi destinati ad affermarsi nel 21° secolo come le più importanti economie del mondo. La banca statunitense ritiene, infatti, che dopo l’ascesa dei paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) sarà la volta di Vietnam, Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Corea del Sud e Messico. Tuttavia solo questi ultimi due paesi, a detta degli esperti della Goldman Sachs, hanno le potenzialità per assumere, a livello economico, un ruolo di leadership globale paragonabile a quello dei Bric.
I parametri per definire le N-11, eterogenee per assetto politico, sociale ed economico, sono l’apertura al commercio e agli investimenti esteri, la stabilità macroeconomica, la maturità politica e la qualità del sistema educativo. Dal 1990 ad oggi il Vietnam, paese tra i più poveri delle Next eleven economies, ha compiuto sostanziali miglioramenti nei settori monitorati dalla Goldman Sachs, e si stima che nel prossimo decennio avrà la crescita di pil pro capite più alta, e che nel 2025 sarà la diciassettesima potenza economica al mondo dopo l’Iran e prima del Pakistan.