viltà (viltade; viltate)
È il difetto della persona vile (vedi), secondo i valori che questo vocabolo assume nel lessico dantesco.
Secondo una prima accezione, suggerita da D. stesso con l'identificazione di viltà d'animo e pusillanimità (Cv I XI 2), v. indica il vizio che rappresenta il ‛ difetto ' in rapporto alla virtù della magnanimità (cfr.) e che ha come suo opposto il vizio della praesumptio (‛ eccesso ' in rapporto alla stessa virtù). Essa si definisce come " piccolezza d'animo " (cfr. PUSILLANIMI), incapacità e timore di affrontare tutto ciò che ha attinenza all'onore e al disonore, o a compiti necessari o utili od onorevoli. Con questo valore v. ricorre in Vn XXXV 6 8 mi giunse ne lo cor paura / di dimostrar con li occhi mia viltate, cioè che il mio pianto facesse conoscere qual fosse la mia vile vita (§ 3), cioè vita " ignobile " (v. VILE) dopo la morte di Beatrice; XIX 16; Cv I XI 20 lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai; onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio volgare, e l'altrui pregiano, e 18 (viltà d'animo); II X 2, a chiarimento del vile di Voi che 'ntendendo 45; IV II 14.
Gli esempi più significativi ricorrono in relazione al rimprovero mosso da Virgilio a D. dopo che questi gli ha confessato la sua esitazione ad affrontare il viaggio nell'aldilà: l'anima tua è da viltade offesa; / la qual molte fïate l'omo ingombra / sì che d'onrata impresa lo rivolve (If II 45). Il passo è particolarmente significativo perché la viltade di D., la sua " pochezza ", si contrappone all'altezza spirituale di Virgilio, non per nulla chiamato poco prima con l'appellativo di magnanimo (v. 44). Di qui l'opportunità della citazione a riscontro, comune a molti commentatori, di Cv I XI 18 Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per lo contrario, sempre si tiene meno che non è, suggerito a sua volta dal pensiero aristotelico (cfr. F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla D.C., Firenze 1967, 237-238; e U. Bosco, Il tema della magnanimità nella Commedia, in " L'Alighieri " XV 2 [1974] 3-13). Altri esempi in If II 122, Pd XI 88 Né li gravò viltà di cuor le ciglia / per esser fi' di Pietro Bernardone: il fatto di essere di umili natali non rese Francesco meno fiducioso in sé e nel valore della sua opera.
Come giustamente osserva il Mattalia, un'accezione più pregnante va vista in If III 15 Qui si convien lasciare ogne sospetto; / ogne viltà convien che qui sia morta; qui viltà è " la condizione dell'animo, da cui si genera il sospetto, l'esitazione del pellegrino " (Sapegno), ma non solo questo; anche sul fondamento dell'autorità virgiliana (Aen. VI 261 " Nunc animis opus... nunc pectore firmo "), qui v. va intesa " non tanto... come pusillanimità, quanto come contrario di quel coraggio e decisione che occorrono di fronte ad ostacolo e pericolo " (Mattalia). Ed a vera e propria " paura " il vocabolo alluderà in If IX 1 Quel color che viltà di fuor mi pinse, allusivo al pallore affiorato sul volto di D. quando i diavoli ebbero chiuse le porte della città di Dite in faccia a Virgilio.
In If III 60 vidi e conobbi l'ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto, l'accezione esatta da attribuirsi a v. dipende dall'identificazione dell'anonimo corifeo degl'ignavi: " pusillanimità ", " pochezza d'animo " (sia pure con un accenno alla sua " codardia "), se in colui è da vedere Celestino V; " mancanza di coraggio " civico, qualora D. alluda ad altri, ad esempio a Pilato.
V. è anche " mancanza di nobiltà " o, meglio, il suo opposto. È questa l'accezione assunta dal vocabolo nel IV trattato del Convivio (v. VILE), come risulta dai seguenti esempi: Le dolci rime 91 Dico che nobiltate in sua ragione / importa sempre ben del suo subietto, / come viltate importa sempre male; XIV 5, 9 e 10, XV 5, XIX 10; e così in Rime XC 7, CVI 128, Pd XIX 130. In questo senso, v. compare come sinonimo di " degenerazione ": Cv IV X 10 qui s'intende viltade per degenerazione, la quale a la nobilitade s'oppone (un altro esempio allo stesso paragrafo).
Poiché (v. VILE) la viltade di ciascuna cosa da la imperfezione di quella si prende, e così la nobilitade da la perfezione (Cv IV XI 2), il vocabolo ricorre anche per designare l'" imperfezione " delle ricchezze: XII 12 lo crescere desiderio non è cagione di viltade a le ricchezze; e così in XIII 14.
Un giudizio di grave deplorazione morale, sottolineato dall'aggettivo che lo qualifica, è implicito nella definizione di infima viltade data all'atteggiamento di colui che dal padre o d'alcuno suo maggiore [buono è disceso ed è malvagio] (Cv IV VII 9).