villano
Nella sua accezione fondamentale il termine, usato sia come aggettivo che come sostantivo, indica " colui che abita in villa " - cioè " in campagna " contrapposto all'abitante della città; il " contadino ", insomma, o - come dice D. - l'uom de la villa (Pg IV 21).
In alcuni passi della Commedia il vocabolo indica appunto il " contadino ", visto al termine di una giornata di lavoro - Quante 'l villan ch'al poggio si riposa / ... come la mosca cede a la zanzara, / vede lucciole, If XXVI 25 - o colto in un vivace gesto di rammarico, con la simpatia di cui fa fede l'uso del vezzeggiativo: quando la brina in su la terra assempra / l'imagine di sua sorella bianca / ... lo villanello... vede la campagna / biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'anca (XXIV 7). In un altro luogo il termine è in un contesto di sapore proverbiale (giri Fortuna la sua rota / ... e 'l villan la sua marra, XV 96), mentre il passo in cui si registra una quarta occorrenza (al femminile) apre un rapido scorcio su una notte estiva: come a gracidar si sta la rana / ... quando sogna / di spigolar sovente la villana... (XXXII 33). Ma altre volte il vocabolo riflette il tradizionale spregio del cittadino nei confronti del villan che parteggiando viene (Pg VI 126), cioè, come dice Benvenuto, del " castellanus et villanus [qui] praesumit et insurgit contra imperatorem ". Simile atteggiamento in Pd XVI 56 (lo puzzo / del villan d'Aguglion, di quel da Signa, / che già per barattare ha l'occhio aguzzo), nel corso della requisitoria dettata dall'aristocratico disprezzo per i " villani " inurbati (Baldo d'Aguglione era di origine contadina), venuti a contaminare con i loro loschi imbrogli la purezza dell'antica razza fiorentina.
Nel Convivio ricorre due volte l'espressione (lo) più vile villano, dove la presenza dell'aggettivo vile ribadisce, anche in virtù dell'allitterazione, la connotazione spregiativa. Se nel primo di questi due luoghi il sintagma designa un non ben identificato, oscuro " contadino " che, zappando, più d'uno staio di santalene d'argento... trovò (IV XI 8; l'esempio è addotto a riprova del fatto che più volte a li malvagi che a li buoni le celate ricchezze... si rappresentano), nel secondo esso si trova nel corso della discussione sulla nobiltà: Pognamo che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile... chi sarà oso di dire che... fosse vile uomo? (XIV 12). In tale discussione, che è il tema della canzone Le dolci rime, v. si alterna nell'uso a ‛ vile ' nel senso di " non nobile ", sempre contrapponendosi a ‛ gentile '. Sbaglia - dice D. - chi fa consistere la gentilezza nell'antica possession d'avere, negando che vil uom gentil divegna (per opera che faccia, com'è precisato nel commento in XIV 3), o che di vil padre scenda / nazion che per gentil già mai s'intenda (Le dolci rime 21-23, 61-63): tale premessa, escludendo la mutazione di villano padre in gentile figlio (XIV 3, dove il termine ricorre altre tre volte), porterebbe all'assurda e contraddittoria conclusione che siam tutti gentili o ver villani (Le dolci rime 70, ripreso in XV 4), a seconda che ‛ gentile ' o ‛ villano ' è stato il nostro progenitore: Che se lo figlio del villano è pur villano, e lo figlio fia pur figlio di villano e così fia anche villano (XIV 4. Cfr. pure il § 14, due volte, e XV 2 se uomo non si può fare di villano gentile o di vile padre non può nascere gentile figlio, ecc.). Non più contrapposto a ‛ gentile ', ma ancora come " opposto di nobile " (Busnelli-Vandelli), in IV VII 9.
Un'altra occorrenza del termine, sempre in questo significato, si riferisce a D. stesso: in questo trattato [il IV del Convivio] ... di nobilitade trattando, me nobile e non villano deggio mostrare (IV VIII 5).
In tutti questi casi, dunque, v. significa " non nobile ", " volgare "; e così ancora, con funzione attributiva, in un passo della Vita Nuova di schietto stampo stilnovistico: qual vuol gentil donna parere / vada con lei [Beatrice], che quando va per via / gitta nei cor villani Amore un gelo (XIX 9 33): qui si ripete l'accostamento a ‛ gentile ', presente anche - sia pur meno immediato - in XXXI 11 35 Non è di cor villan [" anima volgare ", Barbi-Maggini] sì alto ingegno, / che... (cfr. anima gentile, v. 30).
In Cv IV I 7 li buoni erano in villano dispetto tenuti, l'aggettivo ribadisce il significato di dispetto (" disprezzo ").
Un altro concetto che decisamente si oppone a ‛ villania ' è quello di ‛ cortesia ' intesa come " gentilezza " e " urbanità di modi " che sono appannaggio degli spiriti più elevati: una forma, anch'essa, di nobiltà (cfr. Cv II X 8 però che ne le corti anticamente le vertudi e li belli costumi s'usavano… si tolse quello vocabulo da le corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di corte; v. CORTESIA). Per questo, v. può significare anche " scortese ", " rozzo di modi " (è l'accezione propria del linguaggio moderno, che esclude quasi del tutto quella di " contadino "): quando D. vien meno alla promessa di ‛ sovvenire ' frate Alberigo liberandolo dalle 'nvetriate lagrime che gli opprimono gli occhi, giustifica il proprio comportamento con un verso che acquista vigore appunto dalla contrapposizione dei due termini: e cortesia fu lui esser villano(If XXXIII 150), " cioè non cortese a colui che fu villano reo e malvagio alli suoi atti, rompendo fede e confidanza " (Ottimo); o anche, nel congedo a una canzone: E se non vuoli andar sì come vana, / non restare ove sia gente villana: / ingegnati... d'esser palese / solo con donne o con omo cortese (Vn XIX 14 65), dove Barbi-Maggini commentano: " ‛ gente villana ' è quella che il Cavalcanti chiama ‛ nemica di gentil natura ', raccomandando alla sua ballata... di non farsi vedere; e così qui Dante prega la canzone... di mostrarsi... solo a persone di nobile sentire ". Con atti villani (Cv IV XXV 2), poi, D. traduce il " detrahentia labia " di Prov. 4, 24 (e detrahere, in uso assoluto, vale " sparlare " di qualcuno, determinando dunque un comportamento " scortese ").
Quest'ultima accezione si fonde con quella di " non nobile " quando l'aggettivo, ancora opposto a ‛ gentile ', è riferito alla Morte. Nel vaneggiamento della febbre che gli presenta l'immagine di Beatrice estinta, il poeta chiamava la Morte, e dicea: " Dolcissima Morte, vieni a me, e non m'essere villana, però che tu dei essere gentile, in tal parte se' statal... " (Vn XXIII 9). A norma della teoria stilnovistica, la Morte si è certo ‛ nobilitata ', a contatto con la ‛ gentilissima '; v. deve quindi indicare l'assenza di tale ‛ nobiltà ' intesa come quel complesso di doti che sono incompatibili con la ‛ scortesia '. Essa sarebbe dunque " scortese " in quanto si rifiuterebbe di esaudire il desiderio del poeta (cfr. Barbi-Maggini, nel commento a VIII 5 5); e nello stesso tempo " crudele ". Si veda infatti il passo della canzone che D. sta commentando: Morte... / tu dei ornai esser cosa gentile, / poi che tu se' ne la mia donna stata, / e dei aver pietate e non disdegno (XXIII 27 73-76).
Lo stesso concetto di pietà è richiamato nel secondo sonetto scritto per la morte di una donna giovane e di gentile aspetto molto (Vn VIII 1): Morte villana, di pietà nemica... (§ 8 1, anticipato al § 3): " spietata ", dunque. E nel sonetto che precede, scritto per la stessa circostanza: Piangete, amanti... / perché villana Morte in gentil core / ha miso il suo crudele adoperare (VIII 5 5). Anche qui, se il Sapegno giustifica l'uso di v. col fatto che la Morte ‛ distrugge ' " quello stato spirituale di privilegio per cui si è naturalmente nobili, gentili e disposti all'amore " di cui parla il Guerri (e si veda l'accusa che il poeta rivolge alla Morte: Dal secolo hai partita cortesia, § 10 13), per il Pazzaglia villana vale " crudele, impietosa ", e Barbi-Maggini osservano: " Qui e al principio del sonetto seguente [cioè Morte villana]... in villana è incluso anche il concetto di durezza e crudeltà, sentimenti inseparabili dalla villania: cfr. G. Villani, IX, 310: ‛ furono sconfitti, e molti morti e presi e giustiziati di villana morte ' ".
Un'ultima occorrenza del D. canonico in Rime LXXXIII 54: D. parla di uomini di poco pregio, che del loro amore non fanno oggetto una donna ‛ gentile ', ma come al furto il ladro, / così vanno a pigliar villan diletto, cioè si dilettano di un amore sensuale.
Nel Fiore, l'accezione di " uomo della villa " è alla base della metafora per cui il ‛ villano ' è spesso lo Schifo, che si qualifica ortolano / d'esto giardin (VI 13-14; l'occorrenza è al v. 11); tuttavia il termine è già ricco anche degli altri valori considerati, che ne fanno " il contrario di cavaliere e cortese " (Petronio; sempre con riferimento allo Schifo, cfr. VII 7, IX 1, XXIV 9, CCIV 2, CCVIII 8 e 11). Una volta, invece, è lo Schifo a definire mal villano (CCIII 6) l'Amante che ha osato al fior porre la mano (v. 3); è chiaro che qui, escluso ogni riferimento alla ‛ villa ', il termine allude allo sfrontato ardire di Amante che ignora le norme del ben vivere. Un altro esempio, al plurale, in cui prevale il significato di " uomini zotici, incivili, maleducati ", che non presuppone necessariamente, pur senza escluderlo, quello di " contadino ", è in XXVIII 6 [Gelosia] un casser fort'e bello, / che non dottava assalto di villani, / fece murare, per custodirvi Bellaccoglienza. Un'altra volta (XIX 12) il v. è Malabocca, que' ch'ogne mal sampogna, cioè che diffonde ovunque le sue maldicenze.
Un ultimo passo, particolarmente interessante, presenta v. opposto a cortesia nel senso di " liberalità " (cfr. la cortesia del gran Lombardo di Pd XVII 71; e si ricordi che larghezza è una speziale... cortesia, Cv II X 7): l'appellativo è infatti riferito a le giovane e le vecchie e le mezzane / [le quali] son tutte quante a prender si 'ncarnate, / che nessun puote aver di lor derrate / per cortesia, tanto son villane (Fiore LVIII 4): che non concedono, cioè, i loro favori se non per denaro.