Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel quadro mosso e sperimentale della poesia quattrocentesca assume un particolare rilievo la poesia giocosa e burlesca, in dialogo vivace con la letteratura popolare e con quella colta. Nel panorama italiano spicca la figura del Burchiello, con i suoi sonetti “alla burchia”, costruiti sulla tecnica dell’accumulo e della ricerca straniante del nonsense. In ambito europeo emerge la personalità del francese François Villon, che mette in poesia i temi della strada e la vita delle vittime di una società segnata dall’ingiustizia.
Temi e forme della poesia giocosa
Domenico di Giovanni, detto Burchiello
Nominativi fritti e mappamondi
Sonetti, X
Nominativi fritti e mappamondi
e l’arca di Noè fra duo colonne
cantavan tutti “Chirieleisonne”,
per la ’nfluenza de’ taglier mal tondi.
La luna mi dicea “Ché non rispondi?”
et io risposi “I’ temo di Giansonne,
però ch’i’ odo che ’l diaquilonne
è buona cosa a fare i cape’ biondi”.
E però le testuggine e’ tartufi
m’hanno posto l’assedio alle calcagne
dicendo “Noi vogliàn che tu ti stufi”,
e questo sanno tutte le castagne;
perché al dì d’oggi son sì grassi e gufi
c’ognun non vuol mostrar le suo magagne.
E vidi le lasagne
andare a Prato a vedere il sudario,
e ciascuna portava lo ’nventario.
Burchiello, Sonetti
François Villon
L’epitaffio di Villon
La Ballata degli impiccati
Fratelli umani che ancora vivete,
non abbiate per noi indurito cuore,
ché se pietà di noi miseri avete
grazia da Dio ve ne verrà maggiore.
In cinque, sei, qui appesi ci vedete;
quella carne, che troppo abbiam nutrita,
da tempo è divorata, imputridita,
e noi, ora ossa, sarem cenere e polvere.
Della nostra sventura non si rida;
pregate Iddio perché ci voglia assolvere!
Se vi chiamiam fratelli non dovete
disdegnare tal nome, anche se fummo
messi a morte dal boia: voi sapete
che gli uomini hanno tutti poco senno;
per noi, poiché siam morti, intercedete
presso il figliuolo di Maria, Gesù,
che la sua grazia ci spenga la sete,
e ci preservi dalla nera folgore.
Siam morti, uom non ci molesti più;
pregate Iddio perché ci voglia assolvere!
La pioggia ci ha lavati e lisciviati,
e il sole disseccati e fatti neri;
le piche e i corvi gli occhi ci han cavati,
e strappato dal cranio e ciglia e peli.
Non ci è dato ristare un sol momento;
e di qua e di là, a mutar di vento,
senza posa balliamo a suo piacere;
ditàli siam, dai becchi crivellati.
State lontani dai nostri peccati,
pregate Iddio perché ci voglia assolvere!
O Principe di tutto, Gesù eterno,
fa’ che non ci abbia in sua balia l’inferno:
tra quello e noi nulla sia da risolvere.
Uomini, qui non c’è scherzo né scherno;
pregate Iddio perché ci voglia assolvere!
Nell’ambito dello sperimentalismo tematico e formale che caratterizza tanta poesia del Quattrocento, la produzione satirica e burlesca occupa un posto di rilievo. Questa produzione di tipo popolareggiante è spesso riferita a fatti e personaggi d’attualità ed è dovuta a scrittori di varia estrazione sociale e culturale, letterati di professione e non, che si pongono, con spirito talora innovativo, nel solco della poesia comica due e trecentesca.
Si riprendono temi e motivi stereotipati, come la fortunata tematica misogina e lo schema del vituperium, che si modella col concorso di elementi fortemente triviali e riferimenti eruditi. Inoltre, alcuni generi nati e sviluppatisi in ambito aulico, come il plazer e l’enueg, si prestano ad accogliere soggetti comico-realistici. Accanto al sonetto, che continua a essere largamente impiegato, soprattutto in forma di tenzone, anche altre forme metriche e diversi generi si prestano ai modi, talora parodici, della poesia giocosa.
Sono significativi, ad esempio, due poemetti in terza rima di Stefano di Tommaso Finiguerri, detto lo Za, autore irriverente dalla vita dissipata: la Buca di Monferrato e il Gagno riprendono schemi propri di opere allegorico-didascaliche, come la visione e il viaggio nell’aldilà, per dare risalto a figure di antieroi, quali sono i rampolli scialacquatori impegnati in un’onirica caccia al tesoro e i Pisani indebitati diretti all’isola del guadagno. Nel suo terzo poemetto, lo Studio d’Atene, lo Za assume invece i toni dell’invettiva per deplorare la decadenza dell’Università di Firenze, chiusa fra il 1404 e il 1412. Intorno alla tematica erudita, con riferimento alla cultura accademica e umanistica, si sviluppa la “berta della loica”, cioè l’attacco a una cultura tradizionalistica devitalizzata dall’eccesso di erudizione.
Le prime satire in volgare, anch’esse composte in terza rima, si devono al veneziano Antonio Vinciguerra, detto Cronico. Nel panorama giocoso italiano di inizio Quattrocento, che vede un’ampia produzione anonima accanto alla presenza di autori colti che si esercitano tanto nei modi comici quanto in quelli aulici del primo petrarchismo, la figura di maggiore spicco è sicuramente quella del barbiere fiorentino Domenico di Giovanni, detto il Burchiello. In ambito francese si impone, nei decenni centrali del secolo, la personalità ribelle di François Villon, mentre in area castigliana si registra un filone di poesia satirica impegnata, ispirato dalle turbolenze politiche coeve, accanto al quale trova posto la produzione comica del sarto Antón de Montoro, fedele allo spirito della grande tradizione goliardica.
Burchiello e i suoi seguaci
La bottega fiorentina di via Calimala, frequentata da letterati e umanisti della cerchia antimedicea, è il luogo in cui nasce la poesia del Burchiello, fiorentino di umili origini che, costretto all’esilio per motivi politici a partire dal 1434, passa gli ultimi lustri di vita tra Siena e Roma.
Il Burchiello è un barbiere di professione che compone sonetti burleschi ponendosi nel solco della produzione comico-realistica due e trecentesca. È un poeta autodidatta, ma la sua carica innovativa è talmente forte da fare scuola: la poesia “alla burchia” diventa presto maniera e produce una fitta schiera di imitatori. Come sull’imbarcazione chiamata burchia le merci vengono ammassate alla rinfusa, così la poesia del Burchiello si caratterizza per accostamenti di termini semanticamente lontani fra loro, che producono associazioni inedite fra le cose e le parole. I sonetti si riempiono di oggetti tratti da ogni ambito del reale e trasfigurati secondo il gusto del nonsense. L’alto e il basso si toccano nel susseguirsi di espressioni auliche e quotidiane, che si fregiano di metafore ardite e di suoni espressionistici fortemente evocativi. È una poesia che tende all’assurdo, facendo leva sull’irrazionale e il caricaturale, tanto da opporre l’immagine di una realtà caotica e indecifrabile alla tensione conoscitiva propria della coeva cultura umanistica, che si basa sulla fiducia nella forza della ragione e della parola.
Così anche il Burchiello riprende, ad esempio, la “berta della loica”, già praticata dallo Za, nei due sonetti caudati Questi ch’andaron già a studiare Athene e Questi che hanno studiato il Pecorone. Il sonetto più noto, Nominativi fritti e mappamondi, si articola in una sequenza metonimica che pone sotto il segno della parodia le pedanterie di grammatici, geografi e predicatori. Alcuni componimenti hanno un’impronta più autobiografica, in quanto richiamano il periodo della prigionia o ritraggono il poeta nella sua dimensione quotidiana. Sono particolarmente felici i sonetti di carattere metaletterario, come il celebre La poesia contende col rasoio, che, come in una sorta di teatro dell’anima, mette in scena una contesa fra la poesia e il rasoio, ognuno dei quali reclama per sé l’esclusiva dedizione del Burchiello. Altri componimenti prendono di mira intere città o personaggi coevi, molti dei quali ci sono altrimenti ignoti. L’ignoranza di nozioni su fatti e persone che popolano i sonetti rende per il lettore moderno ancora più laboriosa la lettura dei testi e ne accresce l’impressione di nonsense. L’approccio ai testi del Burchiello è invece più agevole per i suoi contemporanei, alcuni dei quali si cimentano in tenzoni col poeta-barbiere. Fra questi anche Leon Battista Alberti, autore del sonetto Burchiello sgangherato, sanza remi.
Il successo immediato della poesia burchiellesca rinvigorisce il filone antipetrarchesco. Come si è detto, il barbiere di Calimala viene riconosciuto come un caposcuola e la sua poesia dà vita a una nuova maniera. I tanti imitatori, per lo più anonimi, finiscono per mettere in ombra la fisionomia di Domenico di Giovanni: Burchiello diventa una sorta di “marchio poetico” a disposizione di chi voglia utilizzarlo per siglare i propri componimenti, tanto che la tradizione manoscritta si arricchisce di sillogi nelle quali è difficile distinguere i testi autentici da quelli degli imitatori. L’opera del Burchiello è un riferimento obbligato per tutti i poeti giocosi quattro-cinquecenteschi, che imprimono ai propri testi un carattere fortemente realistico. Gli epigoni del poeta riprendono e rielaborano i tre filoni principali della poesia burchiellesca, vale a dire il filone realistico, quello parodistico, e quello propriamente “alla burchia”. Fra i seguaci fiorentini ricordiamo innanzitutto Francesco d’Altobianco Alberti, amico del Burchiello, che riprende la tecnica dell’accumulo e certi stilemi caratteristici. È inoltre rappresentativa la produzione di Antonio Alemanni, Bernardo Bellincioni e Francesco Cei. Alla maniera del Burchiello si ispira anche Giovanni Pigli, un rimatore lirico e comico che allestisce il più importante zibaldone di poesia tre-quattrocentesca. Un corposo zibaldone di rime si deve anche a Filippo Scarlatti, cultore della poesia volgare e autore di componimenti lirici, comico-realistici, religiosi e d’occasione. Si segnala inoltre la produzione di Francesco Scambrilla, di un certo interesse per quel che riguarda le rime giocose, che contraggono un debito costante col Burchiello nella ripresa dei motivi tipici della tradizione comica. Meno dipendente dal modello risulta invece la produzione di Giovan Matteo di Meglio, autore di rime erotiche e giocose, che recupera motivi tradizionali, ma è pure in grado di distinguersi per l’elaborazione di proposte innovative.
Vita e opere di François Villon
Mentre la poesia di Burchiello nasce nella bottega-cenacolo di Calimala, François Villon, che insieme a Charles d’Orléans è il poeta più significativo del Quattrocento francese, trova il luogo ispiratore dei propri versi nella strada, a contatto con gli ambienti della malavita, con i carnefici e le vittime di una società segnata dall’ingiustizia.
Villon compie studi regolari fino a diplomarsi alla Faculté des Arts di Parigi, ma nega che la scuola gli abbia insegnato qualcosa e attribuisce il proprio apprendistato poetico a una vita di sofferenze. La biografia di François de Montcorbier, orfano di padre che prende il nome Villon dal suo tutore, è ampiamente lacunosa. Coinvolto in risse, responsabile di furti e dell’uccisione di un prete, Villon viene incarcerato nel 1461 e nel 1462. Dapprima condannato a morte, poi bandito per dieci anni da Parigi, il poeta non lascia tracce di sé dopo il 1463.
La ricezione dei suoi testi poetici, unitamente alle poche e incerte notizie della sua vita e della sua morte contribuiscono fin da subito a fare di Villon un personaggio leggendario e a deformarne la fisionomia tanto da farne ora un menestrello, ora un “poeta maledetto” ante litteram. Fra i riferimenti culturali più vicini alla poetica villoniana si può indicare la produzione di Jean Regnier (1392 ca. - 1465 ca.), autore di canti di prigionia e di un testamento poetico. Inoltre, si possono riconoscere come modelli di Villon il secondo Roman de la Rose, firmato da Jean de Meun (1240 ca. - 1305 ca.), e la tradizione di poesia realistica e satirica. Il dettato villoniano si impone per il suo modo diretto e mai edulcorato di raccontare il mondo circostante, in un’ampia varietà di toni, che toccano l’ironia, il riso, ma anche punte di autentico lirismo.
Autore di ballate, canzoni e rondeaux, Villon scrive anche alcune poesie nel gergo dei coquillards, bande di ladri che frequenta nei suoi anni più turbolenti. È particolarmente significativo l’uso che fa del genere del testamento, che adotta una prima volta nel 1456 con il Lais (o Petit Testament), poi dal 1461 con il Grand Testament, che presenta una struttura più articolata e fonde una vasta gamma di toni e di modi descrittivi. Fra i suoi testi più significativi per la lucidità dell’introspezione e per la carica empatica nei confronti degli emarginati si ricordano il Débat du coeur et du corps de Villon e L’epitaphe Villon, noto anche come Ballade des pendus.