Pareto, Vilfredo
Economista, sociologo e pensatore politico italiano (Parigi 1848 - Céligny, Ginevra, 1923). Figlio di un nobile genovese (esule in Francia perché mazziniano), P. rientrò molto presto in Italia, dove compì i suoi studi. Laureatosi a Torino dapprima in scienze matematiche e fisiche e poi in ingegneria, lavorò per un ventennio (1870-90) come ingegnere nel settore ferroviario e siderurgico, ricoprendo incarichi di rilievo; nel contempo prese parte al dibattito sui problemi economici e politici dell’Italia unita, assumendo posizioni nettamente liberiste (fu tra i fondatori della Società Adamo Smith). Nel 1890, dopo aver conosciuto l’economista M. Pantaleoni, si dedicò interamente agli studi, dapprima di economia matematica e in seguito di sociologia. Nel 1894 l’univ. di Losanna gli offrì la cattedra di economia politica, che era stata di Walras. Nel 1922 fu nominato senatore. Tra le sue opere si ricordano: Cours d’économie politique (1897-98; trad. it. Corso di economia politica); Les systèmes socialistes (1902; trad. it. I sistemi socialisti); Manuale d’economia politica (1906); Trattato di sociologia generale (1916); Fatti e teorie (1920); Trasformazione della democrazia (1921). P. è convinto che la maggior parte delle azioni umane non sia di tipo logico (come quelle studiate dall’economia, in cui i mezzi sono adeguati al fine), ma di tipo non-logico: ne consegue che «è da bambini il credere che si persuadano gli uomini con dimostrazioni logiche», così come è ingenuo pensare che sia sufficiente «dimostrare buono un principio perché il popolo lo segua». Egli critica anche i ‘miti’ della tradizione democratica (lo Stato di diritto, il ‘governo del popolo’, il progresso, l’umanitarismo, il pacifismo) e sviluppa un’antropologia di tipo machiavelliano-hobbesiano: gli uomini, scriverà in una lettera a F. Turati del 1899, «lupi sono e lupi rimarranno: homo homini lupus». L’estensione del metodo logico-sperimentale delle scienze naturali alle scienze sociali – estensione che P. propugna con convinzione – contribuisce a questo esito realistico. Le scienze sociali, afferma P., devono limitarsi a «constatare i rapporti» tra i fenomeni, a «scoprire le uniformità che questi rapporti presentano» e a distinguere il vero dal falso, senza sviluppare alcun argomento a favore di questo o quell’ordinamento socio-politico: devono essere, in altre parole, rigorosamente sperimentali e avalutative. Ma proprio perché sono tali, esse non possono non riconoscere che la maggior parte delle azioni umane è determinata invece «dal sentimento, dalla passione, dall’interesse» e solo «in proporzioni ridottissime dal ragionamento». Ne consegue che le protagoniste della vita sociale della storia, e dei suoi conflitti, non sono le teorie scientifiche (come pensavano illusoriamente i liberali come R. Cobden), ma le ideologie, ossia le teorie apparentemente razionali («derivazioni») con le quali gli uomini giustificano, a posteriori, le loro passioni e i loro interessi («residui»). L’indagine scientifica mostra altresì che in ogni tipo di assetto politico – anche in quello democratico – a detenere il potere sono delle aristocrazie o élites, ossia ristretti gruppi sociali che posseggono le virtù (in senso machiavelliano) per esercitare il comando. Tali gruppi si mantengono al potere sin quando riescono, attraverso la cooptazione degli individui migliori delle classi inferiori, a conservare la loro vitalità; quando questa «circolazione delle élites» si interrompe, l’equilibro sociale ristagna e si determina una crisi rivoluzionaria, dalla quale emerge una nuova élite (ma questo mutamento non implica necessariamente un progresso). La lotta per il potere, dunque, è sempre conflitto tra élites: il popolo, contrariamente a quanto pensano i democratici, non gioca alcun ruolo, perché se è vero che le nuove élites provengono dalle classi inferiori, è altrettanto vero, secondo P., che queste «sono incapaci di governare» in modo autonomo. Ogni élite, giunta al potere, governa grazie a una combinazione di forza e astuzia, il cui equilibrio varia a seconda del tipo di residui prevalenti nel ceto dirigente: quando un’aristocrazia è al tramonto, prevalgono in essa le «volpi» (uomini che puntano sul compromesso e sull’astuzia), mentre nelle nuove aristocrazie prevalgono i «leoni» (uomini caratterizzati dall’energia e dal coraggio). Di qui la concezione paretiana della storia, che non è né lineare né ciclica, ma piuttosto ondulatoria, perché fondata sul continuo e imprevedibile succedersi delle élites.