Abstract
Rintracciato il proprium dell’attività bancaria nella raccolta presso il pubblico di fondi con obbligo di rimborso e nell’erogazione del credito, si illustrano i benefici e i rischi dell’intermediazione creditizia e si descrivono le ragioni alla base dell’introduzione per l’impresa bancaria di una disciplina speciale, fortemente armonizzata a livello internazionale.
Per quanto taluni storici rintraccino le radici dell’attività bancaria nei prestiti erogati dai sacerdoti sumeri, babilonesi (e poi, greci) utilizzando quanto offerto ai santuari dai fedeli, il termine “banca” si ricollega ai banchi dei cambiavalute che, in età greco-romana, presero ad accettare in deposito valori e a imprestarli, sino a trasformarsi in banchieri.
Secondo le definizioni legislative, la banca è appunto l’impresa che raccoglie dal pubblico depositi o altri fondi rimborsabili e concede prestiti per proprio conto [v. art. 4(1)(1) Reg. (UE) n. 575/2013]. Tale attività si basa sull’assunto che, tempo per tempo, solo una piccola parte dei depositanti chiede il rimborso delle proprie somme, e – correlativamente – ogni banca per far fronte a siffatte richieste deve detenere riserve liquide pari a una modesta percentuale del denaro presso la stessa depositato: il resto può quindi essere dato in prestito a privati e imprese, incluse altre banche (nel mercato interbancario ha luogo il trasferimento di fondi tra banche in surplus e banche in deficit di liquidità).
Così facendo, le banche svolgono funzioni di trasformazione della liquidità, delle scadenze e della rischiosità dei crediti. Esse offrono ai depositanti la facoltà di prelevare il proprio denaro in qualsiasi momento, nonché servizi di pagamento quali la possibilità di trarre assegni ed effettuare bonifici; d’altro canto, gli attivi delle banche, costituiti per lo più da affidamenti a privati e imprese, non possono da queste essere rapidamente convertiti in contante. Ancora, mentre le banche si finanziano contraendo passività rimborsabili a vista o a breve, le stesse erogano prestiti a lungo termine, quali mutui fondiari e finanziamenti infrastrutturali. Infine, la raccolta bancaria – alimentata, dal punto di vista di depositanti e finanziatori a breve, da attività a basso rischio – è impiegata per attività quali i finanziamenti la cui elevata rischiosità individuale può essere contenuta dalle banche attraverso politiche di differenziazione degli investimenti.
Le banche investono risorse significative e applicano sofisticate metodologie nella selezione dei potenziali affidati sulla base del relativo merito di credito, nella valutazione della qualità dei progetti imprenditoriali suscettibili di finanziamento e nel monitoraggio dell’andamento degli affidamenti concessi. L’intermediazione creditizia concorre pertanto a realizzare una più efficiente allocazione delle risorse, veicolando in maniera professionale fondi da soggetti in surplus a soggetti in deficit. Inoltre, la possibilità di utilizzare i conti correnti bancari al fine di effettuare e ricevere pagamenti rende le passività bancarie parte del sistema monetario.
Per le ragioni esposte, le banche svolgono un ruolo essenziale per il finanziamento delle attività produttive e per il funzionamento del sistema economico.
I caratteri dell’attività bancaria, per come sopra descritta, rendono gli enti creditizi intrinsecamente fragili, sia individualmente che collettivamente.
Innanzitutto, lo strutturale disallineamento tra passività, per lo più a breve termine o rimborsabili a vista, e attività, di lunga durata e illiquide: qualora simultaneamente numerosi depositanti chiedano il rimborso o trasferiscano le proprie somme (e/o numerosi finanziatori non rinnovino i finanziamenti), la banca non sarà in grado di soddisfare tutte le richieste con le proprie limitate riserve liquide, né di convertire rapidamente i propri attivi in contante, se non svendendoli a prezzo vile, e finendo così per transitare dall’illiquidità all’insolvenza.
Ma anche a prescindere dalla pressione a vendere cui è sottoposta una banca in stress di liquidità, non è agevole per i potenziali acquirenti apprezzare il valore degli attivi bancari. La valutazione della qualità di un portafoglio prestiti presuppone la raccolta e l’analisi di un’ingente mole di informazioni riguardanti i prenditori e l’andamento dei rapporti in essere. Tali dati sono acquisiti e trattati in prima battuta dalla stessa banca affidante: ciò determina, in generale, un’asimmetria informativa nel rapporto tra l’ente e i terzi (i risparmiatori, gli investitori, il mercato), con riflessi negativi sui corrispettivi di cessione degli attivi.
Si aggiunga che le richieste di rimborso sono soddisfatte secondo l’ordine di presentazione: di conseguenza, i depositanti hanno una razionale propensione a chiedere la restituzione delle proprie somme ai primi segnali di difficoltà di un intermediario, prima che le sue risorse siano depauperate. In tal modo essi accelerano il deterioramento della situazione aziendale. Peraltro, massicci ritiri possono destabilizzare anche banche erroneamente ritenute in difficoltà: il diffondersi del panico può far sì che le previsioni di fallimenti bancari si auto-realizzino.
Inoltre, allorché la sfiducia determina la rarefazione degli scambi nel mercato interbancario, la difficoltà di singoli enti può propagarsi ad altri, e persino all’intero settore finanziario (con un “effetto domino”). Ancora, in considerazione del ruolo svolto dalle banche nel sistema dei pagamenti, il fallimento di una singola banca può creare interruzioni nella catena delle compensazioni multilaterali, con gravi ripercussioni sugli altri partecipanti.
La rilevata fragilità delle banche e l’importanza delle funzioni dalle stesse svolte hanno indotto gli Stati a sottoporne l’attività a una fitta trama di vincoli normativi e di controlli amministrativi volti a preservarne la stabilità e a tutelare i depositanti; le competenze in materia sono tendenzialmente attribuite ad autorità estranee al circuito della rappresentanza politica, le cui scelte tecniche sono così preservate da condizionamenti elettorali (v. infra §§ 4-8). Tali autorità verificano il possesso da parte delle banche dei requisiti per l'accesso e la permanenza sul mercato e, più in generale, il rispetto della normativa di settore; investite di poteri regolamentari, informativi e ispettivi, specificano con propri atti gli obblighi incombenti sulle imprese vigilate (tenute a trasmettere flussi informativi) e accertano la situazione aziendale attraverso visite in sede. All'elevata specializzazione tecnica delle dette autorità si ricollegano talvolta limiti al controllo giurisdizionale sui relativi atti.
L’operatività transfrontaliera dei grandi gruppi bancari e l’esigenza di impedire arbitraggi regolamentari da parte dei soggetti vigilati hanno peraltro alimentato la tendenza a elaborare standard uniformi a livello internazionale (v. infra § 3). La consapevolezza delle peculiari esternalità negative associate ai fallimenti bancari ha suggerito, poi, l’introduzione di regole speciali per prevenire e affrontare le crisi in questo settore (v. infra § 9).
La spiccata esposizione del sistema finanziario a shock diffusivi, legata alle interconnessioni tra i soggetti in esso operanti, tali da moltiplicare i canali di contagio, è alla base dell’introduzione di strumenti di vigilanza cd. macroprudenziale, volti a salvaguardare la stabilità finanziaria attraverso il contenimento del rischio sistemico.
L’esigenza di spezzare il circolo vizioso tra crisi bancarie e sostenibilità del debito degli Stati membri – frenandone la tendenza a soccorrere le banche in crisi con risorse pubbliche – ha impresso, infine, un’accelerazione ai processi di integrazione sovranazionale in seno all’Unione europea, scaturiti nella creazione della cd. Unione bancaria, che ingloba meccanismi di gestione accentrata delle funzioni di vigilanza e di risoluzione.
Le risposte alla crisi finanziaria del 2007-2009 e alla conseguente crisi dell’Eurozona del 2010-2012 hanno comportato la rivitalizzazione della cooperazione internazionale. Le iniziative di governi, banche centrali, autorità di settore e organismi internazionali hanno rinnovato gli equilibri dell’ordine finanziario globale, rafforzando il coordinamento finalizzato alla convergenza regolamentare.
Innanzitutto, è stato potenziato il coinvolgimento delle organizzazioni nate alla fine della Seconda Guerra Mondiale – Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Banca Mondiale – nel monitoraggio della conformità delle giurisdizioni statali agli standard finanziari internazionali (sia nell’ambito delle regolari consultazioni del FMI con gli Stati membri che nel quadro del cd. Financial Sector Assessment Program). Ciò al fine di valutare la resilienza del settore finanziario e l’adeguatezza della vigilanza bancaria al contenimento dei fattori di rischio sistemico, anche identificando esigenze di assistenza tecnica da parte degli Stati membri.
Sempre in risposta alla crisi, il G-20 – forum in cui le principali potenze economiche concordano macro-obiettivi di politica economica, finanziaria e monetaria – ha adottato numerose dichiarazioni volte a stabilire le priorità dell’agenda internazionale, tra le quali è stata inclusa l’armonizzazione globale degli standard della vigilanza bancaria. Tra le iniziative del G-20 si annovera l’istituzione nel 2009 del Financial Stability Board (in luogo del Financial Stability Forum), in cui sono rappresentati governi, banche centrali e organismi finanziari internazionali (“FSB”). Le sue attività comprendono la promozione del coordinamento e dello scambio di informazioni tra le autorità deputate alla tutela della stabilità finanziaria, il monitoraggio dello sviluppo dei mercati, l’individuazione delle vulnerabilità del sistema finanziario globale e l’implementazione di best practices in materia di vigilanza bancaria e gestione delle crisi.
Soprattutto, si è consolidato il ruolo del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria quale principale standard setter globale in materia di requisiti prudenziali. Trattasi di un organismo che riunisce i vertici di banche centrali e autorità di vigilanza, formalmente privo di poteri vincolanti, ma capace nei fatti di esercitare pressioni volte al recepimento delle regole elaborate, istituito nel 1974 a seguito di incidenti internazionali causati dal fallimento della Herstatt (piccola banca tedesca specializzata in operazioni in valuta estera). In seno al Comitato sono redatti documenti ed elaborati accordi i cui contenuti sono destinati a essere trasfusi nelle legislazioni nazionali (in Europa, nelle fonti dell’Unione). In particolare, con il susseguirsi degli accordi del 1988, 2004 e 2010 (Basilea I, II, III) il Comitato ha veicolato un approccio articolato su tre pilastri (emendato da ultimo a dicembre 2017), che impone requisiti patrimoniali e standard di liquidità alle banche; richiede lo svolgimento di un processo interno sottoposto alla valutazione dell’autorità volto a commisurare l’adeguatezza patrimoniale alle tipologie di rischi cui la banca è in concreto esposta; e prevede la comunicazione al pubblico da parte delle banche di una serie di informazioni necessarie a valutarne il profilo di rischio.
Si è detto che – per un verso – le funzioni di trasformazione di liquidità, scadenze e rischi operate dalle banche alimentano l’economia produttiva e che – per altro verso – il caratteristico disallineamento tra attivi e passivi ne rende fragile la struttura finanziaria.
Erronee valutazioni del merito di credito dei prenditori possono comportare lo scadimento della qualità degli attivi, e inattesi deflussi simultanei di depositanti e finanziatori a breve possono esaurire le riserve liquide di una banca.
I presidi contro tali rischi appaiono scontati. Maggiore è la quantità di capitale, più è difficile che il valore dell’attivo scenda al di sotto del valore del passivo, giacché maggiore è la quantità di perdite eventualmente assorbite dagli azionisti. La minore probabilità di insolvenza di una banca adeguatamente capitalizzata rassicura peraltro depositanti e finanziatori, mitigando così pure il rischio di deflussi simultanei. Maggiori sono le riserve liquide, più è improbabile una crisi di liquidità.
D’altra parte, un’azienda finanziata esclusivamente da capitale di rischio che detenesse soltanto risorse liquide non potrebbe “trasformare” alcunché – e tecnicamente non sarebbe neppure una banca.
Nelle società di capitali, l’individuazione del rapporto ottimale tra capitale di rischio e indebitamento nonché dell’appropriata quantità di riserve liquide da detenere è normalmente rimessa agli amministratori scelti dagli azionisti. Ma per le banche valgono regole diverse, dal momento che i costi delle crisi bancarie ricadono in larga parte su soggetti ulteriori e diversi da amministratori e azionisti: le prevedibili conseguenze sistemiche delle crisi impongono quindi l’introduzione di regole volte a evitarne l’insorgere o a minimizzarne l’impatto sull’economia reale.
Il primo pilastro degli accordi di Basilea fissa innanzitutto una percentuale minima di capitale – l’8% – in rapporto al totale degli attivi ponderati per il rischio, così da garantire una certa capacità di assorbimento delle perdite: ciò al fine di ridurre sia il rischio di insolvenza sia il rischio di crisi di fiducia. La ponderazione degli attivi per il rischio tiene conto sia della natura della controparte sia del suo rating (sul presupposto, ad esempio, che un Bund è meno rischioso di un prestito a una start-up innovativa). La pertinente metodologia è divenuta via via più sofisticata ed è stata sempre più attribuita alla responsabilità degli stessi enti, abilitati a valersi di modelli interni per la determinazione dei rating.
Il requisito minimo dell’8% si articola in tre componenti: il 4,5% deve essere composto da azioni ordinarie, riserve e utili non distribuiti (Common Equity Tier 1, “CET1”), l’1,5% da Additional Tier 1 (“AT1”) e il restante 2% da AT2, vale a dire da debiti subordinati convertibili perpetui (AT1) o della durata minima di 5 anni (AT2) [(v. art. 92, Reg. (UE) n. 575/2013]. Ai fini della computabilità, peraltro, gli strumenti ibridi di AT1 e AT2 devono essere suscettibili di conversione o riduzione prima che la banca sia sottoposta a procedure di crisi (v. infra § 9).
Basilea III ha introdotto peraltro tre buffer addizionali. Mentre il primo (Capital Conservation Buffer), pari al 2,5% del totale degli attivi ponderati per il rischio, è di automatica e generalizzata applicazione, l’imposizione degli altri due compete in concreto alle autorità di vigilanza; in particolare, il secondo (Countercyclical Buffer) è volto a correggere l’impatto prociclico dei coefficienti di ponderazione, e il terzo (Systemic Risk Buffer) mira a tener conto (su base individuale) dell’importanza sistemica di taluni intermediari (v. artt. 128-131, Direttiva 2013/36/UE). La loro eventuale applicazione può comportare per le banche interessate l’obbligo di elevare il CET1 fino a un massimo del 13%. Va sottolineato che mentre la discesa del capitale sotto il requisito minimo dell’8% comporta la revoca della licenza bancaria, l’erosione dei buffer di CET1 fa scattare solo il divieto di distribuzione di utili agli azionisti e bonus al personale fintantoché gli stessi non siano ricostituiti.
Si è detto che gli attivi bancari consistono per lo più in crediti a lungo termine, individualmente rischiosi, alienabili solo a prezzi assai inferiori al relativo valore a scadenza (v. supra § 2).
A loro volta, i passivi bancari sono costituiti in larga parte da depositi retail e, in misura minore, da raccolta all’ingrosso a breve termine, sia garantita – per lo più nelle forme di swap e pronti contro termine (“repo”) – che non garantita (tra cui i depositi interbancari).
Alla surriferita propensione dei depositanti a ritirare o trasferire le proprie somme ai primi segni di difficoltà di un ente (v. supra § 2), in contesti di crisi diffusa si aggiungono tipicamente l’esigenza di ampliare le garanzie per ottenere il rinnovo (“roll-over”) delle linee di credito in essere, il rifiuto dei finanziatori di continuare ad accettare in garanzia determinati strumenti non più percepiti come sicuri e la contrazione del mercato interbancario.
La recente crisi finanziaria ha mostrato altresì il deleterio impatto di un circolo vizioso: il timore di fallimenti a catena può dar vita a un panico diffuso, latore di una riduzione generalizzata della raccolta a breve, e, come conseguenza, dei finanziamenti all’economia reale da parte delle banche, preoccupate di accumulare riserve liquide per far fronte alla mole dei ritiri attesi.
In situazioni simili, le banche hanno spesso beneficiato dei prestiti di ultima istanza delle banche centrali. Una delle tipiche funzioni di tutela della stabilità finanziaria da queste svolte consiste infatti nel prevenire o mitigare severe crisi, fornendo, in periodi di stress, liquidità a tassi superiori a quelli di mercato (così da incentivare il ritorno ai normali canali di finanziamento, non appena disponibili) a banche illiquide ma non insolventi (per non mantenere artificiosamente in vita aziende decotte) dietro costituzione di adeguate garanzie.
Tuttavia, non è agevole in concreto distinguere l’illiquidità dall’insolvenza. Inoltre, l’applicazione di tassi di interesse troppo alti può alimentare la contrazione dei finanziamenti all’economia reale. Ancora, la “sete” di liquidità delle banche eccede talvolta la loro disponibilità di strumenti da costituire in garanzia. Infine, l’affidamento sugli interventi delle banche centrali può indurre azzardo morale.
Le considerazioni descritte hanno suggerito di imporre alle banche requisiti di liquidità, volti a rafforzarne la capacità di affrontare eventuali massicci deflussi simultanei di fondi senza svendere risorse illiquide né contare su prestiti di ultima istanza. Nell’ambito del primo pilastro, Basilea III ha introdotto così due requisiti, il Liquidity Coverage Ratio (“LCR”) e il Net Stable Funding Ratio (“NSFR”) [v. artt. 412-413, Reg. (UE) n. 575/2013]. Il primo esige che le banche mantengano uno stock di risorse liquide che consenta di superare una fase di accentuato deflusso di fondi della durata di 30 giorni senza dover ricorrere al mercato o al rifinanziamento presso la banca centrale, sul presupposto che in tale lasso di tempo ipotetiche criticità sarebbero superate o si aprirebbe una procedura di gestione della crisi. Il secondo richiede che le attività meno liquide siano finanziate attraverso forme di finanziamento più stabili, di modo che le banche per soddisfare il requisito potranno operare sia sul lato dell’attivo che su quello del passivo.
Nel paragrafo precedente si sono illustrati meccanismi volti ad assicurare che le banche mantengano margini di liquidità in contesti di crisi. Una concorrente strategia consiste nell’assicurare i depositanti che a fronte di eventuali difficoltà di un ente le loro pretese saranno soddisfatte da un soggetto terzo.
A tal fine, nel contesto della più ampia rete di protezione del sistema finanziario, sono istituiti appositi sistemi (di garanzia dei depositi, “DGS”) volti a proteggere i depositanti dalla perdita dei depositi garantiti, fino a un importo massimo predeterminato, nel caso in cui una banca non sia più in grado di adempiere all’obbligo di restituire le somme depositate.
I DGS hanno al contempo lo scopo di assicurare la fiducia dei depositanti nel sistema finanziario nonché quello di tutelare la stabilità, prevenendo corse agli sportelli capaci di generare crisi di più ampie dimensioni.
Storicamente, l’introduzione e la messa a punto dei DGS sono state tormentate. Tuttavia, a seguito della recente crisi si è affermato un vasto consenso in merito all’utilità di DGS adeguatamente congegnati. Si ritiene oggi che la presenza di DGS affidabili e ben pubblicizzati, oltre a tutelare la clientela, mitighi l’impulso dei depositanti a chiedere il rimborso integrale dei depositi garantiti alle prime avvisaglie di difficoltà di un ente creditizio, rafforzando – così – tanto la stabilità delle singole banche, quanto la stabilità del sistema finanziario nel suo complesso.
È pur vero che la garanzia dei depositi presenta inconvenienti in termini di azzardo morale e di selezione avversa: infatti, i depositi – una volta assicurati – diventano investimenti privi di rischi, il che determina un indiscriminato abbassamento del costo della raccolta a favore delle banche, le priva di incentivi a una gestione sana e prudente e induce i risparmiatori ad affidarsi alle aziende che promettono i rendimenti più elevati solo a costo di assumere rischi eccessivi.
Si ritiene però che tali inconvenienti possano essere contrastati attraverso idonei accorgimenti: segnatamente, i DGS vanno adeguatamente congegnati per quanto riguarda il livello di copertura garantito, le modalità di finanziamento da parte degli enti aderenti (che deve avvenire ex ante, sia per evitare effetti prociclici, sia per distribuire l’onere anche sulle banche che in seguito dessero luogo agli interventi dei DGS), il calcolo dei contributi secondo metodologie basate sul rischio (incentivo per una gestione prudente), la possibilità di intervento dei DGS nelle misure tempestive volte a prevenire le crisi degli intermediari.
La Direttiva n. 2014/49/UE, ai cui sensi l’adesione a un DGS è condizione necessaria per l’esercizio dell’attività bancaria nell’ambito dell’Unione europea e i depositi vanno garantiti sino alla soglia armonizzata di euro 100mila, reca una disciplina coerente con le esigenze sopra indicate.
Nelle società di diritto comune, le best practices in materia di governance mirano ad allineare gli interessi degli amministratori a quelli degli azionisti (e gli interessi del socio di controllo a quelli degli azionisti di minoranza), anche attraverso componenti variabili delle remunerazioni legate alla produzione di utili e all’andamento del valore delle azioni. Tenuto conto che gli azionisti sono residual claimant della società partecipata, in linea di principio anche i creditori sociali beneficiano del detto allineamento.
Fino a un recente passato tali principi erano applicati anche alle banche, ma a seguito della recente crisi è maturata la consapevolezza che l’organizzazione e il governo degli enti creditizi pongono problemi peculiari e diversi, che esigono l’introduzione di regole specifiche volte a tutelare l’interesse pubblico alla stabilità dei singoli intermediari e del sistema.
Innanzitutto, dacché le banche operano con un significativo livello di leva finanziaria, gli azionisti possono essere attratti dalle prospettive di profitto associate all’assunzione di rischi eccessivi. Difficilmente i creditori possono averne consapevolezza, stante la surriferita difficoltà per i terzi di valutare la qualità degli impieghi bancari (v. supra § 2). Ancora, la garanzia dei depositi disincentiva una parte dei depositanti dal monitorare le politiche degli enti (v. supra § 6). Del resto, il mercato tende in genere a fare affidamento sui controlli pubblici cui sono sottoposte le banche, anche sopravvalutandone l’estensione. Infine, considerato che i fallimenti bancari sono suscettibili di causare costi ingenti e imprevedibili per la società, sino a un recente passato pressioni politiche incoercibili hanno indotto i governi a salvare le banche in crisi con danaro pubblico, aggravando i fenomeni di azzardo morale (v. infra § 9).
Le risposte a tali inconvenienti hanno seguito due direttrici. Da una parte, sono state elaborate regole volte ad assicurare la capacità delle banche di individuare, misurare e valutare i rischi ai quali esse sono esposte, attribuendo tra l’altro all’organo di indirizzo strategico la determinazione degli obiettivi di rischio dell’ente e la loro traduzione in limiti all’operatività delle strutture di business, nonché il monitoraggio nei confronti del management, anche attraverso la verifica nel continuo della concreta esposizione della banca al rischio. Dall’altra parte, è stato introdotto l’obbligo a carico delle banche di introdurre e mantenere, per le categorie di personale le cui attività professionali hanno un impatto significativo sul profilo di rischio, politiche e prassi in materia di remunerazione coerenti con una gestione efficace del rischio medesimo, che presuppone tra l’altro la commisurazione delle componenti variabili alle performance di lungo periodo degli enti.
Nel settore bancario e finanziario, la complessità delle transazioni e i rischi associati ai prodotti rendono particolarmente vistosa l’asimmetria informativa tra intermediari e clienti: di conseguenza, la tutela del consumatore dei relativi servizi è perseguita da tutti i paesi industrializzati, sia pure con approcci e assetti istituzionali diversi. Ciò anche nella consapevolezza che il venir meno della fiducia nel sistema finanziario non influenza soltanto la domanda dei singoli prodotti, ma può avere effetti sistemici.
A livello internazionale, le istanze di tutela della clientela hanno ricevuto particolare impulso dopo la crisi: nell’ottobre 2011, il G-20 ha affermato l’esigenza di esplicitare la tutela della clientela tra le finalità della regolamentazione di settore, individuando un’autorità incaricata di perseguirla, munendola dei necessari poteri e introducendo adeguate forme di coordinamento fra le istituzioni coinvolte nella protezione dei consumatori.
Vari ordinamenti hanno introdotto regole volte a potenziare la trasparenza nei rapporti con la clientela attraverso la standardizzazione delle modalità di rappresentazione dei costi connessi con alcuni prodotti e servizi particolarmente diffusi e rilevanti per il consumatore, quali ad esempio, in Europa, il credito al consumo, i mutui ipotecari e i conti di pagamento.
Gli studi di finanza comportamentale hanno evidenziato, peraltro, che i limiti cognitivi del consumatore impediscono di concepire il mercato dei prodotti bancari e finanziari come un ambiente nel quale operano agenti perfettamente razionali e consapevoli. Per via di tali limiti, il consumatore può non essere in grado di valutare la qualità dei servizi offerti e/o ricevuti in rapporto al loro costo; sussiste altresì il rischio che il consumatore ritenga erroneamente di avere subito un trattamento iniquo e su tale base decida di abbandonare il mercato.
Le riflessioni richiamate hanno messo in luce l’insufficienza dell’uniforme rappresentazione delle informazioni alla clientela e hanno condotto a ulteriori interventi, volti a esigere atteggiamenti proattivi da parte degli intermediari: questi ultimi non sono più chiamati soltanto a fornire informative complete, ma anche a organizzarne l’esposizione in maniera facilmente comprensibile, dando evidenza agli elementi di maggior rilievo e a indicatori sintetici in grado di agevolare il confronto tra prodotti e servizi offerti da intermediari diversi. Allo stesso tempo, la disciplina di settore impone oggi alle banche di predisporre e aggiornare periodicamente appositi presidi organizzativi finalizzati a valutare l’intelligibilità dei prodotti da parte della clientela e la loro corretta commercializzazione, quali l’adeguata formazione delle reti di vendita e l’adozione di incentivi tali da scoraggiare la commercializzazione di prodotti inadeguati alle esigenze finanziarie dei clienti.
Il fallimento di una banca causa peculiari esternalità negative, giacché indebolisce intermediari e mercati con i quali essa interagisce e rischia di produrre danni per l’economia reale (v. supra § 2). Correlativamente, di fronte ai crack di grandi banche suscettibili di innescare crisi sistemiche, i governi hanno spesso sostenuto con fondi pubblici gli enti in difficoltà.
Tuttavia, l’elevato costo dei salvataggi bancari ha compromesso talvolta gli equilibri di finanza pubblica, sino a mettere in dubbio la solvibilità degli Stati, creando così – in un circolo vizioso – ulteriori problemi alle banche, a loro volta detentrici di obbligazioni sovrane. Inoltre, l’implicito supporto pubblico di cui beneficiano le banche, specie se grandi, accresce il rischio di azzardo morale a detrimento dei contribuenti.
Di conseguenza, nell’ottobre 2011 il FSB ha adottato standard internazionali destinati a essere recepiti in tutte le giurisdizioni, onde introdurre, per le banche, una speciale procedura alternativa alle ordinarie procedure di insolvenza, di carattere non giurisdizionale, la cd. “risoluzione”. Essa mira a proteggere la stabilità finanziaria e salvaguardare i fondi pubblici assicurando la continuità delle funzioni essenziali svolte dall’ente in crisi, la liquidazione delle attività non in grado di produrre profitti e la protezione dei depositanti e della clientela. In Europa, tali principi informano la Direttiva 2014/59/UE: di seguito si indicano i tratti salienti della relativa disciplina.
Si richiede innanzitutto l’adozione di misure preparatorie da parte di banche e autorità di risoluzione, consistenti nella predisposizione anticipata di piani per affrontare situazioni di difficoltà o crisi, la cui soluzione va altresì agevolata attribuendo alle autorità il potere di imporre modifiche alla struttura societaria e operativa dei gruppi.
Si introducono poi poteri e strumenti coerenti con le finalità sopra riferite.
In particolare, il ricorso al cd. bail-in consente di ridurre o azzerare il valore delle azioni e di svalutare i crediti e convertirli in azioni, assicurando così che azionisti e creditori sopportino le prime perdite immediatamente e al di fuori di una procedura liquidatoria. Esso consente di realizzare attraverso un provvedimento autoritativo un risultato analogo agli accordi di ristrutturazione, che esigono invece il consenso dei creditori. Peraltro, la svalutazione e conversione degli strumenti computabili nel capitale regolamentare (v. supra §4), se sufficiente a superare la crisi, può essere disposta anche senza che sia avviata la risoluzione. È richiesto in ogni caso che azionisti e creditori non subiscano un trattamento peggiore di quello che riceverebbero nell’ordinaria procedura di liquidazione. Per garantire l’effettività degli strumenti descritti, si richiede che le banche emettano una certa quantità di passività agli stessi assoggettabili.
Coerentemente con la finalità di coinvolgere azionisti e creditori nella soluzione delle crisi, il sostegno pubblico è limitato a circostanze straordinarie e sottoposto a rigide condizioni.
La vendita di attività e passività a un acquirente privato può essere disposta dall’autorità senza il consenso degli azionisti e può riguardare solo una parte di esse. Le attività non trasferite – tendenzialmente, quelle deteriorate – vengono liquidate, o assegnate a una società-veicolo laddove la vendita immediata non sia idonea a massimizzarne il valore.
Qualora non sia possibile individuare immediatamente un acquirente, sopperisce lo strumento dell’ente-ponte, che consente la cessione a un soggetto pubblico, se del caso appositamente creato, dell’azienda o di un suo ramo, affinché le funzioni essenziali svolte dalla banca sottoposta a risoluzione restino attive per il tempo necessario al ricollocamento sul mercato.
Si dispone, infine, l’istituzione di fondi volti a finanziare le operazioni di risoluzione, alimentati da contributi dell’industria, da utilizzare, ad esempio, per la copertura di eventuali sbilanci di cessione nonché per la (ri)capitalizzazione di enti-ponte e società-veicolo.
A seguito dell’istituzione dell’Unione bancaria, in Europa tali poteri sono esercitati nell’ambito di un meccanismo di coordinamento accentrato, il cd. Meccanismo unico di risoluzione.
Fonti normative
Direttiva 2013/36/UE; Reg.(UE) n. 575/2013; Reg. (UE) n. 1024/2013; Direttiva 2014/59/UE; Reg. (UE) n. 206/2014; Direttiva 2014/49/UE.
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*Il testo riporta opinioni personali dell’autore che non sono in alcun modo riferibili all’Istituto di appartenenza.
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