SETTEFINESTRE, Villa di
Situata nell'Etruria meridionale, non lontano dalla città e dal porto di Cosa (nei pressi dell'odierna Ansedonia), costituisce il miglior esempio finora noto della villa perfecta descritta da Varrone nel De re rustica. Il complesso si articola in un poderoso corpo centrale a pianta quadrata (150 piedi = 44,3 m di lato), circondato da altri edifici rustici, giardini, orti, frutteti e, più in là, da campi coltivati, pascoli e bosco, per un migliaio di iugeri complessivi (250 ha): una dimensione abbastanza comune per le proprietà medio-grandi della tarda età repubblicana. Alcune tegole bollate L.S. indicano in Lucio Sestio, esponente di una ricca famiglia di proprietari terrieri del Cosano, il costruttore della villa, che fu edificata fra gli anni 40 e 30 del I sec. a.C.
Un'architettura razionale di tipo ellenistico-romano compenetra organicamente i due aspetti fondamentali, residenziale e agricolo, del complesso, rispecchiando in ciò la mentalità dei proprietari del tempo, per i quali il piacere dell'ozio non era disgiunto da un attento controllo del profitto. La villa ha infatti due facce contrapposte: da un lato si presenta come una piccola reggia, racchiusa entro le mura turrite di una città in miniatura, con portici, loggiati, giardini e due torri-colombaie svettanti sui tetti; sul fronte opposto prevale invece l'aspetto dell'azienda agricola, con l'ampia corte circondata da stalle, magazzini e alloggi per schiavi.
Anche all'interno del corpo centrale gli appartamenti residenziali (pars urbana) e i locali occupati dagli impianti produttivi e dai servizi (pars rustica) appaiono rigorosamente separati, nonostante comunichino in più punti. La pars urbana, destinata all'alloggio del proprietario e della sua famiglia quando dalla città si recava in villa, si articola in due distinti quartieri. Il primo, comprendente le stanze per gli ospiti, per il fattore e il custode, gravitava intorno all'atrio tuscanico, che doveva essere maestosamente alto, decorato con affreschi e con un pavimento musivo a fondo nero disseminato di pietre colorate. L'altro quartiere, occupato dalle stanze padronali, non meno lussuose, ruotava invece intorno al peristilio: quando tende e porte erano aperte, fin dall'atrio si poteva ammirare la fuga prospettica formata dal doppio colonnato del peristilio, dalle due colonne transennate dell'esedra e infine da quelle del loggiato - oltre il quale si stendeva a perdita d'occhio la campagna - che ricreava nella realtà quelle immagini di sontuose regge e scene teatrali ellenistiche raffigurate anche sulle pareti delle stanze, affrescate nel c.d. II stile pompeiano.
Nella pars rustica del corpo centrale erano installati gli impianti produttivi più delicati: la mola per frangere le olive e soprattutto i tre grandi torchi lignei per la spremitura delle olive e dell'uva. Erano torchi «a vite senza fine», che secondo Plinio sarebbero stati inventati intorno al 50 a.C. Proprio sulla produzione del vino, commercializzato su larga scala entro anfore del tipo Dressel I, si basava il profitto dell'azienda, mentre il resto della produzione, comprendente, oltre all'olio, cereali, legumi, frutta e pollame, era destinato prevalentemente all'autoconsumo.
Una radicale riconversione produttiva, cui corrispose un profondo mutamento anche nella vita e nell'organizzazione della villa, si ebbe in età traianea. Nuove mentalità e nuovi metodi di gestione alterarono e disarticolarono l'impianto originario del complesso, che forse passò nelle mani di nuovi proprietari, magari di qualcuno di quei provinciali costretti per legge ad avere un terzo del proprio patrimonio terriero in Italia. L'appartamento degli ospiti, ridecorato con pitture di IV stile, divenne così l'alloggio di un procurator, incaricato da un padrone più assenteista di occuparsi della gestione dell'azienda. Estromesse tutte le attività produttive, il corpo centrale si trasformò in un vero e proprio praetorium, mentre all'esterno, in una parte dei giardini, furono costruiti uno xystus e un grande impianto termale: tramontato il tempo della villa-fattoria di varroniana memoria, siamo ormai nell'epoca della villa «pliniana» di età medio-imperiale.
Quanto alla produzione, abbandonata l'arboricoltura e smantellati i torchi (l'editto di Domiziano del 92 vietava l'impianto di nuovi vigneti in Italia), subentrarono l'allevamento degli schiavi e dei maiali - per i quali furono costruiti due nuovi edifici sostanzialmente simili - nonché forse di pollame e selvaggina. Ma nonostante la riconversione, la villa non sopravvisse all'età degli Antonini. Il fondo confluì probabilmente nel latifondo imperiale, i campi furono progressivamente abbandonati e gli edifici spogliati di tutto ciò che potesse essere reimpiegato altrove. Poco alla volta si sgretolarono i muri in argilla e pietra, ma tuttora rimane l’indistruttibile basamento circondato dal suo muro turrito, fino a non molti anni orso- no rifugio di pastori e contadini.
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