VIGILIO
V. nacque a Roma, senz'altro nell'ultimo decennio del V secolo, avendo raggiunto l'età per diventare vescovo nel 531. Apparteneva ad una famiglia cristiana che era al servizio della monarchia gota fin dall'instaurarsi del regno. Il nonno materno Olibrio fu prefetto del Pretorio nel 503, lo zio Eugenio questore di palazzo nel 506 e "magister officiorum", il padre Giovanni "consularis" di Campania nel 507-511, e in seguito prefetto del Pretorio e console. La famiglia di V. aveva certamente entrature milanesi, poiché entrambi i nonni e il padre erano corrispondenti di Ennodio, diacono di Milano. Una parente di Olibrio, Speciosa, designata come "religiosa femina", viveva a Pavia intorno al 503. Il ruolo svolto dal fratello Reparato nella spedizione bizantina in Liguria, nel 537, tende a confermare quest'ipotesi. Non è da escludere un legame per parte materna con gli Anicii, che spesso portavano il nome di Olibrio e avevano notoriamente legami con l'Italia settentrionale. Mentre il fratello Reparato seguiva il "cursus honorum" civile, diventando prefetto di Roma nel 527 sotto il regno di Atalarico, V. entrò nel clero di Roma, dove era diacono nel 530, durante il pontificato di Bonifacio. È noto che Bonifacio, al quale vengono attribuite origini germaniche richiamandosi al nome che il Liber pontificalis dà a suo padre ("Sigiuuldus"), alla morte di Felice IV era apparso il candidato di un partito favorevole al potere goto contro Dioscoro, e la sua elezione aveva provocato uno scisma che solo la morte del suo contendente aveva potuto ricomporre. Non sorprende quindi vedere come V. occupi una posizione privilegiata accanto al papa, a tal punto che quest'ultimo, all'inizio del 531, lo designa suo successore durante un sinodo riunito a S. Pietro, chiedendo a tutti i membri del clero di sottoscrivere un "constitutum" per ratificare questa decisione. Come all'epoca della designazione di Bonifacio da parte di Felice, il Senato di Roma protestò contro una procedura che lo privava di qualsiasi influenza diretta sull'elezione del pontefice. Non è noto il contenuto del senatoconsulto pubblicato al tempo di Bonifacio e menzionato in un rescritto di Atalarico del 533 (Cassiodoro, Variae IX, 15, 3), ma è senz'altro V. la persona evocata da Cassiodoro alla quale sono state rivolte indebite promesse. Se quest'ultimo non fa parola della protesta dei senatori, il Liber pontificalis precisa che il Senato era presente quando Bonifacio, convinto dai chierici di aver agito in contrasto con i canoni, annullò la propria decisione e gettò nel fuoco il "constitutum" che assicurava il pontificato a Vigilio. Il Liber pontificalis, la sola fonte che cita l'evento, consente di formulare unicamente alcune ipotesi su questo primo episodio della carriera ecclesiastica di Vigilio. Era stato scelto, e in seguito ricusato, per ragioni politiche, a causa dei legami della sua famiglia con il governo goto? Si era reso colpevole di simonia? In qualità di diacono era forse esposto all'ostilità del partito che aveva portato Dioscoro al pontificato, oppure era personalmente sgradito? I torbidi che seguirono la morte di Bonifacio e la lunga vacanza di due mesi prima dell'elezione di Giovanni II dimostrarono, in ogni caso, che le difficoltà sollevate dalle procedure relative all'elezione del vescovo di Roma non erano state superate. Fra il 531 e l'inizio del 536 V. scompare dalle fonti; non viene menzionato né a proposito della successione effettiva di Bonifacio, morto nell'ottobre del 532, né per quella di Giovanni II, morto l'8 maggio del 535. In questo lasso di tempo la situazione politica dell'Italia subì drammatici cambiamenti. Le tensioni affiorate alla fine del regno di Teoderico non si sedarono stabilmente malgrado gli sforzi di Amalasunta, e l'ascesa al potere di Teodato offrì a Giustiniano il pretesto per far intervenire le armate bizantine in Italia. Come altre famiglie romane, anche quella di V. passò in un primo tempo dal servizio attivo della monarchia gota ad una cauta distanza, per aderire in seguito alla causa imperiale. Se Reparato rimase a Roma, V., in data sconosciuta, partì alla volta di Costantinopoli, dove si trovava nel 536. Il soggiorno di V. nella città imperiale è determinante per la storia del suo pontificato e, indubbiamente, anche per comprendere la politica religiosa di Giustiniano e la sua ricezione in Occidente. È impossibile conoscere il periodo e la natura di questo soggiorno. Il Liber pontificalis è l'unica fonte a definire apocrisario il diacono romano, facendo risalire quest'informazione alla fine del 536, alla data della presa di Napoli da parte di Belisario, mentre Liberato di Cartagine dichiara che Agapito aveva nominato in questa carica Pelagio, che com'è noto l'ha ricoperta negli anni seguenti. Una testimonianza più tarda, quella di Gregorio Magno, afferma solo che V. si era stabilito ("constitutus") a Costantinopoli. Non figura comunque tra i chierici romani che parteciparono al concilio convocato da Giustiniano per confermare le sentenze pronunciate da Agapito contro il patriarca Antimo. In compenso, tutte le fonti concordano nel mettere in rilievo i rapporti fra il diacono e la corte imperiale, in particolare con l'imperatrice Teodora. L'evoluzione della posizione di V., da candidato scelto da un papa "germanico" ad alleato del potere bizantino, può essere accostata a quella dell'ambiente aristocratico cui apparteneva, che in parte si ritrovò insieme a lui a Costantinopoli, colmato di onori dai greci. I legami con la corte imperiale allacciati da V. a Costantinopoli sono al centro delle analisi dei suoi contemporanei, che l'accusarono di connivenza con Teodora nella subdola lotta contro Calcedonia. I resoconti dettagliati di Liberato di Cartagine, Vittore di Tunnuna e del Liber pontificalis differiscono su punti significativi, pur essendo tutti concordi nello screditare V.; le menzioni, più sommarie, di Facondo d'Ermiane, di Procopio di Cesarea e del continuatore di Marcellino incolpano solo le autorità bizantine. La maggior parte delle testimonianze proviene da avversari del papa, delusi dall'adesione romana alla condanna dei Tre Capitoli, che si sforzano di comprendere le cause di quello che ritengono un tradimento. In particolare, le opere degli africani (Facondo, Liberato, Vittore) sono scritti schierati che devono essere valutati con molta cautela. Secondo Liberato, dopo la morte di Agapito, V. fu convocato da Teodora, che gli chiese se era disposto ad annullare il concilio (di Calcedonia) per entrare in comunione con Antimo di Trebisonda, Teodosio di Alessandria e Severo di Antiochia; l'imperatrice, in compenso, gli avrebbe concesso un "praeceptum" indirizzato a Belisario "perché fosse ordinato papa" e settecento libbre d'oro. V., dopo aver accettato lo scambio, "per l'amore dell'episcopato e dell'oro", salpò alla volta dell'Italia approdando a Ravenna, dove trovò Belisario, e qui apprese che il progetto dell'imperatrice era stato vanificato dall'elezione di Silverio. Allora promise duecento libbre d'oro al generale, se avesse accettato di deporre il nuovo papa. Secondo questo racconto, V. partì quindi da Costantinopoli ignorando l'elezione di Silverio. Vittore di Tunnuna, che fa riferimento a Liberato, aggiunge che V., prima di essere ordinato, aveva promesso di condannare i Tre Capitoli "in proscriptione synodi Chalcedonensis". La versione del Liber pontificalis differisce sensibilmente: il biografo di V., in questa raccolta, non è un contemporaneo, come ha dimostrato L. Duchesne richiamandosi alle grossolane inesattezze in cui incorre il redattore della notizia nel suo resoconto degli avvenimenti politici, ma è ostile al papa non comprendendo la posizione assunta da quest'ultimo nella controversia dei Tre Capitoli. Di conseguenza il suo racconto dev'essere valutato alla luce di una possibile duplice deformazione: la prima derivante dall'ignoranza e la seconda dalla faziosità. Secondo questo resoconto V. si trovava ancora a Costantinopoli, allorché Belisario entrò a Roma (dicembre 536) trovandovi Silverio papa. Accogliendo le rimostranze di Teodora e su consiglio di V., Giustiniano scrisse a Silverio per chiedergli di recarsi a Costantinopoli allo scopo di reintegrare Antimo nella sua sede. In seguito alla risposta risoluta di Silverio, l'imperatrice mandò V. a Roma con una lettera per Belisario, in cui gli veniva ingiunto di deporre Silverio per sostituirlo con V.: "ecce ibi habes Vigilium archidiaconum et apocrisarium nostrum karissimum, qui nobis pollicitus est reuocare Anthemum patriarcham" (Le Liber pontificalis, p. 292). Facondo d'Ermiane, nel Contra Mocianum, parla senza fornire ulteriori precisazioni di testi autografi, scritti dal vescovo di Roma "cum fieri arderet episcopus", che annunciavano i futuri tradimenti. Nessuno di questi resoconti è particolarmente attendibile. In Liberato il dettaglio dell'arrivo a Ravenna è inesatto, in quanto la città all'epoca è ancora gota. I Bizantini avevano dato inizio alla conquista dell'Italia a partire dalla Sicilia e dalla Campania rinunciando all'accesso adriatico. Liberato confonde questa prima conquista con la spedizione di Narsete nel 551. Nella sostanza, le accuse rivolte a V. mancano di coerenza: Antimo era il patriarca di Costantinopoli deposto su richiesta di Agapito, e Teodosio uno dei due vescovi contendenti eletti ad Alessandria dopo la morte di Timoteo IV, tra il 9 e l'11 febbraio 535. Alla fine del 536 o all'inizio del 537, Teodosio, ritenuto troppo vicino agli ambienti monofisiti moderati, era stato convocato a Costantinopoli da Giustiniano e aveva accettato di rinunciare all'episcopato a favore di Paolo, rappresentante dell'ortodossia calcedonese, raccomandato all'imperatore dal diacono romano Pelagio. Severo, patriarca di Antiochia dal 512 al 518, che aveva anatemizzato Nestorio, Eutiche, il sinodo di Calcedonia e il Tomus di Leone, era il capofila dei monofisiti. Aveva abbandonato la sua carica per ritirarsi in un monastero, quando l'avvento di Giustiniano aveva permesso la riconciliazione fra l'Oriente e Roma. Severo era stato invitato a Costantinopoli dalla coppia imperiale, e Giustiniano aveva tentato di arrivare ad una riconciliazione per vie diverse, prima che il concilio del 536 lo scomunicasse, condanna seguita dalla sentenza d'esilio. L'impegno che l'imperatrice avrebbe chiesto a V., quindi, non solo avrebbe avuto l'effetto di annullare gli sforzi quasi secolari profusi da Roma per difendere Calcedonia, ma anche di opporsi in maniera frontale alla politica di Giustiniano, mettendo in una posizione assai pericolosa l'uomo ambizioso dipinto da Liberato. La presentazione della condanna dei Tre Capitoli da parte di Vittore appare ancora più inverosimile. La sua insostenibilità non scaturisce da un anacronismo, come spesso si è detto. Se la presunta lettera è precedente all'editto di condanna di Giustiniano (tra il 543 e la fine del 545), allora è posteriore alla conferenza del 532, durante la quale l'imperatore aveva proposto di condannare "Diodoro, Teodoro, Teodoreto, Ibas, Nestorio ed Eutiche", per aggregare "un gruppo di vescovi orientali che, insieme a Severo, erano separati dalla Chiesa cattolica e apostolica". La difficoltà emerge dalla circostanza che la condanna dei Tre Capitoli è interamente frutto dell'iniziativa di Giustiniano, mentre gli altri impegni richiesti a V. vanno in senso drasticamente opposto alla politica imperiale. Sebbene Teodora abbia sempre manifestato la sua inclinazione per il monofisismo, il ruolo che le viene assegnato da questi racconti, come accade con Antonina, moglie di Belisario, negli altri episodi romani, è senz'altro debitore del luogo comune della letteratura ecclesiastica sulla natura inevitabilmente femminile dell'eresia. Nel caso in questione, deve orientarci nella valutazione delle testimonianze dei cronisti un'analisi retrospettiva per comprendere come un vescovo di Roma abbia potuto cadere nell'eresia. Se è legittimo dedurre dal complesso della documentazione che V. è il candidato del potere imperiale, non è il caso di dar ulteriore credito alle ricostruzioni delle cronache. V. giunse quindi a Roma fra il dicembre del 536, quando i Bizantini entrarono in città, e il marzo 537, data in cui fu deposto Silverio. Il papa fu accusato di tradimento sulla base di lettere fabbricate, secondo Liberato, da ufficiali bizantini per iniziativa di V., come precisa il Liber pontificalis. Convocato a due riprese nella "domus Pinciana" dove il generale bizantino aveva stabilito la propria residenza, e accusato in presenza di Belisario, di sua moglie e di V., Silverio fu deposto e rivestito dell'abito monastico prima di essere mandato in esilio. Il suddiacono Sisto annunciò la notizia al seguito di Silverio atterrito. Secondo Liberato, Belisario convocò i presbiteri, i diaconi e l'intero clero affinché eleggessero V., ordine che venne eseguito il 29 marzo 537 malgrado i dubbi sulla colpevolezza di Silverio. Il Liber pontificalis tace sull'elevazione al soglio di V., al quale attribuisce il titolo di "archidiaconus" fino al termine della notizia su Silverio. I resoconti appaiono divergenti anche in relazione ai primi mesi del pontificato di Vigilio. Il Liber pontificalis si limita ad annotare che V. mandò in esilio Silverio, ridotto allo stato monastico, alle isole Pontine, dove lo nutrì "del pane della tribolazione e dell'acqua dell'angoscia", finché questi morì e fu "fatto confessore". Liberato parla di un primo esilio a Patara, in Licia, il cui vescovo, indignato per la sorte del pontefice romano, avvertì Giustiniano. Per ordine dell'imperatore Silverio fu rimandato a Roma perché fosse organizzato un processo ("iudicium"), malgrado le proteste del diacono Pelagio, divenuto apocrisario alla fine del pontificato di Agapito. Avendo appreso dell'arrivo di Silverio a Roma, V. ottenne da Belisario che gli venisse consegnato. Solo allora lo mandò nelle isole Pontine, dove Silverio morì di fame. È dunque difficile distinguere, in questi racconti, ciò che attiene alle spiegazioni elaborate successivamente dai fautori dei Tre Capitoli per rendere conto dell'atteggiamento, ai loro occhi incomprensibile, di V., dalle circostanze reali in cui quest'ultimo fu elevato al soglio pontificio. Se la sua ambizione è indiscussa, tutto quanto concerne il complotto contro Calcedonia sembra rientrare pienamente nel dibattito sui Tre Capitoli. Non solo V., durante il suo pontificato, affermò costantemente la sua posizione di difensore di Calcedonia, ma i sostenitori dei Tre Capitoli, nel 545, contavano ancora su di lui per difendere le loro convinzioni: è il caso del suo amico Dazio, dei diaconi romani Stefano e Pelagio, del diacono di Cartagine Ferrando, di Facondo d'Ermiane nello scritto in difesa dei Tre Capitoli. Pertanto bisogna ritenere che a questa data i fatti che verranno esposti erano ancora ignoti. Le accuse contro V. furono quindi formulate più tardi, tra la redazione della prima opera di Facondo (548) e la fine del concilio di Costantinopoli (553). Si comprende meglio cosa sia accaduto a Roma fra il maggio 536 e il marzo 537, se si prende in considerazione la situazione militare dell'Italia e la politica di riconquista di Giustiniano. Quando accolse Agapito a Costantinopoli, Giustiniano sembrava in procinto di ristabilire il dominio imperiale in Italia. Il suo ambasciatore Pietro, inviato a Ravenna da Teodato, era rientrato in primavera per comunicare l'offerta del re, il quale, atterrito dall'annuncio dello sbarco bizantino in Sicilia, si dichiarava disposto ad abdicare in favore dell'imperatore (Procopio, De bello gothico V, 6, 12-13). Ma al ritorno degli ambasciatori a Ravenna, Teodato, incoraggiato dalla vittoria delle sue truppe a Salona, imprigionò gli emissari dell'imperatore (ibid. V, 7, 11-26). Agapito morì nel momento in cui l'imperatore ritenne di aver ristabilito il controllo sull'Italia. È verosimile che Giustiniano intendesse influire sull'elezione del nuovo pontefice, secondo una prassi attestata per Costantinopoli, che sarà applicata in modo sistematico a Roma dallo stesso imperatore e dai suoi successori negli anni seguenti. La figura di V., la sua anzianità all'interno del clero romano, la pratica negli affari, la dimestichezza con la corte imperiale, le relazioni familiari con l'aristocrazia italiana, lo designavano come il candidato dell'imperatore. V., sul soglio pontificio, avrebbe assicurato l'appoggio dei senatori romani ancora al servizio della monarchia gota. Ma nel giugno 536, a Roma, l'elezione avvenne sotto il controllo, e forse l'influenza, di Teodato. Silverio era un semplice suddiacono quando fu elevato al pontificato, una situazione anomala che suggerisce un intervento esterno al clero. In dicembre i Goti, delusi dall'inerzia di Teodato, scelsero come loro nuovo capo Vitige, risoluto ad opporsi ai Greci. Nel contesto della guerra gota si comprende l'importanza della posizione politica del vescovo di Roma. Abbandonando la città di fronte all'avanzare dei Bizantini, Vitige aveva portato con sé i senatori ancora presenti, tra cui il fratello di V., Reparato. Il vescovo era senz'altro il solo personaggio illustre rimasto sul posto. Silverio aveva usato la propria influenza per incoraggiare i Romani ad aprire le porte a Belisario, onde evitare gli orrori perpetrati contro i Napoletani, secondo il racconto di Procopio (ibid. V, 14, 4), ma questa motivazione non lo rendeva un alleato così affidabile. Per questa ragione non è opportuno sorvolare sulle accuse di tradimento sollevate contro di lui e che Procopio non ritiene infondate: nella primavera del 537 Roma era assediata dai Goti, e Belisario era certamente più preoccupato di conservare la città che di favorire la riabilitazione dei severiani monofisiti. La data dell'intervento di Belisario contro Silverio, molti mesi dopo aver ripreso il controllo della città, contribuisce ad avvalorare l'ipotesi di una decisione politica. È comprensibile che il clero occidentale, avvezzo dalla fine del V secolo ad una forte autonomia nei confronti del potere politico, sia stato riluttante ad ammettere gli interventi imperiali nell'elezione del vescovo di Roma. Inoltre, nel quadro della polemica sui Tre Capitoli, era necessario trovare delle spiegazioni per la debolezza di V. di fronte al potere imperiale. Ma se l'ambizione e la determinazione del nuovo papa sono indiscusse, il seguito del pontificato di V. non autorizza ad accreditare l'ipotesi di un complotto contro Calcedonia. Di tutti i protagonisti della vicenda solo Teodora, e forse Antonina, moglie di Belisario, erano convinte monofisite; V., al pari di Giustiniano, affermò sempre con forza la sua fedeltà a Calcedonia e al Tomus di papa Leone. Se anche V. era stato il candidato dell'imperatore, i casi della guerra isolarono il nuovo papa da ogni influenza imperiale fino al 540. Le due lettere risalenti ai primi tempi del pontificato attribuite a V. devono essere respinte perché non autentiche, come pure le testimonianze del Liber pontificalis. Liberato e Vittore di Tunnuna trasmettono il testo di una lettera che V. avrebbe scritto, su richiesta e con la mediazione di Antonina, ai suoi "cari fratelli" Teodosio, Antimo e Severo. Si tratta di una professione di fede accompagnata da cinque anatemi, quattro anti-calcedonesi e il quinto contro Paolo di Samosata, Dioscoro, Teodoro, Teodoreto e tutti coloro che ne venerano la memoria. Questo testo è ancora più inverosimile degli altri prodotti da Liberato, poiché V. non aveva nulla da guadagnare dall'appoggio diretto dei monofisiti orientali, soprattutto in un momento in cui gli era utile, assai più del sostegno occulto di Teodora, quello di Giustiniano, difensore rigoroso di Calcedonia, e del clero romano, profondamente legato alla memoria di Leone. I tre vescovi destinatari della lettera erano effettivamente perseguitati dal potere imperiale. Nel 537 solo Teodosio occupava ancora la sua sede ad Alessandria. L'autore di questa lettera non è un cinico ambizioso, come altrove lo dipinge Liberato, ma un monofisita convinto. Lo stesso Duchesne, pronto a credere V. capace di ogni iniquità, ritiene che la lettera sia uno di quei "documenti segreti, facilmente apocrifi" di cui lo storico ha il dovere di diffidare. Il documento circolava negli ambienti africani dopo la morte di V., una circostanza che certo non ne garantisce l'autenticità. Su un altro versante, la professione di fede, in questo caso perfettamente ortodossa, pubblicata dal cardinale Pitra nel 1858 non dev'essere attribuita a V. ma a Pelagio. In effetti, appare abbastanza logico che solo dopo la riconquista di Roma da parte dei Bizantini sia stato possibile riallacciare i rapporti epistolari tra Roma e l'Oriente. L'assedio della città, durante il quale V. era stato elevato al soglio - un periodo poco favorevole agli scambi - si concluse nella primavera del 539. Nel 540 Giustiniano affidò al "comes domesticorum" Domnico, inviato a Ravenna per negoziare la resa di Vitige, una lettera destinata al vescovo di Roma, di cui si conosce il tenore grazie alla risposta di Vigilio. Quest'iniziativa di Giustiniano tradisce l'inquietudine a proposito dell'ortodossia del pontefice e della sua fedeltà alla causa bizantina. Nella risposta il papa si difese dall'implicito rimprovero di non rallegrarsi nel vedere Giustiniano estendere il suo impero su tutti i popoli ("absit ergo a nobis ut, quod omnibus fratribus et coepiscopis nostris generare gaudium profitemur, nostrum non aut cum omnibus misceatur, aut, quod magis dignum est, supra cunctos emineat", ep. a Giustiniano, in Collectio Avellana 3, p. 349), ma il modo in cui ribadiva la sua ortodossia induce a pensare che l'imperatore avesse manifestato dubbi in proposito. La lettera di V. si apre con l'affermazione della conformità della fede del vescovo di Roma con quella dei suoi predecessori ("et licet pietatem uestram aliter de taciturnitate nostra suspicari uel intellegere uoluerit malignus interpres, nos tamen beatus Petrus apostolus omni poscenti rationem reddere pia traditione constituit", ibid. 12, p. 352). A dispetto del tono deferente, la lettera pontificia esprimeva riserve nei confronti della politica imperiale. Se pure il papa si rallegrava nel vedere che Dio aveva concesso all'imperatore un'anima non solo imperiale ma anche sacerdotale (ibid. 2, p. 348), esortava tuttavia Giustiniano a non intraprendere nulla di nuovo in materia di fede limitandosi ad applicare le decisioni prese dai concili di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia, come pure dai suoi predecessori sulla cattedra di Pietro, Leone, Ormisda, Giovanni e Agapito. Per la prima volta un papa annoverava quello di Costantinopoli fra i concili ecumenici riconosciuti dalla Chiesa, una conseguenza logica della riconciliazione tra il pontefice e l'imperatore piuttosto che una concessione all'influenza orientale. D'altra parte, V. ribadiva le condanne emesse dai suoi predecessori fino ad Agapito incluso, citando "Severo di Antiochia, Pietro di Apamea [vescovo monofisita esiliato contemporaneamente a Severo], Antimo, Zora [il monaco Zeroa di cui parla la cronaca di Michele Siriano], Teodosio di Alessandria", e aggiungendo anche Costantino di Laodicea e un Antonino "uersetanus" la cui sede non è stata identificata (ibid. 9-10, p. 351). Per finire, esprimeva con apprensione l'auspicio di non vedere mai Giustiniano attaccare i privilegi della sede di Pietro e chiedeva all'imperatore di usare il suo potere d'intervento solo per insediare nella Sede apostolica degli ortodossi, graditi a Dio e dalla fede senza macchia (ibid. 4-15, p. 353). Questa lettera era probabilmente la prima indirizzata all'imperatore dopo l'ascesa di V. al pontificato. Le incertezze dell'imperatore sulla posizione del papa non sarebbero comprensibili nell'ipotesi contraria, e l'isolamento di Roma durante questo periodo spiega come V. abbia potuto sottrarsi alle pressioni imperiali. È verosimile che il papa mantenesse i contatti con il suo apocrisario a Costantinopoli, il diacono Pelagio, che svolgeva un ruolo significativo nella politica religiosa di Giustiniano, ma non se n'è conservata alcuna traccia. Il contrasto tra l'atteggiamento di V. prima del pontificato e il tono delle lettere scritte a Giustiniano e a Menas nel 541 forse non è dovuto solo alla grazia che viene connessa alla funzione pontificia. Il Baronio poteva pure scrivere che, una volta "divenuto papa, egli proferisce parole nuove, profetizza in accordo con i santi padri, con una mirabile trasformazione, si è mutato in un altro uomo, da nemico in difensore, da persecutore in predicatore, da blasfemo in confessore, e in ogni cosa da perfido in devoto" (Annales, ad a. 540, p. 606), e Duchesne dichiarare con maggior asciuttezza che "gli ambiziosi non sempre sono degli inetti. Divengono anche onesti, una volta che non hanno più interesse a non esserlo" (Vigile et Pélage, pp. 369 ss.), eppure le lettere del 540 autorizzano analisi differenti. In primo luogo, è opportuno sottolineare che il contrasto si presenta tanto più apparente essendo fondato su una visione perlomeno deformata di V. prima del pontificato e che, per avere un'idea della politica papale, si deve dare la priorità alla lettera di Giustiniano, il più antico documento autentico in nostro possesso. D'altra parte, è necessario rilevare che la posizione di V. nei confronti dell'imperatore già testimonia un'evoluzione sensibile a paragone dei suoi predecessori. Riconoscendo a Giustiniano "un'anima sacerdotale", V. si allontanava dal modello gelasiano, che distingue nettamente l'autorità del sacerdote dal potere del principe. Dava atto a Giustiniano di una competenza in ambito teologico il cui unico limite risiedeva nell'impossibilità di introdurre novità in materia di fede. Ma questo divieto non era esclusivo del principe, poiché riguardava ogni cristiano, compreso un vescovo, o i vescovi riuniti in concilio. Proprio da quest'ambiguità sono scaturiti in seguito tutti gli equivoci emersi nel dibattito sui Tre Capitoli. Analogo era il distacco nella sfera più concreta dei privilegi della Sede apostolica e della designazione del vescovo di Roma. V. ammetteva il principio di un intervento imperiale, che non rientrava nella tradizionale prassi romana. Forse era un modo per legittimare retrospettivamente la propria ascesa al pontificato e il ruolo che vi avevano svolto le autorità bizantine. La conseguenza logica del ritorno di Roma sotto l'autorità imperiale era l'assimilazione delle Chiese occidentali al modello delle Chiese orientali, e V. non si contraddiceva ammettendola. D'altronde, è possibile che abbia sottoscritto il decreto di condanna di Origene, pubblicato dall'imperatore nel 543, se gli fu inviato contemporaneamente a Menas di Costantinopoli, Zoilo di Alessandria, Efrem di Antiochia e Pietro di Gerusalemme, circostanza attestata unicamente da Liberato. Ad ogni modo fu il destinatario di un libello di Domiziano di Ancira, che esprimeva la collera dei sostenitori di Origene e, secondo Facondo che ne informa, la loro intenzione di vendicarsi. Facondo voleva stabilire in tal modo un nesso tra la condanna di Origene e quella dei Tre Capitoli, che appariva il frutto della vendetta degli origeniani, in particolare di Teodoro Askidas, vescovo di Cesarea di Cappadocia, e di Leonzio di Bisanzio. Sebbene la questione dei Tre Capitoli getti una vasta ombra sul pontificato di V., si è conservato un certo numero di documenti che illustrano la sua politica negli anni trascorsi a Roma fino al 544. È opportuno mettere in rilievo fino a che punto il nuovo papa si trovasse in una situazione insolita. Dal 476 al più tardi, ma in realtà dall'estinzione della dinastia teodosiana, i vescovi di Roma si erano confrontati con un potere vicino la cui legittimità era debole - quello degli ultimi imperatori e dei monarchi barbari - e un potere imperiale distante, impossibilitato ad esercitare un'influenza diretta sulla politica ecclesiastica occidentale, come testimonia lo scisma di Acacio, reso attuabile da questa lontananza che, a sua volta, ha contribuito ad accentuare. In questo contesto, Leone e Gelasio avevano saputo formulare, più di altri, i principi dell'autonomia dell'autorità ecclesiastica nei confronti del potere imperiale. Parallelamente, il costituirsi di entità politicamente autonome nelle antiche province occidentali aveva modificato la natura dei rapporti fra le Chiese locali e quella romana. L'unità delle comunità si manifestava su scala locale attraverso la riunione dei concili regionali: la monarchia franca cercava di esercitare una significativa influenza sulle sedi galliche, mentre le comunità africane, nel confronto con il potere vandalo, talvolta tra le persecuzioni, avevano mantenuto l'identità niceana. Alla luce di questi orizzonti nuovi, la Sede di Roma era senz'altro più che mai il simbolo dell'universalità della Chiesa, com'è attestato dal prestigio di papa Leone e dalla fedeltà degli Occidentali a Calcedonia, seppure i tentativi pontifici per esercitare un controllo più stretto sulla politica ecclesiastica si siano scontrati regolarmente con forti opposizioni. Nella stessa Roma la Chiesa aveva conquistato progressivamente una larga autonomia nei confronti del Senato, malgrado le resistenze di una parte dell'aristocrazia. Si erano andati delineando gradualmente i contorni di una relativa autonomia ecclesiastica, di cui davano testimonianza, oltre ai papi già menzionati, certe figure di vescovi come Epifanio di Pavia o Lorenzo di Milano, entrambi celebrati da Ennodio. Nello stesso periodo, in Oriente, i rapporti fra il principe e le Chiese si erano invece rinsaldati, e gli eventi che avevano preceduto l'elevazione di V. al soglio avevano già dimostrato fino a che punto le usanze bizantine erano divenute estranee alle consuetudini occidentali. Il compito di V. appariva quindi profondamente nuovo, poiché era il primo papa, formalmente a partire da Simplicio ma in realtà da Leone, ad esercitare le sue funzioni sotto l'autorità diretta dell'imperatore. È in questa prospettiva che si devono valutare i risultati della sua politica. Le collezioni arelatensi hanno conservato otto lettere di V. indirizzate ai vescovi gallici. Nella primavera del 538 il pontefice aveva ricevuto Moderico, un legato di Teodeberto, giunto per interrogarlo sulla situazione matrimoniale del re, il quale aveva sposato la vedova del fratello. V. diede la sua risposta a Cesario di Arles in una lettera datata 6 maggio: era indispensabile imporre una lunga penitenza ed esigere la separazione dei coniugi (ep. 38, in Collectio Arelatensis). Dopo un'interruzione dovuta senza dubbio a ragioni politiche, dato che i Franchi negli anni seguenti furono impegnati a combattere a fianco dei Goti contro i Bizantini, le relazioni ripresero nel 543. Il nuovo vescovo di Arles, Auxano, inviò a Roma una legazione composta dal presbitero Giovanni e dal diacono Teredio, per annunziare la sua elezione e richiedere il "pallium". V. rispose nell'ottobre 543, felicitandosi per l'elezione conforme ai canoni e ai costumi stabiliti dai suoi predecessori, esortò il nuovo vescovo ad imitare Cesario, il quale, avendo ricevuto la dottrina del Signore dalla Sede apostolica, non se n'era allontanato, e gli comunicò che avrebbe inviato il "pallium" richiesto non appena avesse ottenuto il consenso del "molto cristiano signor imperatore" (ep. 39, ibid.). Il 22 maggio 545 V., attraverso gli stessi legati, mandò due lettere ad Auxano e una terza indirizzata a tutti i vescovi gallici soggetti all'autorità di Childeberto (epp. 40-41, ibid.). Si trattava di ribadire con forza, forse in seguito a contestazioni, il ruolo di vicario che il papa voleva veder svolto da Auxano, riprendendo così il filo di un antico dibattito tra Roma e le Chiese delle Gallie. Nella lettera più estesa che accompagnava il "pallium", V. invitò il vescovo gallico a pregare Dio perché conservasse "i signori nostri figli, i molto clementi principi Giustiniano e Teodora", nonché Belisario, e l'esortò a servire attraverso le opere sacerdotali il re Childeberto e i principi (ep. 41, ibid.). V. perseguiva così la politica di vicariato delle Gallie, cercando di adattarla alle nuove occorrenze politiche dell'Impero. La duplice lealtà verso il re e l'imperatore richiesta dal papa secondo una gerarchia sottile ma precisa (il re è un figlio molto illustre, l'imperatore è ad un tempo un figlio e un maestro), segnalava i mutamenti intervenuti nella situazione politica. In occasione dell'elezione di Aureliano di Arles, nell'agosto 546, V. inviò il "pallium" al nuovo vescovo, sebbene allora non risiedesse più a Roma ma in Sicilia (epp. 43-44, ibid.). V. cercò anche di ricostituire il vicariato spagnolo, come testimonia una lettera a Profuturo di Braga, in cui incoraggiava il vescovo spagnolo a smascherare i priscilliani, ricapitolava la disciplina romana relativa al battesimo degli ariani e alla consacrazione dei luoghi di culto, fissava la data della Pasqua del 539, precisava la formula trinitaria del battesimo e ricordava il principio della preminenza romana (P.L., LXIX, coll. 19-20). Forse si possono ritrovare echi di questa politica di V. alcuni anni più tardi, allorché, nel pieno della bufera del dibattito sui Tre Capitoli, il vescovo milanese Dazio, prendendo le difese del papa di fronte alle pretese imperiali, affermò di parlare a nome delle Chiese d'Italia, di Gallia, di Spagna e del Regno di Borgogna. Questo insieme, che non corrispondeva più ad alcuna unità politica, e non era neppure più una circoscrizione ecclesiastica, aveva mantenuto una coesione religiosa abbastanza forte da essere proclamata a Costantinopoli davanti all'imperatore. Era senz'altro l'eredità dell'Impero, ma forse anche il frutto della tenace politica di Vigilio. Nella stessa Roma V. è rimasto fortemente legato a Belisario. La notizia del Liber pontificalis dedicata a V., nella prima parte, si interessa unicamente dell'operato del generale bizantino, che agiva in veste di protettore della Chiesa di Roma. Egli donò una croce d'oro tempestata di gemme di cento libbre, sottratta ai Vandali, fondò uno "xenodochium" sulla via Lata, l'attuale S. Maria in Trivio che nel Medioevo si chiamava S. Maria in Xenodochio, in cui un'iscrizione medievale, ancora visibile, ricorda la fondazione di Belisario, e un "monasterium" di S. Giovenale a Orte presso Narni. Il cronista tace completamente le imprese pontificie, peraltro documentate dalle iscrizioni. V. fece erigere una "basilica Vigilii", menzionata con questo nome nella Vita del suo lontano successore Vitaliano, che sembra essere stata un "triclinium" nel Palazzo del Laterano. Fondò anche una chiesa, forse dedicata ai ss. Quirico e Giulitta (martiri leggendari di Antiochia), a est del Foro di Augusto, a pochi metri di distanza dal tempio di Marte Ultore. Un'iscrizione scoperta nel 1548 in occasione del restauro dell'edificio per iniziativa del cardinale Alessandro Medici, e poi perduta, attestava la consacrazione dell'altare da parte di papa Vigilio. Questa chiesa a navata unica, con cappelle laterali e un'abside trilobata, secondo l'ipotesi di F. Guidobaldi potrebbe essere stata allestita in una parte della residenza di famiglia del pontefice. Il papa dedicò la sua attenzione anche alle catacombe devastate durante gli anni della guerra ("exterminatae sunt a Gothis", dice Le Liber pontificalis, p. 291), come è documentato da alcune iscrizioni fatte porre dal pontefice sia per sostituire le epigrafi damasiane andate perdute a causa dei danni provocati dai Goti, sia per commemorare i lavori di restauro realizzati anche per potenziare ulteriormente i santuari martiriali in funzione del fenomeno del pellegrinaggio. Gli interventi che si possono attribuire con sicurezza a papa V. sono quelli relativi al cimitero "Iordanorum" sulla via Salaria "nova" (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, IX, nr. 24313), nel cui ambito venne ristrutturata la tomba del martire Alessandro con il rifacimento di alcuni tratti murari e la creazione della "fenestella confessionis", e quelli nella basilichetta ipogea del cimitero di S. Ippolito sulla via Tiburtina, nonché la ristrutturazione dell'"iter" dei pellegrini che rappresenta uno degli esempi meglio conservati e più significativi di percorso monumentalizzato in questo periodo. Nell'iscrizione metrica frammentaria si sottolinea che il papa è l'ispiratore dei lavori di rinnovamento curati dal presbitero Andrea (ibid., VII, nr. 19937). Altre iscrizioni menzionano analoghi lavori di restauro, attribuibili all'incirca ad epoca vigiliana, in altri cimiteri del suburbio senza però fare esplicito riferimento al committente. In particolare, di questo gruppo fanno parte l'epigrafe che ricorda il restauro e la decorazione della tomba del martire Diogene collocata dagli itinerari altomedievali nella chiesa di S. Giovanni presso il cimitero "ad clivum cucumeris", detto anche "ad septem palumbas", sulla via Salaria "vetus" (ibid., X, nr. 27258); l'iscrizione che menziona interventi di restauro presso il sepolcro dei ss. Crisanto e Daria nella catacomba di Trasone sempre sulla via Salaria "vetus" (ibid., IX, nr. 23752); l'iscrizione metrica rinvenuta nel cimitero di Gordiano ed Epimaco sulla via Latina attestante i lavori di ristrutturazione da parte del presbitero Vincenzo (ibid., VI, nr. 15762). Nella catacomba di Generosa sulla via Portuense sono probabilmente da attribuire ad età vigiliana il restauro dell'"iter ad sanctos", attestato in un'iscrizione frammentaria di quest'epoca (ibid., II, nr. 4753), e le pitture che decorano il cubicolo martiriale, sulla cui datazione però gli studiosi non concordano. Infine è forse da attribuire a V. l'esecuzione di una copia di iscrizione damasiana di cui è stato rinvenuto un solo frammento nel cimitero di Calepodio sulla via Aurelia. V. doveva intraprendere assai più di un lavoro di restauro; l'Italia bizantina, anche prima della fine della guerra, non è l'Italia gota, né quella imperiale del V secolo. A Roma, in particolare, gli equilibri fra il potere del principe, l'influenza dell'aristocrazia senatoria e l'autorità del clero erano profondamente mutati, per il momento ad esclusivo beneficio delle forze imperiali. L'aristocrazia era stata particolarmente vessata dalla guerra. Alcuni degli aristocratici romani che qualche anno prima erano al servizio del Regno goto erano morti, come il fratello del papa Reparato, caduto nella disastrosa spedizione per liberare Milano nel 538; altri erano già partiti alla volta di Costantinopoli oppure erano entrati nel clero, com'è il caso del milanese Aratore, già "comes domesticorum" di Atalarico, divenuto suddiacono a Roma dopo il 537. È autore di un lungo poema che traduceva in versi gli Atti degli apostoli, dedicato al papa per ringraziarlo di averlo sottratto ai tormenti del secolo accogliendolo nella Chiesa. Il 6 marzo 544, durante l'ottava di Pasqua, nel presbiterio di S. Pietro in Vaticano, l'offrì solennemente al pontefice, forse in occasione dell'anniversario della sua elezione, in presenza di numerosi vescovi, diaconi e di una gran parte del clero. L'opera incontrò un tale favore che si decise di darne pubblica lettura nella chiesa di S. Pietro in Vincoli. Una folla di religiosi, nobili laici e gente del popolo ("religiosorum simul ac laicorum nobilium sed et populo diuersorum turba") si raccolse per ascoltare il poema, interrompendone la lettura con tali applausi che furono necessari quattro giorni per arrivare in fondo. Il ricordo di quest'evento si conserva nel processo verbale redatto dal primicerio dei notai, Surgenzio, e l'opera di Aratore fu depositata negli archivi della Chiesa. La lettera dedicatoria del poeta per il pontefice illustrava l'identificazione tra il papa e la pace ritrovata, ossia fra V. e il ritorno dell'autorità imperiale. La scelta degli Atti degli apostoli, in questo caso, dà l'opportunità di esaltare Pietro e Paolo, vale a dire Roma, ed è un modo di celebrare la superiorità del patronato apostolico sopra ogni altro, forse con una venatura polemica nei confronti di Costantinopoli: ad ogni modo si trattò di una manifestazione di devozione verso la funzione papale e la persona di Vigilio. Quest'evento rappresenta un positivo contrappunto all'immagine del papa che affiora nella notizia del Liber pontificalis. A detta del cronista, che non risparmia affatto il papa nei suoi anni romani, V. fu oggetto di una petizione rivolta dai Romani a Belisario, in cui si rimproverava al pontefice "di aver agito male con i romani e la sua plebe" e lo si accusava di omicidio: V. aveva colpito un notaro che era morto sul colpo; inoltre aveva fatto arrestare e giustiziare il marito della nipote Vigilia, il console Asterio, figlio di una vedova. La realtà di questa petizione, come pure delle vittime imputate al papa, non è attestata altrove, e il Liber pontificalis non rappresenta un testimone così attendibile per Vigilio. Il cronista mette in relazione la presunta petizione alla brusca partenza di V. per Costantinopoli, nel settembre 544, dove nell'ordine di allontanare il papa si leggeva la risposta dell'imperatrice all'appello dei Romani. Questa costruzione inverosimile induce a cogliere nel racconto non tanto gli echi di una reputazione violenta (e di forza fisica) del papa, quanto piuttosto il tentativo del cronista di comprendere successivamente l'evento aberrante della partenza di V. e della sua assenza da Roma negli ultimi sette anni di pontificato. Nel 545, probabilmente prima di abbandonare Roma, V. diede il suo consenso alla riorganizzazione dell'Illiria ecclesiastica decretata da Giustiniano. L'arcivescovo di Justiniana Prima, a partire da questo momento, avrebbe esercitato una giurisdizione sui vescovi dell'Illiria occidentale, rappresentandovi l'autorità della Sede apostolica "secondo quanto definito dal molto santo papa Vigilio". Il 25 novembre 545, V. lasciò all'improvviso Roma, scortato da forze militari bizantine. Solo il Liber pontificalis fornisce un resoconto dettagliato dell'evento. Il pontefice celebrava la messa nella chiesa di S. Cecilia a Trastevere, il giorno della festa della santa, quando lo scriba Antimo (un omonimo del vescovo severiano di Costantinopoli) irruppe nella chiesa, si impadronì del papa e lo portò su una nave, mentre il popolo li seguiva gridando per ricevere la benedizione finale. Una volta ottenuta, vedendo la nave allontanarsi, il popolo cominciò a gettare pietre e bastoni lanciandogli maledizioni: "Famis tua tecum! Mortalis tua tecum! Male fecisti Romanis, male inuenias ubi uadis". Trapela dal resoconto la cupa ostilità del redattore del Liber pontificalis e anche la scarsa coerenza della sua narrazione. Il popolo chiede di essere benedetto prima di maledire il papa, l'imperatrice sembra reagire alla petizione dei Romani continuando a perseguire il suo progetto di restaurare Antimo di Costantinopoli. Il dettaglio della collera manifestata dalla folla induce a mettere il relazione la partenza di V. con l'evoluzione della situazione militare. La posizione dei Bizantini, dopo l'allontanamento di Belisario e l'avvento di Totila, era diventata precaria in Italia e, in particolare, non era più assicurato l'approvvigionamento di Roma. L'ira della folla nasceva dalla consapevolezza che la partenza del papa la lasciava indifesa di fronte alla realtà della carestia ("Famis tua tecum") e alla minaccia della conquista della città. In assenza di V., non vi sarebbe stato un Leone a negoziare il ritiro delle armate nemiche. L'intervento di un ufficiale bizantino riecheggia le affermazioni di altre fonti, che addossano tutte all'imperatore la responsabilità della partenza di Vigilio. Vittore di Tunnuna sostiene che l'imperatore aveva "costretto con l'inganno V., vescovo dei romani, perché si recasse nella città imperiale"; il continuatore di Marcellino dichiara che il papa era stato convocato dall'imperatore; il clero italiano, nel 552, raccontava di V. "violente deductus a Costantinopoli". Se il ruolo svolto dall'imperatore è accertato, senza dubbio è eccessivo parlare nel 545 di una convocazione a Costantinopoli. V., accompagnato dalla quasi totalità del suo clero, si recò in effetti in Sicilia, dove si fermò più di un anno. Senz'altro Giustiniano desiderava unicamente avere la certezza che il papa non cadesse in mano ai Goti, sia che volesse garantirne la sicurezza o tenerlo nelle vicinanze per consultarlo a proposito delle delicate manovre teologiche che era in procinto di avviare. In entrambi i casi, questo gesto spezzava un legame molto forte tra il vescovo e la comunità cristiana di Roma, e la defezione di V. nel momento più tragico della storia cittadina forse ha avuto un ruolo più determinante della condanna dei Tre Capitoli nella costruzione della sua "fosca leggenda". Se ne può ritrovare l'eco nella curiosa formula secondo la quale V. "ha fatto del male ai romani", ripetuta due volte dal cronista del Liber pontificalis. Dalla Sicilia V. continuò comunque ad occuparsi della sua Chiesa, procedendo ad alcune ordinazioni di presbiteri e di diaconi. Da Siracusa secondo Procopio, da Catania secondo il Liber pontificalis, il papa mandò verso Porto, rimasta in mano ai Bizantini, un convoglio carico di viveri per approvvigionare Roma riconquistata da Totila, scortato dal diacono Ampliato, che doveva sovrintendere all'amministrazione dei beni della Chiesa, e dal vescovo Valentino, preposto al governo del clero. Il convoglio fu catturato dai Goti e Valentino, accusato di tradimento, subì il taglio delle mani (Procopio). Ampliato riuscì senz'altro a fuggire, perché svolse l'incarico di "vices pontificis" a Roma almeno a partire dal 552 (Pelagio, ep. 14, p. 45). Nel frattempo Pelagio, tornato da Costantinopoli al più tardi nel corso dell'anno, fu mandato a sua volta a Roma come rappresentante del papa poco prima del dicembre 546. Il pensiero di Roma non era la sola preoccupazione di V. durante il soggiorno siciliano. Se non ne aveva sentito parlare in precedenza, scoprì la documentazione relativa ai Tre Capitoli, condannati da Giustiniano, che aveva suscitato per questo la violenta opposizione degli Occidentali presenti a Costantinopoli. Per V. cominciavano lunghi anni di tribolazioni e per la Chiesa intera si profilava la minaccia di un nuovo scisma fra Oriente e Occidente. Tra il 543 e la fine del 545, a conclusione di una lunga riflessione teologica avviata nel 532, Giustiniano aveva pubblicato un testo che condannava Teodoro di Mopsuestia, alcuni scritti di Teodoreto contro Cirillo di Alessandria e una lettera del vescovo Ibas, che conteneva propositi ostili a Cirillo, un insieme di anatemi evocati per la prima volta in occasione di una conferenza mirata alla riconciliazione con un gruppo di vescovi severiani nel 532 e ben presto noti con il nome di Tre Capitoli. Giustiniano, come spiegò in seguito durante un concilio di vescovi illirici, riteneva in tal modo di assolvere il concilio di Calcedonia da ogni sospetto ricusando opinioni manifestamente eretiche. La denuncia dei Tre Capitoli era un oggetto d'intesa fra i severiani e Giustiniano, sulla base del quale forse l'imperatore sperava di poter restaurare l'unione con i monofisiti. Ma il decreto di Giustiniano suscitò l'opposizione dei vescovi, timorosi che la condanna dei Tre Capitoli fosse un attentato al concilio di Calcedonia. Menas, vescovo di Costantinopoli, accettò di sottoscriverlo dopo aver cercato invano di temporeggiare; gli altri tre patriarchi orientali subordinarono la loro firma a quella del papa, mentre il nuovo apocrisario romano a Costantinopoli, il diacono Stefano, annunciava il rifiuto di Roma e interrompeva la comunione con Menas, senza aver sentito il parere di Vigilio. Tale posizione radicale determinò l'adesione dei calcedonesi rigorosi, ma non vi fu unanimità fra tutti gli Occidentali presenti presso l'imperatore. Gli eventi si verificarono dopo il 542 e prima della fine del 545, senza che si abbiano indizi del coinvolgimento del papa in queste prime fasi del dibattito. V. fu raggiunto in Sicilia da Dazio di Milano, proveniente da Costantinopoli per informarlo sulle posizioni assunte dagli uni e dagli altri. Ricevette anche una legazione di Zoilo, vescovo di Alessandria, che esprimeva il rammarico del metropolita per aver accettato di sottoscrivere, seppure con riserve, il decreto imperiale. Tutti i chierici della cerchia del papa videro nel decreto imperiale un intollerabile attacco all'integrità del concilio di Calcedonia. Secondo la testimonianza di Facondo, che torna a due riprese su questo punto, V. espresse immediatamente la sua approvazione per la fermezza mostrata da Stefano e pretese da coloro che avevano mantenuto la riserva in attesa della sentenza papale una debita soddisfazione, "e non l'avrebbe chiesta", commenta Facondo, "se avesse giudicato che non vi era nulla di contrario al concilio di Calcedonia". Contemporaneamente il diacono Ferrando di Cartagine, consultato dai diaconi romani Pelagio e Anatolio, esponeva a sua volta le ragioni per cui si opponeva alla condanna. Semplice diacono, ma forte della sua reputazione di discepolo di Fulgenzio di Ruspe, Ferrando comunicò ai "suoi santi fratelli e colleghi Pelagio e Anatolio" un responso categorico. Il concilio di Calcedonia formava un tutto indissolubile, quindi era impossibile revocarne una qualsiasi parte senza compromettere la sua autorità. D'altra parte, era inconcepibile anche giudicare prelati morti nella pace della Chiesa. È difficile sapere se V. allora avesse un'opinione personale sulla questione e quale fosse. S'è visto che è illusorio fare riferimento alle testimonianze elaborate successivamente, che immaginano un'intesa segreta ostile a Calcedonia con Teodora. È possibile unicamente formulare alcune ipotesi fondate sul buon senso. Si dice che V. non conoscesse il greco, ma il soggiorno prolungato a Costantinopoli intorno al 536 l'aveva senza dubbio avvicinato assai più di molti suoi contemporanei ai significati dei dibattiti cristologici. La tesi che a Roma appariva semplice - il concilio di Calcedonia è intoccabile - nella città imperiale era più sfumata: l'unità della fede recuperata con il ritorno alla comunione romana aveva originato a sua volta altre divisioni e, dalla loro condanna nel concilio del 536, i monofisiti tendevano a formare una Chiesa separata sottratta al controllo imperiale. Fin dal principio del suo regno Giustiniano aveva manifestato a varie riprese la sua ansia di riconciliazione. Non è impossibile che V. sia già stato presente a Costantinopoli durante la conferenza del 532, dove forse aveva sentito parlare delle speranze di riconciliazione e del loro fallimento, poiché la conferenza si era arenata proprio sui nomi di Teodoro, Teodoreto e Ibas, che il concilio di Calcedonia aveva onorato, provando così la sua eterodossia agli occhi dei sostenitori di Severo di Antiochia. Data la sua familiarità con l'imperatrice Teodora, V. era necessariamente al corrente dell'imponente documentazione teologica, circostanza testimoniata anche dai rimproveri che gli sono stati mossi a proposito della sua ascesa al soglio pontificio. Dunque V. non era ignaro dei fatti quando approvò l'intransigenza dei suoi diaconi nei confronti degli Orientali, e in particolare la scomunica di Menas per iniziativa di Stefano. Su quali elementi si fondava la posizione occidentale di radicale rifiuto del decreto giustinianeo? I testi che espongono gli argomenti calcedonesi ostili alla condanna dei Tre Capitoli sono numerosi, e i più importanti sono quelli africani. Si è già riferito del consulto con Ferrando. Poco più tardi, dopo l'arrivo di V. a Costantinopoli ma prima dello Iudicatum del 548, il vescovo di Ermiane, Facondo, compose l'opera Pro Defensione Trium Capitulorum. Lo stesso V. ha illustrato in alcune delle sue lettere la posizione romana, in particolare nel "constitutum", pubblicato mentre era già riunito il secondo concilio di Costantinopoli. Infine, dopo la capitolazione di V., Pelagio scrisse a sua volta In defensione Trium Capitolorum, un testo che è insieme una professione di fede e un virulento attacco contro Vigilio. Leggendo tutte queste opere, si può notare che in otto anni la posizione degli Occidentali non è cambiata. Facondo, fin dall'inizio del conflitto, ha enunciato tutti gli argomenti del dibattito. I difensori dei Tre Capitoli adducevano tre argomenti: affermavano che, essendo stati Teodoro e Ibas non solo ricevuti a Calcedonia ma anche restaurati nelle loro sedi, di cui li aveva privati il "latrocinio di Efeso", condannarli equivaleva ad attentare al concilio nel suo complesso e alla sua capacità di giudicare rettamente, poiché, se il concilio aveva potuto ingannarsi sugli uomini, aveva potuto ingannarsi anche sul resto. Dunque bisognava accettarlo nella sua totalità, senza respingerne nulla. D'altra parte, mentre Giustiniano affermava che la lettera di Ibas, la quale conteneva palesemente passaggi interpretabili in senso nestoriano, era un falso, i calcedonesi ribattevano che, essendo stata riconosciuta a Calcedonia, i passaggi incriminati non potevano essere nestoriani. Infine - ma solo Facondo ebbe l'ardire di fare questa riflessione - veniva messa in discussione la competenza dell'imperatore a giudicare in materia di fede: da un lato, l'anatema può essere lanciato unicamente dalle autorità ecclesiastiche, dall'altro, giudicare uomini sepolti nella pace della Chiesa equivale a recare pregiudizio alle decisioni divine. Tutti gli elementi del dibattito erano a conoscenza di V. prima del suo arrivo a Costantinopoli. Quando lasciò la Sicilia, nell'autunno del 546, pare fosse pronto a comportarsi come un novello Agapito di fronte a Giustiniano e ad esigere l'abolizione del decreto. V. affrontò il viaggio alla volta di Costantinopoli scegliendo la via adriatica, attraversò l'Illiria passando da Salonicco, dove incontrò il diacono Sebastiano, rettore del patrimonio romano in Dalmazia; il 14 ottobre 546, trovandosi a Patrasso, consacrò vescovo di Ravenna il diacono di Pola Massimiano, candidato di Giustiniano (Agnellus, 70). Il viaggio verso Costantinopoli sembrava configurarsi come una sorta di esodo della Chiesa romana. Nel raccontare dell'allontanamento forzato da Roma, il 25 novembre, il Liber pontificalis aveva evocato gli amici del papa ("amatores eius"), che l'avevano seguito nell'esilio. Di fatto, a Costantinopoli ritroviamo numerosi chierici romani, alcuni dei quali erano già insieme al loro vescovo durante il soggiorno in Sicilia. Quest'ampia cerchia ha svolto un ruolo molto significativo non solo in rapporto alle decisioni del papa, ma anche all'opinione occidentale sui Tre Capitoli. Il papa ritrovò l'apocrisario Stefano, anche se per poco, dato che questo risoluto oppositore della condanna dei Tre Capitoli morì prima dell'aprile 548. Ma era accompagnato da molti diaconi della Chiesa di Roma: il nipote Rustico, e inoltre Sebastiano, Paolo, Sapato e Anatolio; solo Pelagio rimase a Roma. Il primicerio dei notai, Surgenzio, continuava a svolgere le sue funzioni a fianco di V.; con i suddiaconi Pietro, Servusdei e Vincenzo, e con i chierici Giovanni, Geronzio, Severino, Importuno, Giovanni alter e Deusdedit, il cui rango non è precisato, intorno a V. si ricostituì almeno una parte degli ambienti ecclesiastici romani. Nella cerchia del pontefice erano rappresentati anche alcuni vescovi italiani: Dazio di Milano, Giovanni dei Marsi, Zaccheo di Squillace, Giuliano di Cingulum. A questo gruppo di ecclesiastici si aggiungevano gli esiliati, che in momenti diversi avevano preferito stabilirsi a Costantinopoli piuttosto che restare nell'Italia in guerra. Cetego, Liberio e Cassiodoro formavano una vera e propria comunità italiana ben nota al papa. In quest'ambiente le opinioni sulla condotta da tenere a proposito dei Tre Capitoli erano divise: si delineavano tre raggruppamenti, il primo dei quali, il più numeroso, era propenso ad approvare la condanna imperiale. Era rappresentato da aristocratici, come Cetego e Liberio, e anche da chierici, fra cui il diacono Sapato e il primicerio dei notai Surgenzio. Le loro motivazioni erano largamente politiche: poiché le sorti dell'Italia ormai dipendevano dall'imperatore, conveniva sostenere la sua politica religiosa. Il secondo gruppo, composto esclusivamente da chierici, era invece violentemente ostile alla condanna. Fortemente influenzato dagli argomenti teologici degli Africani, raccoglieva il maggior numero di diaconi: al primo posto Stefano, la cui fedeltà alla causa di Tre Capitoli fu celebrata da Facondo, ma che morì, come detto, presto, e poi Rustico e Sebastiano insieme a Pelagio e Anatolio, che avevano consultato Fulgenzio di Ruspe all'atto della pubblicazione dell'editto imperiale. Gli Africani presenti a Costantinopoli, Facondo, il monaco Felice, rientravano anch'essi in questo schieramento. L'ultimo gruppo, infine, aveva scelto come linea d'azione l'appoggio incondizionato alla politica papale: il diacono Paolo, i vescovi Giovanni e Giuliano, e ancor più di loro il fedelissimo Dazio di Milano, nei quali si possono riconoscere gli "amatores" di Vigilio. Si possono annoverare tra questi ultimi anche i vescovi illirici Proietto di Naisso, Paolo di Iustiniana Secunda (Ulpiana) e Sabiniano di Zappara, tutti presenti al concilio del 553. V. giunse a Costantinopoli il 24 dicembre 546, secondo il Liber pontificalis, il 25 gennaio 547 a detta del continuatore di Marcellino. Il cronista romano sostiene che l'imperatore andò incontro al papa e l'accompagnò in corteo fino a S. Sofia, come all'epoca dei viaggi di Giovanni e di Agapito, ma il racconto è reso poco attendibile dalla seguente ipotesi di una concelebrazione del Natale con Menas. Facondo d'Ermiane dice piuttosto chiaramente che V. aveva mantenuto la scomunica del vescovo di Costantinopoli, e la cronaca di Teofane fa risalire la riconciliazione fra i due vescovi al 29 giugno 547. Il papa manteneva quindi la linea dura adottata dal suo apocrisario, ma contemporaneamente avviava con Giustiniano un dibattito di fondo sulla pertinenza della condanna dei Tre Capitoli. Nel marzo 547 Giustiniano fece tradurre per il pontefice due lettere di Costantino sul ruolo che l'imperatore deve svolgere nelle questioni religiose. Conservate in una collezione italiana che concerne i Tre Capitoli, le lettere illustrano uno dei piani su cui si colloca il dibattito: la legittimità delle autorità a legiferare in materia di fede. Secondo il racconto più tardo dell'imperatore, V. s'impegnò in due lettere segrete a condannare i Tre Capitoli. Se quest'informazione appare sospetta, come sempre accade quando si citano documenti segreti, in compenso è accertato che all'inizio del 548 V. assunse un atteggiamento assai più flessibile rispetto al rifiuto reciso dei primi momenti. Al principio dell'anno organizzò un sinodo, che riunì circa settanta vescovi presenti nella capitale, per consultarli in proposito. Nel corso delle discussioni, l'argomentazione di Facondo contro la condanna imperiale ottenne un successo che allarmò i fautori del decreto. V. allora sostituì al sinodo una consultazione individuale sotto il controllo imperiale. Facondo d'Ermiane, nella prefazione del Pro Defensione riferisce di aver dovuto redigere una risposta argomentata in due settimane, comprese due giornate festive, e sotto la sorveglianza del "magister officiorum", senza poter avere accesso ad alcun libro. In seguito, giudicò che V. con questa procedura avesse voluto abbindolare i sostenitori di Calcedonia per ottenere una maggioranza di risposte favorevoli alla condanna. In effetti, il 3 aprile 548, Sabato santo, V. pubblicò lo Iudicatum, testo perduto e noto solo da estratti diffusi da Giustiniano. Secondo uno degli estratti, letto di fronte al concilio del 553, il papa anatemizzava esplicitamente Teodoro di Mopsuestia e i suoi scritti empi, la lettera blasfema inviata a Mari il persiano, che si diceva essere opera di Ibas, gli scritti di Teodoreto di Ciro, composti contro la vera fede, e i dodici "capitula" di Cirillo. A giudicare da quanto sostiene lo stesso V., che rievoca gli eventi nella lettera a Rustico e Sebastiano, egli esprimeva anche con forza il suo rispetto per tutte le decisioni in materia di fede prese dal concilio di Calcedonia. V. era intenzionato a far rispettare questo testo: interruppe la comunione con i due monaci africani Felice e Lampridio, che rifiutavano lo Iudicatum, e senza dubbio anche con Facondo, che allude a questa circostanza nel Contra Mocianum, pubblicato qualche anno più tardi. I diaconi romani, almeno in un primo tempo, accettarono il verdetto. È forse in questo periodo, quando i rapporti fra V. e Giustiniano probabilmente erano abbastanza buoni, che Paolo, già vescovo di Alessandria deposto nel 537 dagli apocrisari Pelagio, Efrem di Antiochia e Pietro di Gerusalemme, propose all'imperatore di restaurarlo nella sua sede in cambio di una ingente somma di denaro. Secondo Procopio, che ne dà notizia, V. si oppose risolutamente a questa decisione, perché non poteva contraddire il proprio giudizio pronunciato tramite Pelagio. La morte di Teodora, avvenuta poco dopo la pubblicazione dello Iudicatum, forse cambiò i connotati politici della situazione. Comunque è opportuno diffidare del ruolo che le attribuisce la cronaca di Vittore di Tunnuna nella vicenda dei Tre Capitoli. Il vescovo africano è l'unico a dipingerla come l'istigatrice segreta della loro condanna. Si avverte in Vittore una deliberata volontà di mettere in relazione i Tre Capitoli con una vendetta degli eutichiani contro Calcedonia. Si possiedono documenti sufficienti sulla politica di Giustiniano, per comprendere il ruolo personale e risoluto avuto dall'imperatore nel dibattito e per non dare un'eccessiva importanza né al luogo comune dell'origine necessariamente femminile dell'eresia, né a una qualsivoglia teoria del complotto. Non sembra che lo Iudicatum sia stato destinato ad una grande diffusione; se pure la cerchia di V. ne era a conoscenza, lo scritto era rivolto soprattutto all'imperatore e al patriarca, con il quale era stata restaurata la comunione. Ma sul fronte degli Occidentali il testo sollevò ben presto delle difficoltà: il diacono Rustico rifiutò di consegnarlo al primicerio dei notai Surgenzio, poiché questi era fortemente ostile a Teodoro di Mopsuestia, ma clandestinamente lo diffondeva tra i calcedonesi convinti, come il diacono Pelagio, all'epoca in Sicilia. Denunciati a più riprese dal papa, Rustico e Sebastiano portarono avanti con perseveranza una duplice campagna: difendevano il concilio di Calcedonia giudicandolo minacciato e si scagliavano contro V. rendendolo complice, se non responsabile, di questi attacchi nei confronti del sacro concilio. La campagna portò i suoi frutti in Africa, in Illiria, in Gallia e in Italia. Nel 550, secondo la cronaca di Vittore di Tunnuna, si riunì un sinodo africano che scomunicò V. per aver condannato i Tre Capitoli, pur lasciandogli la possibilità di ravvedersi. Secondo Vittore, i vescovi illirici in concilio deposero il loro metropolita, Benenato di Iustiniana Prima, perché aveva accettato lo Iudicatum. Il vescovo di Tomi scrisse a V. per lamentarsi delle voci incresciose che correvano sulla sua ortodossia, e il papa gli rispose, il 18 marzo 550, con una lettera che conteneva una professione di fede, proclamava la sua fedeltà ai quattro concili ed esponeva le difficoltà sollevate dagli scritti di Teodoro, Teodoreto e Ibas. Tutte le testimonianze concordano nel sottolineare le reazioni analoghe degli Africani e degli Illiri nella difesa dei Tre Capitoli. I vescovi della Gallia sembrano aver avvertito anche loro una possibile minaccia verso la fede, perché il concilio riunito ad Orléans nel 549, contrariamente alla consuetudine dei concili gallici, promulgò una dichiarazione di fede richiamandosi alle condanne di Eutiche e di Nestorio. Forse fu prima di questo concilio che Aureliano di Arles, avendo ricevuto il "pallium" da V. ed esercitando funzioni di vicario apostolico, inviò a Costantinopoli il legato Anastasio per recapitare al papa una lettera con richiesta di spiegazioni sulla situazione. La lettera fu consegnata al destinatario il 14 luglio 549 e V. rispose come a Valentiniano di Tomi. Queste lettere, che ribadivano la condanna dei Tre Capitoli riaffermando al tempo stesso la fedeltà del papa al concilio di Calcedonia, furono citate anche durante il concilio di Costantinopoli a riprova del consenso di V. alla politica di Giustiniano. Nel dicembre di quell'anno V. continuava a mantenere la sua linea di condotta di cauta adesione alla politica imperiale. Dopo alcune esitazioni, su richiesta dell'imperatore, accettò di concelebrare le feste della Natività con il patriarca Menas. Durante la celebrazione i diaconi Rustico e Sebastiano abbandonarono ostentatamente la chiesa. Il 18 marzo 551 V. li scomunicò solennemente insieme ad altri sei chierici. Al periodo successivo alla scomunica dei chierici romani, ma precedentemente al luglio 551, risale un nuovo episodio "segreto" dei negoziati sui Tre Capitoli. V. ottenne che Giustiniano annullasse lo Iudicatum, in condizioni che entrambe le parti denunciarono nel 553: secondo l'imperatore, il papa aveva giurato sui chiodi della Passione e sul Vangelo che non avrebbe contrastato la condanna dei Tre Capitoli, mentre secondo V. l'imperatore aveva giurato di non intervenire più direttamente, lasciando alle autorità ecclesiastiche il compito di pronunciarsi durante un concilio generale. In effetti Giustiniano cominciò a preparare un concilio, ma la sua organizzazione sfuggì quasi completamente di mano al papa. L'imperatore respinse la sua proposta di tenerlo in Occidente. Furono inviate lettere di convocazione in Illiria e in Africa. I vescovi illirici rifiutarono di partecipare al concilio, mentre dall'Africa giunsero alcuni vescovi, tra cui Reparato di Cartagine, che entrarono immediatamente in contrasto con l'imperatore. Reparato fu deposto ed esiliato con un banale pretesto; Fermo, primate di Numidia, secondo Vittore si fece corrompere dall'imperatore e accettò la condanna; Primasio di Adrumeto restò a fianco del papa, appoggiandone la politica fino al 553. Parallelamente, prima del 17 giugno 550, data del concilio provinciale di Cilicia II, Giustiniano ordinò un'inchiesta a Mopsuestia, dove il nome di Teodoro era stato sostituito sui dittici da quello di Cirillo, a dimostrazione, secondo l'imperatore, di una "damnatio memoriae" del teologo siriaco. I risultati dell'inchiesta furono trasmessi anche a Vigilio. I rapporti fra V. e Giustiniano verosimilmente non furono molto buoni durante questo periodo: il papa poteva legittimamente ritenere che l'imperatore non rispettasse il suo impegno, mentre il sovrano, da parte sua, si scontrava costantemente con la vivace opposizione degli Occidentali ad ogni suo progetto di condanna. In particolare, in seguito alla deposizione del vescovo di Cartagine, Facondo d'Ermiane pubblicò un aspro libello, Contra Mocianum scholasticum, in cui risparmiava più il papa che l'imperatore. Il fragile equilibrio che si era mantenuto per alcuni mesi si spezzò nel luglio 551, quando Giustiniano redasse un nuovo testo contro i Tre Capitoli, intitolato Confessio fidei adversus Tria Capitula, che rese immediatamente pubblico. Incaricò di portarlo al papa Teodoro Askidas, vescovo di Palestina e sostenitore di Origene, una scelta che poteva essere interpretata come una forma di provocazione. V. allora minacciò di scomunicare chi avesse pubblicato o approvato l'editto, ma questo passo non parve fermare la corte; alla fine, il 14 luglio, egli pronunciò a viva voce le scomuniche, con alcune riserve, poi lasciò il palazzo di Placidia dove dimorava per rifugiarsi nella chiesa di S. Pietro in Ormisda ("in beati Petri basilica ad Ormisdam"), nelle vicinanze della residenza degli apocrisari. Sotto la protezione diretta dell'apostolo scrisse la sentenza di scomunica, che venne sottoscritta dai tredici vescovi presenti. Secondo il racconto dei chierici dell'Italia settentrionale, informati dal vescovo Dazio, che partecipò all'evento, Giustiniano fece ricorso alla forza per strappare il papa al suo rifugio: "Ciò nonostante, il beato papa Vigilio non guadagnò neppure una sede sicura nella basilica del beato Pietro, poiché vi fu mandato il pretore, cui competono solo ladri e assassini, e che, insieme ad una moltitudine di soldati con le spade snudate e gli archi tesi, entrò nella detta basilica. Vedendo questo, il santo papa si stringe alle colonne dell'altare, ma l'altro, in preda al furore, prima scaccia dall'altare i diaconi e i chierici afferrandoli per i capelli; poi tirano crudelmente, alcuni per i piedi, altri per i capelli o la barba, anche il santo papa, straziato". Ma V., novello Sansone, con la sua disperata resistenza provocò il crollo dell'altare, che seppellì senza distinzione aggressori e aggrediti. La folla, attirata dal frastuono, intervenne e schernì la truppa, costretta a ritirarsi disordinatamente. Dopo qualche tempo (i chierici italiani non forniscono indicazioni cronologiche più precise) il papa accettò comunque di tornare al palazzo imperiale, avendo ottenuto dall'imperatore la promessa che non sarebbe più stata compiuta alcuna violenza contro la sua persona o i suoi sostenitori e che non avrebbe tentato più di estorcere con la forza decisioni in materia ecclesiastica, un giuramento violato ben presto da una quantità di angherie. La situazione del papa e dei suoi difensori divenne a tal punto insostenibile che il 23 dicembre 551 V. abbandonò la sua residenza attraverso una delle finestre, per rifugiarsi nella chiesa di S. Eufemia di Calcedonia, lo stesso luogo in cui si era riunito il concilio del 451, ultimo baluardo contro le violenze del principe. Fu raggiunto da numerosi vescovi e chierici occidentali, tra cui Dazio di Milano e il diacono Pelagio. È possibile che la scelta di S. Eufemia, dopo S. Pietro, riflettesse l'evoluzione della posizione di Vigilio. Quando aveva cercato riparo in S. Pietro in Ormisda, il papa conveniva sul principio di una moderata condanna dei Tre Capitoli; si limitava a protestare contro una procedura che minacciava di compromettere l'unità delle Chiese occidentali e attentava al prestigio romano. Si metteva sotto la protezione del principe degli apostoli, forse sottolineando in tal modo il suo ruolo di successore di Pietro, come già aveva fatto a più riprese: "imitantes beatum Petrum, cuius sedem tenemus, etsi inmeriti", affermava minacciando di scomunica chi avesse accettato l'editto del luglio 548. I chierici italiani autori della lettera del 552 gli attribuiscono queste parole fiere poco dopo il suo arrivo a Costantinopoli, all'epoca dei primi conflitti con l'imperatore: "contestor quia etsi me captiuum tenetis, beatum Petrum apostolum captiuum facere non potestis"; anche a Roma, nel 544, V. aveva conferito la massima solennità alla lettura del poema di Aratore per ribadire, nella città tornata bizantina, l'incomparabile fulgore della Sede apostolica. Invece, rifugiandosi a Calcedonia, forse lasciava intendere di associarsi a chi aveva affermato, fin dall'inizio, che la condanna imperiale minacciava soprattutto il grande concilio. Così facendo accreditava paradossalmente la posizione di chi riteneva - in particolare nel Veneto, per più di mezzo secolo - che la condanna dei Tre Capitoli fosse d'ostacolo alla comunione con Roma. I primi tentativi di Giustiniano per persuadere V. a rientrare nella capitale furono infruttuosi. Inviando una legazione a Calcedonia il 28 gennaio, l'imperatore ricorse invano ai servizi di Belisario, che a Roma era stato per V. un protettore e un amico, e ai buoni uffici del patrizio Cetego, ben noto ai Romani; ormai il papa non credeva più alle promesse imperiali. Malgrado un nuovo messaggio dell'imperatore, del 4 febbraio, dal tenore assai impreciso in merito alle garanzie offerte al pontefice, V. il 5 febbraio firmò un'enciclica in cui rievocava tutti gli avvenimenti più recenti, esigeva il rispetto delle decisioni papali e del concilio di Calcedonia, e affidava a Dazio ulteriori negoziati. Poco più tardi e, a quanto sembra, dopo la notizia di nuovi attacchi brutali contro gli Italiani, fece pubblicare la sentenza di scomunica nei confronti di Teodoro Askidas e di altri chierici orientali, già redatta nel mese di agosto. Infine, con la sua ostinazione, riuscì ad ottenere un'autentica capitolazione da parte dell'episcopato bizantino e, indirettamente, dall'imperatore: in primavera gli scomunicati sottoscrissero un testo in cui chiedevano l'annullamento dell'editto del 551, condannavano le violenze inflitte al pontefice e respingevano qualsiasi relazione con scomunicati. V. accettò quindi di tornare a Costantinopoli, prima del 24 agosto 552. Per una parte degli Occidentali il papa divenne allora il campione della difesa dei Tre Capitoli. Una legazione franca, in viaggio verso Costantinopoli, ricevette da chierici dell'Italia settentrionale, informati dell'accaduto da Dazio di Milano, una memoria che riportava gli ultimi episodi della crisi, fino al ritiro a Calcedonia, in cui si mettevano in guardia i legati contro gli avversari del papa. Ma questo clamoroso successo si rivelò assai fragile: V., nel corso della sua battaglia, aveva perso l'importante appoggio di Dazio, deceduto prima di luglio. In agosto morì Menas, sostituito da Eutichio, il quale presentò al papa una professione di fede e lo invitò senza indugio a risolvere definitivamente la questione dei Tre Capitoli convocando un concilio. In gennaio la riunione del concilio ecumenico veniva annunciata ufficialmente dal nuovo patriarca di Costantinopoli. V. rinnovò la richiesta di tenere il concilio in Sicilia, per agevolare la partecipazione dei vescovi italiani e africani, ma ricevette un rifiuto. Malgrado l'invio di convocazioni in tutto l'Impero, furono pochi i vescovi occidentali in condizione di partecipare, e V. manifestò nei confronti dell'assemblea reticenze sempre più forti. Quando il concilio si aprì nella primavera del 553, il papa non aveva ancora deciso se prendervi parte. L'atteggiamento di V. nei riguardi del concilio si mantenne costantemente molto ambiguo: ne aveva accettato il principio, ma disapprovava le modalità della riunione. Era senz'altro sinceramente convinto della pertinenza della condanna delle deviazioni nestoriane denunciate dall'anatema sui Tre Capitoli (contrariamente a gran parte della sua cerchia), ma al tempo stesso consapevole delle divisioni che questa condanna poteva provocare fra gli Occidentali e dell'attentato che rappresentava ai danni del concilio di Calcedonia. Il 20 aprile 553 V., malato, chiese una proroga di venti giorni per esprimere il suo parere definitivo sui Tre Capitoli, ma s'ignora quale sia stata la risposta dell'imperatore. Il concilio si aprì senza attendere questo termine, in assenza del papa, dei suoi rappresentanti e di tutti i vescovi della sua cerchia. La prima sessione iniziò con la lettura di una lettera di Giustiniano, che rivelava ai convenuti tutte le trattative segrete intercorse tra il pontefice e l'imperatore, squalificando in tal modo qualsiasi ulteriore intervento del papa e lasciandogli unicamente la possibilità di partecipare all'assemblea avallandone le decisioni. Consapevole della situazione, il concilio, il 6 e 7 maggio, inviò agli Occidentali raccolti intorno al papa una delegazione composta da Belisario e dai patrizi Liberio e Cetego, per chiedere a V. di presenziare al concilio oppure di farsi rappresentare da un legato. Il papa rifiutò sostenendo che vi erano "molti vescovi orientali, e ben pochi con lui" e domandò all'imperatore di far venire vescovi dall'Italia. La richiesta fu respinta e i delegati del concilio protestarono non solo per l'inattuabilità del desiderio papale, ma perché si sentivano "in comunione e uniti" con lui e quindi soddisfare la sua richiesta avrebbe significato "dividere gli occidentali dagli orientali, che sono uniti e credono nelle stesse cose". Replicarono, d'altra parte, che i precedenti concili non avevano visto una maggiore partecipazione degli Occidentali. Allora il papa, in mancanza di una forte delegazione di vescovi latini, propose di "riunirsi in numero uguale. Io sceglierò tre vescovi che si riuniscano con me, e si riuniranno tre patriarchi e un vescovo, affinché ci troviamo quattro e quattro, ed emettiamo una sentenza scritta sui Tre Capitoli". Anche questa nuova proposta fu respinta. Innanzitutto, perché l'uguaglianza sarebbe stata falsa, in quanto uno dei patriarchi (quello di Roma) avrebbe avuto con sé tre vescovi, mentre gli altri tre riuniti ne avrebbero avuto soltanto uno. Un'autentica uguaglianza avrebbe richiesto che ciascun patriarca fosse accompagnato dallo stesso numero di vescovi e, ad ogni modo, non sarebbe stato decoroso far giudicare la questione unicamente da qualche vescovo quando si era radunata una tale moltitudine di prelati. Si è di fronte ad un disaccordo profondo sui meccanismi d'autorità: rifiutando la proposta di V., i delegati contestavano implicitamente qualsiasi statuto particolare al vescovo di Roma. Proponendo una conferenza dei patriarchi, V. negava la validità del concilio. Il dibattito sulla rappresentatività dei Padri del concilio è denso di significati. La proposta di V. presupponeva il riconoscimento di una diversità d'opinioni sull'argomento in discussione e quindi la necessità di un dibattito. La risposta degli Orientali, "qui uniti sibi inuicem sunt et eadem sapiunt", suggeriva che il solo compito del concilio consisteva nel confermare la fede, nell'enunciare ciò che già era noto, nell'esplicitare l'evidenza. Proponendo di sostituire il concilio con una conferenza, o almeno di ritardarlo, il papa manifestava indirettamente la sua adesione a questa concezione. Se era necessaria una rappresentanza equa delle diverse opinioni, significava che ancora non era giunto il momento del concilio. Di fronte al rifiuto del papa il concilio rivolse la stessa domanda agli altri vescovi occidentali, ricevendone il medesimo rifiuto a presenziare i lavori. Il 9 maggio, alla vigilia del termine della proroga chiesta dal pontefice, il concilio sospese le sue deliberazioni. Alla ripresa, il 12 maggio, il papa non aveva ancora comunicato il suo parere e i vescovi cominciarono il processo a Teodoro, cui seguì, il 13 maggio, quello a Teodoreto. Il 14 maggio V. concluse il "constitutum" sui Tre Capitoli, secondo testo romano in cui si prendeva posizione sulla questione dei Tre Capitoli. Questo scritto proibiva di attentare al concilio di Calcedonia, diffidava dall'oltraggiare la memoria di Teodoro di Mopsuestia, condannando tuttavia le proposizioni che gli venivano attribuite nei testi imperiali e rinnovando la condanna di Nestorio e di Eutiche, e infine vietava di condannare Teodoreto di Ciro e la lettera di Ibas letta al concilio. In conclusione, V. proibiva qualsiasi opposizione al "constitutum" e, più in generale, interdiva a chiunque di scrivere, dire o insegnare qualsiasi cosa a proposito dei Tre Capitoli, pena la deposizione. Il testo fu sottoscritto da diciassette vescovi e tre chierici romani, tra cui il diacono Pelagio. Ma l'interruzione del concilio, dal 13 al 19 maggio, non sembra connessa a questo testo, di cui non si fa cenno nella sesta sessione. Solo il 25 maggio V. spedì a palazzo il suo apocrisario per chiedere a Giustiniano (e non al concilio) di mandare a prendere il "constitutum". L'imperatore aveva ormai raggiunto una posizione di forza: un concilio ecumenico, regolarmente riunito, era in procinto di condannare i Tre Capitoli; il papa aveva superato i termini da lui stesso fissati della proroga. La delegazione imperiale, composta ancora una volta da Belisario, Cetego e Liberio, non mostrò alcun riguardo per il pontefice: l'opinione del papa non aveva più alcun valore, dato che si era già pronunciato e aveva rifiutato di essere rappresentato al concilio, ormai sul punto di risolvere definitivamente la questione. Il papa venne brutalmente maltrattato. V. ignorò l'aggressione e incaricò il suo apocrisario di portare direttamente il testo all'imperatore. Ma Giustiniano rifiutò perfino di leggerlo, dichiarando che, se conteneva la condanna dei Tre Capitoli, era superfluo guardarlo, mentre se li difendeva avrebbe contraddetto altri scritti del papa. Sono state spesso elogiate, a pieno titolo, le qualità teologiche e letterarie del "constitutum", la cui paternità viene attribuita non di rado al diacono Pelagio, con il pretesto che si tratta di un testo troppo pregevole per essere opera di Vigilio. Comunque sia, giunse troppo tardi per poter esercitare la minima influenza sugli eventi. Se pure fu registrato negli archivi della Chiesa romana, non venne mai diffuso. Durante la settima sessione, il 26 maggio, i vescovi ascoltarono il resoconto della legazione inviata il giorno precedente e, su suggerimento dell'imperatore, deposero il papa. Dopo aver provato, dalla lettura delle lettere di V., che il pontefice aveva cambiato opinione sui Tre Capitoli, venne letta una lettera di Giustiniano in cui si affermava che "il religiosissimo papa dell'antica Roma" si era reso lui stesso estraneo alla Chiesa cattolica difendendo l'empietà dei capitoli e, d'altra parte, "separandosi di propria iniziativa dalla vostra comunione", sicché, "essendosi reso estraneo ai cristiani, abbiamo giudicato che il suo nome non sarà menzionato nei sacri dittici, al fine di non trovarci, in tal modo, in contatto con le empietà di Nestorio e di Teodoro. […] L'unità con la sede apostolica, noi la serviamo e voi la custodite, questo è certo. Il mutamento di Vigilio, o di chiunque altro, non può nuocere alla pace delle Chiese". Il concilio rispose che "i progetti del molto pio imperatore sono conformi ["congrua sunt"] al lavoro che egli ha compiuto per l'unità delle sante Chiese. Serviamo dunque l'unità con la sede apostolica della sacrosanta Chiesa dell'antica Roma eseguendo ogni cosa secondo il contenuto del rescritto imperiale ["apex"] di cui è stata data lettura". L'ottava e ultima sessione, il 2 giugno, pubblicò i decreti del concilio. Ma V. non aveva ancora chiuso con Costantinopoli. La sua cerchia fu dispersa: i vescovi illirici rientrarono nelle loro diocesi e i difensori più attivi dei Tre Capitoli furono costretti ad abbandonarlo; Pelagio e Sapato, infatti, furono imprigionati, Rustico, di cui si ignora se allora fosse in comunione con il papa, e il monaco africano Felice furono esiliati in Tebaide, dove ritrovarono altri sostenitori dei Tre Capitoli, tra cui i vescovi africani Vittore di Tunnuna e Teodoro di Cebarsu, nonché il diacono di Cartagine Liberato. Al termine di sei mesi vissuti certamente in grande solitudine, V. accettò la condanna dei Tre Capitoli: l'8 dicembre 553 inviò ad Eutichio una lettera che equivaleva ad una vera e propria autocritica e gli permise di essere restaurato nella comunione bizantina in occasione delle feste di Natale; il 23 febbraio 554 pubblicò lo "Iudicatum della II indizione", riprendendo la condanna dei Tre Capitoli auspicata da Giustiniano, negli stessi termini del concilio. La riconciliazione con la Chiesa imperiale lo costrinse a prendere provvedimenti contro i propri chierici rimasti fedeli alla causa dei Tre Capitoli: dovette condannare il diacono Pelagio, che gli inviò tramite l'imperatore un "refutatorium". La riconciliazione con l'imperatore consentì comunque a V. di preparare il ritorno a Roma, dove si avvertiva la sua assenza. Secondo il Liber pontificalis, in città circolava una petizione in cui si chiedeva a Narsete "se il papa Vigilio poteva rientrare in Italia, nel caso fosse ancora vivo". V. allora era rappresentato a Roma dal presbitero Mareas, "praesulis vices", celebrato nel suo epitaffio per non aver rinnegato nulla della fede dei Padri e aver insegnato che il sacramento del crisma non può essere ripetuto ("Tuque sacerdotes docuisti crismate sancto / Tangere bis nullum iudice posse Deo"). G.B. de Rossi, nel pubblicare l'iscrizione, respinge la spiegazione che in essa si conservi la memoria del tentativo di invalidare le consacrazioni fatte da V., e sulle orme di G. Marini preferisce leggervi un'allusione al sacramento della cresima. Tuttavia, non è da escludere, negli ultimi anni del pontificato di V., una situazione molto agitata nella Chiesa di Roma priva del suo vescovo, che considerò Mareas, come recita l'epitaffio, "meritus pontificalis decus". Se pure V. restò ancora a Costantinopoli per due anni, il suo pensiero fu rivolto nuovamente alla penisola. Per sua richiesta, Giustiniano, nel 554, emanò la Prammatica Sanzione, un insieme di disposizioni legislative destinate a regolamentare l'Italia riconquistata e pacificata, in parte per annullare le disposizioni entrate in vigore sotto il regno di Totila: gli atti privati conclusi allora furono abrogati, a meno che ciò non fosse avvenuto tra Romani nelle città assediate (§§ 2, 5, 7); i proprietari recuperarono tutti i diritti sui loro beni mobili e immobili, inclusi gli schiavi che erano stati emancipati (§§ 3-5, 13-16), decisioni che favorivano in particolare gli interessi dell'aristocrazia e della Chiesa. L'imperatore ripristinò anche a Roma la distribuzione dell'annona e gli stipendi degli insegnanti, degli oratori, dei giuristi e dei medici (§ 22); volle dare impulso ai lavori di ricostruzione dei monumenti e dei porti (§ 25). La giurisdizione civile fu ristabilita (§ 23), le sedici province erano governate congiuntamente da un "dux" con funzioni militari e da un giudice "eletto dai vescovi e dai notabili di ciascuna provincia" (§ 12). In generale, furono restaurati i privilegi dell'aristocrazia e fu sanzionata dalla legge la nuova posizione occupata dal clero all'interno della società e dell'organizzazione politica. Venne dato a quest'Italia bizantina un inquadramento giuridico, secondo gli auspici di V. e con il fervido consenso dell'intera aristocrazia romana. Il vecchio papa s'imbarcò alla volta di Roma all'inizio del 555, afflitto dai calcoli di cui soffriva già da molto tempo. Morì senza aver rivisto Roma, il 7 giugno 555, a Siracusa, dopo diciotto anni, due mesi e nove giorni di pontificato, il più lungo dopo quello di Pietro. Il suo corpo, riportato a Roma, fu sepolto "ad sanctum Marcellum" (Le Liber pontificalis, p. 299), cioè nella basilica semipogea presso il cimitero di Priscilla sulla via Salaria "nova" dove era stato sepolto il papa e martire Marcello; lo stesso edificio nella Notitia Ecclesiarum è dedicato a s. Silvestro (Itineraria et alia geographica, p. 306). In un periodo successivo, non meglio precisabile, le reliquie di V. vengono traslate a S. Pietro in Vaticano dove Pietro Mallio ne vede il sepolcro al lato dell'altare di s. Silvestro. V. è l'unico fra i papi del VI secolo a non essere accolto nella basilica di S. Pietro. In questa decisione si deve scorgere senz'altro la prima espressione di una sottile "damnatio memoriae", che venne perseguita accortamente dal suo successore Pelagio. In effetti l'adesione alla condanna dei Tre Capitoli, se gli aveva riconquistato il favore dell'imperatore, aveva attirato su V. l'ostilità di quasi tutti coloro che erano rimasti saldi nella loro difesa. Mentre il papa era in vita, ma dopo il 553, Pelagio, durante la sua reclusione in un monastero aveva scritto, oltre alla confutazione già menzionata, anche l'opera In defensione Trium Capitolorum, dove irrideva la volubilità di V. definendolo prevaricatore della fede e accusandolo di aver agito per motivi venali. Facondo, già convinto delle responsabilità di V. nel Contra Mocianum scholasticum pubblicato nel 551, diversi anni dopo, nel 568-569, compose un nuovo libello intitolato Epistula fidei catholicae in cui attaccava il papa defunto. Con lo stesso spirito gli africani Liberato di Cartagine e Vittore de Tunnuna (nel 565), cronisti implacabili in cui l'amarezza era acuita dalla persecuzione imperiale, riportarono nelle loro opere le voci che circolavano all'epoca su papa Vigilio. Il ricordo lasciato dal papa nell'Italia annonaria era completamente diverso. Qui, mentre era in vita, l'opposizione ai progetti imperiali si era tradotta in una fedeltà assoluta alla sua persona. Mentre gli Africani erano informati da Rustico e senza dubbio da Pelagio, gli Italiani (che abitavano a nord del Po) erano ragguagliati direttamente da Dazio, che come si è visto era molto vicino a Vigilio. La morte di Dazio nel 553 aveva certamente interrotto il flusso di informazioni provenienti da Costantinopoli, a meno che i cristiani di queste regioni avessero semplicemente applicato alla lettera le consegne del vescovo di Milano, che intimava loro di diffidare di qualsiasi notizia riguardante V. giunta da Costantinopoli. Le Chiese di Liguria e di "Venetia et Histria", fino all'invasione longobarda, continuarono a raffigurarsi V. come un fervente difensore dei Tre Capitoli e a lui si richiamarono per giustificare il loro rifiuto della comunione romana. Uno scambio epistolare fra i vescovi dell'area metropolitana di Aquileia e papa Pelagio II prova che questa convinzione era ancora salda poco prima del 590. Invece, fra il 612 e il 615, uno degli ultimi difensori dei Tre Capitoli in terra italiana, il monaco irlandese Colombano, scrisse a papa Bonifacio IV biasimando la sua mancanza di rispetto per Calcedonia. "Vigila itaque, quaeso, papa, vigila, et iterum dico: vigila, quia forte non bene vigilavit Vigilius, quem caput scandali isti clamant, qui vobis culpam iniciunt". A questa data V. aveva perso i suoi ultimi difensori. Fonti e Bibl.: Vigilius papa, Epistulae, in P.L., LIX, coll. 15-68 e in Vigiliusbriefe, a cura di E. Schwartz, München 1940; Id., Epistula I ad Eutychium, in Acta Conciliorum Oecumenicorum, IV, 1, a cura di J. Straub, Berlin-Leipzig 1971, pp. 236-38, Id., Epistula II ad Eutychium, ibid., pp. 245-47; lettere di V. a Giustiniano e a Menas, in Collectio Avellana, a cura di O. Guenther, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1895 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 35, 1), pp. 348-56; Vigilius papa, Epistulae 38-44, in Collectio Arelatensis, a cura di W. Gundlach, in M.G.H., Epistolae, III, a cura di W. Gundlach-E. Dümmler, 1892, pp. 57-68; Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, a cura di G.B. de Rossi, II, Romae 1888, pp. 83 (epitaffio di Mareas), 100, 137 (lavori nelle catacombe; per l'analisi complessiva dei lavori v. l'articolo di A. Ferrua citato oltre); Concilium Universale Constantinopolitanum sub Iustiniano habitum, in Acta Conciliorum Oecumenicorum, IV, 1, 1, cura di E. Schwartz, Berlin-Leipzig 1971, pp. 198-99; Epistulae Constantini imperatoris a Iustiniano augusto interpretatae ac Vigilio papae missae, ibid., IV, 2, a cura di E. Schwartz, ivi 1913, pp. 101-04; Vigilius papa, Epistula ad Rusticum et Sebastianum, ibid., pp. 188-94; Id., Ex epistula de tribus Capitulis o Constitutum II, ibid., pp. 138-68; Epistula Clericorum Mediolanensium ad legatos Francorum, qui Constantinopolim proficiscebantur, in Vigiliusbriefe, a cura di E. Schwartz, München 1940, pp. 18-25; Justinianus, Confessio fidei adversus Tria Capitula, in E. Schwartz, Drei dogmatische Schriften Iustinians, ivi 1939; Id., Novella 131, 3, in Corpus Iuris Civilis, III, Novellae, a cura di R. Schoell-G. Kroll, Hildesheim 1993, pp. 655-56; Pelagius diaconus ecclesiae romanae, In defensione Trium Capitulorum, a cura di R. Devreesse, Città del Vaticano 1932; Id., Epistulae quae supersunt, a cura di P.M. Gasso-C.M. Batlle, Montserrat 1956, p. 45; Facundus episcopus Hermianensis, Pro Defensione Trium Capitulorum; Id., Liber Contra Mocianum scholasticum; Id., Epistula fidei catholicae in defensione trium capitulorum, a cura di J.-M. Clément-R. Vander Plaetse, Turnholti 1974 (Corpus Christianorum, Series Latina, 90A), rispettivamente pp. 1-398; 401-16; 419-34; Liberatus diaconus carthaginensis, Breviarium causae Nestorianorum et Eutychianorum, in Acta Conciliorum Oecumenicorum, II, 5, a cura di E. Schwartz, Berlin-Leipzig 1936, pp. 98-141; Marcellinus comes, Chronicon, in M.G.H., Auctores antiquissimi, XI, 2, a cura di Th. Mommsen, 1893, pp. 120-61; Procopius, De bello gothico, a cura di J. Haury, Leipzig 1905; Id., Historia Arcana 27, 24, a cura di H.B. Dewing, London-Cambridge 1960, p. 324; Victor Tonnennensis episcopus, Chronica a. CCCCXLIV-DLXVII, ad a. 567, in M.G.H., Auctores antiquissimi, XI, 2, a cura di Th. Mommsen, 1894, pp. 184-206; Id., Chronica: Chiesa e Impero nell'età di Giustiniano, a cura di A. Placanica, Firenze 1997; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 231-32 (datazione della notizia di V.), 281 (vita di Bonifacio), 292 (vita di Silverio), 297-302 (vita di V.), 343 (vita di Vitaliano, per la basilica Vigilii); Columbanus abbas Bobiensis, Epistula 20, in S. Columbani Opera, a cura di G.S.M. Walker, Dublin 1957, pp. 2-58; Agnellus qui et Andreas, Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, a cura di G. Waitz, 1878, p. 326; il testo trasmesso dal cardinal Pitra nello Spicilegium Solesmense, IV, Paris 1858, pp. III, XI-XXI, come professione di fede di V. è di fatto la "fides sancti Pelagii papae", come d'altronde dicono i manoscritti; Pitra si era ingannato poiché il testo enumera i vescovi di Roma solo fino ad Agapito; F. Beretta, Dello scisma de' Tre Capitoli, Venezia 1770; G.B. de Rossi, L'elogio metrico di Marea insigne personaggio della chiesa romana e vicario del papa Vigilio, "Bullettino di Archeologia Cristiana", 7, 1869, pp. 17-31; L. Duchesne, La succession du pape Félix IV, "Mélanges de l'École Française de Rome", 3, 1883, pp. 239-66; Id., Vigile et Pélage. Étude sur l'histoire de l'Église romaine au milieu du VIe siècle, "Revue des Questions Historiques", 36, 1884, pp. 369-440; Id., Les papes du VIe siècle et le second concile de Constantinople. Réponse de M. l'abbé Duchesne, ibid., 37, 1885, pp. 579-93; F. Savio, Il papa Vigilio, Roma 1904; Ch.J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des conciles d'après les documents originaux, III, 1, Paris 1909, pp. 1-141; H. Hildebrand, Die Absetzung des Papstes Silverius (537), "Historisches Jahrbuch", 42, 1922, pp. 213-42; O. Bertolini, La fine del pontificato di papa Silverio in uno studio recente, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 47, 1924, pp. 325-43; L. Duchesne, L'Église au VIe siècle, Paris 1925, pp. 145, 151-56, 175-218; P. Batiffol, L'empereur Justinien et le siège apostolique, "Recherches de Science Religieuse", 16, 1926, pp. 193-264; E. Caspar, Geschichte des Papsttums, II, Tübingen 1933, pp. 229-86; W. Pewesin, Imperium, Ecclesia universalis, Rom. Der Kampf der Afrikanischen Kirche um die Mitte des 6. Jahrhunderts, "Forschungen zur Kirchen- und Geistgeschichte", 11, 1937, pp. 160 ss.; R. Devreesse, Lo scisma dei Tre Capitoli, in Atti del IV Congresso nazionale di studi romani, I, Roma 1938, pp. 341-50; Id., Essai sur Théodore de Mopsueste, Città del Vaticano 1948; E. Stein-J.R. Palanque, Histoire du Bas-Empire, II, Paris 1948, pp. 330-31, 386 (V. diacono), 387-402, 638-54, 656-60, 664-70 (V. papa); A. Ferrua, I lavori del papa Vigilio nelle catacombe, "La Civiltà Cattolica", 118, 1967, pt. 2, pp. 142-48, ripubblicato in Id., Scritti vari di epigrafia e antichità cristiane, a cura di C. Carletti, Bari 1991, pp. 332-38; Ch. Moeller, Le chalcédonisme et le néo-chalcédonisme en Orient de 451 à la fin du VIe siècle, in Das Konzil von Chalkedon, a cura di A. Grillmeier-H. Bacht, Frankfurt a.M. 1951; J.O. Bragança, A Carta dos Papa Vigìlio ao Arcebispo Profuturo de Braga, Braga 1968; L. Magi, La sede romana nella corrispondenza degli imperatori e patriarchi bizantini (VI-VII secolo), Rome-Louvain 1972, pp. 161-74; E. Zettl, Die Bestätigung des V. ökumenischen Konzils durch Papst Vigilius. Untersuchungen über die Echtheit der Briefe "Scandala" et "Aetium" (JK 936-937), Bonn 1974; R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (Sec. IV-IX), II, Città del Vaticano 1962, pp. 36, 47-8; G. Every, Was Vigilius Victim or an Ally of Justinian?, "Heythrop Journal", 20, 1979, pp. 257-66; J.R. Martindale, The Prosopography of the Later Roman Empire, II, Cambridge 1980, pp. 414-16 (Eugenes), 609-10 (Iohannes 67), 795-96 (Olybrius), 939 (Reparatus), 1166 (Vigilius), 1323 (stemma della famiglia di Vigilio); Ch. Pietri, Aristocratie et société cléricale dans l'Italie chrétienne au temps d'Odoacre et de Théodoric, in Id., Christiana Respublica. Éléments d'une enquête sur le christianisme antique, Roma 1997, pp. 1007-57; Id., La géographie de l'Illyricum ecclésiastique et ses relations avec l'Église de Rome (Ve-VIe siècles), in Villes et peuplement dans l'Illyricum protobyzantin. Actes du colloque de Rome, 12-14 mai 1982, ivi 1984, pp. 21-62 e in Id., Christiana Respublica, pp. 547-88; R. Markus, La politica ecclesiastica di Giustiniano e la chiesa d'Occidente, in Il mondo del diritto nell'epoca giustinianea: caratteri e problematiche, a cura di G.G. Archi, Ravenna 1985, pp. 113-24; F. Guidobaldi, L'edilizia abitativa unifamiliare nella Roma tardoantica, in Società romana e impero tardoantico, II, Roma. Politica, economia, paesaggio urbano, a cura di A. Giardina, Bari 1986, p. 207; F. Carcione, Vigilio nelle controversie cristologiche del suo tempo (551-555), "Studi e Ricerche sull'Oriente Cristiano", 1, 1988, pp. 11-32; R.B. Eno, Papal Damage Control in the Aftermath of the Three Chapters Controversy, in Studia Patristica, XIX, a cura di E.A. Livingstone, Leuven 1989, pp. 52-6; A. Placanica, De epistola Vigilio supposita. Animadversiones in Victorem Tunnunensem, "Latinitas", 38, 1990, pp. 25-33; A. Grillmeier, Le Christ dans la tradition chrétienne: L'Église de Constantinople au VIe siècle, Paris 1993, pp. 541-606; C. Sotinel, Arator, un poète au service de la politique du pape Vigile, "Mélanges de l'École Française de Rome. Antiquité", 101, 1989, pt. 2, pp. 805-20; Ead., Autorité pontificale et pouvoir impérial sous le règne de Justinien: le pape Vigile, ibid., 104, 1992, pp. 439-63; Ead., La politique religieuse de Justinien. L'échec en Occident: l'affaire des Trois Chapitres, in Histoire du Christianisme, III, a cura di L. Pietri, Paris 1998, p. 389-456; F. Guidobaldi, Spazio urbano e organizzazione ecclesiastica a Roma, in Acta XIII Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, II, Split 1998, p. 36. Per la documentazione archeologica, epigrafica ed iconografica v.: Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, I-X, a cura di G.B. de Rossi et al., Romae-In Civitate Vaticana 1922-90; E. Josi, Cimitero di Generosa, I, Sterro della basilica cimiteriale dedicata ai martiri Simplicio, Faustino, Viatrice sulla via Portuense, "Rivista di Archeologia Cristiana", 16, 1939, pp. 323-26; Itineraria et alia geographica, a cura di P. Geyer et al., Turnholti 1965 (Corpus Christianorum, Series Latina, 175); J.Ch. Picard, Étude sur l'emplacement des tombes des papes du IIIe au Xe siècle, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 81, 1969, pp. 736, 743, 751-52; A. Nestori, La catacomba al III miglio dell'Aurelia vetus e i sepolcri dei papi Callisto I e Giulio I, "Rivista di Archeologia Cristiana", 47, 1971, pt. 1, p. 215; U.M. Fasola, Le recenti scoperte nelle catacombe sotto Villa Savoia. Il "coemeterium Jordanorum ad S. Alexandrum", in Actas del VIII Congreso Internacional de Arqueología Cristiana, Barcelona, 5-11 oct. 1969, I, Città del Vaticano 1972, pp. 289-91; M. Dulaey, L'entretien des cimetières romains du 5e au 7e siècle, "Cahiers Archéologiques", 26, 1977, pp. 14-5; G. Bertonière, The Cult Center of the Martyr Hippolytus on the Via Tiburtina, Oxford 1985, pp. 49-51, 145-74; V. Fiocchi Nicolai, "Itinera ad sanctos". Testimonianze monumentali del passaggio dei pellegrini nei santuari del suburbio romano, in Akten des XII. internationalen Kongresses für christliche Archäologie Bonn, 22.-28. September 1991, a cura di E. Dassmann-J. Engemann, Münster-Città del Vaticano 1995, pp. 774-75; L. Spera, Cantieri edilizi a Roma in età carolingia: gli interventi di papa Adriano I (772-795) nei santuari delle catacombe. Strategie e modalità d'intervento, "Rivista di Archeologia Cristiana", 73, 1997, pp. 216, 222 n. 142; V. Fiocchi Nicolai, Strutture funerarie ed edifici di culto paleocristiani di Roma dal III al VI secolo, in Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano. Materiali e contributi scientifici per una mostra epigrafica, a cura di I. Di Stefano Manzella, Città del Vaticano 1997, pp. 138-39; Romana Pictura. La pittura romana dalle origini all'età bizantina, a cura di A. Donati, Venezia 1998, pp. 298-99. Dictionnaire de théologie catholique, XV, 2, Paris 1950, s.v. Trois Chapitres, coll. 1868-924; ibid., s.v., coll. 2994-3005; E.C., XII, s.v., col. 1416; Lexikon für Theologie und Kirche, X, Freiburg 1965², s.v., coll. 787-88; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, s.v., pp. 1544-47. Traduzione di Maria Paola Arena.