BORGHINI, Vincenzio Maria
Nacque a Firenze da famiglia nobile e agiata il 29 ott. 1515, figlio di Domenico di Piero e di Mattea di Agnolo Capponi (nei suoi scarni Ricordi autobiografici, fonte principale della sua vita fino ai trent'anni, non registra il nome della madre, bensì quello della balia, Maria Diamante, cui fu affidato, presso la badia fiesolana).
Fu presto indirizzato, come il fratello Agnolo, anch'egli letterato, e console dell'Accademia Fiorentina nel '54 (ebbe altri due fratelli, Lorenzo e Raffaello, quest'ultimo talora erroneamente identificato con l'omonimo trattatista d'arte autore del Riposo, certo della generazione successiva), alla vita monastica: vestì l'abito benedettino nella badia di Firenze, dov'era abate Isidoro della Robbia, nel giugno del '31;un anno dopo per s. Giovanni fece la professione, ed ebbe poi la conferma, la tonsura e i primi quattro ordini sacri: fu nominato suddiacono nel giugno del '33. Qui egli approfondì anzitutto gli studi classici: alla badia e nel ritiro delle Campora a Porta Romana ebbe maestro di filosofia Francesco Verini il Vecchio, lettore nello Studio, che commentava nel convento Aristotele, e che nel '35 ottenne come coadiutore un lettore di greco, Chirico Strozzi, che lesse Sofocle e poi anche Demostene, mentre altri curava la preparazione grammaticale; dal '37 fu assegnato al convento, come lettore Francesco Zeffi, che leggeva, oltre a Gregorio di Nazianzo, anche Omero, Esiodo e Platone, e le Tuscolane di Cicerone. Legato particolarmente allo Zeffi, che considerò il suo maestro più illuminato, ed entrato presto in rapporto col maggiore filologo del suo tempo, Piero Vettori, dal '38 lettore di greco e latino nello Studio, il B. ricevé così una formazione classica aperta e liberale, nella quale gli studi greci ebbero una parte importante. Ma egli attesta di aver fin da giovanissimo letto e studiato anche Dante e di averne fatto l'oggetto di esercitazioni retoriche prima ancora di rendersi conto della profondità e difficoltà di quella poesia. Nel convento, ma non isolato dalla cultura cittadina, egli percorre tutto l'iter monastico, "sagrestano" nel '35, "infermiere" nel '36, poi assegnato alla "cellereria", sembra con vantaggio del monastero ma con sua mortificazione. Nel '37 è diacono e nel '38 diviene portiere del convento ed è incaricato dell'insegnamento di grammatica latina: compie nell'estate il suo primo viaggio ad Arezzo e a Siena. Ancora cellerario nel '39, segue alla fine dell'anno l'abate in una visita ai monasteri meridionali dell'Ordine: da Perugia, dove incontra Paolo III con la corte pontificia e il cardinale Gaspare Contarini, riformatore e protettore dell'Ordine benedettino che egli rimpianse poi con alte lodi alla sua morte nel '42, a Roma, Montecassino, Napoli fino a Montescaglioso: il più lungo viaggio del B. e l'unico a Roma. Nel marzo del '41 è ordinato sacerdote e quindi assegnato all'abbazia di Santa Fiore d'Arezzo, dov'era abate il suo maestro Isidoro.
Porta con sé nel suo "fangotto" un bel mucchio di libri, dei quali ci è fortunatamente conservato l'elenco in un'aggiunta ai Ricordi: è una ricca e sceltissima biblioteca di manoscritti e di stampe, nella quale accanto a testi religiosi greci, latini e volgari e ai classici greci e latini, fanno spicco opere grammaticali e retoriche di Erasmo e di Melantone (e anche teologiche di Erasmo), testi commentati e annotazioni del Verini, dello Zeffi e di Piero Vettori, e vari libri volgari, "Dante in 8º... El Petrarca in 16º", quattro canzonieri, "un libretto di fra Iacopone" e anche "canzoni morali di Dante in carta buona", e fra gli scrittori del secolo, coi due volumi delle Opere toscane dell'Alamanni, "le storie et discorsi del Machiavello in 4º"(ma questa voce fu poi depennata).
Da Arezzo nell'aprile del '42 seguì l'abate in un breve viaggio nel nord per partecipare al capitolo generale nel monastero di S. Benedetto di Mantova, al quale fu trasferito nell'estate dello stesso anno, rifacendo fagotto dei suoi libri, ma "eccetto Temistio, il Machiavello et la theologia del Chrisostomo et Agostino", segno di tempi già mutati, e mettendosi subito a insegnare greco e a leggere s. Paolo e poi s. Gregorio e anche Sofocle. Mortogli il padre nel luglio del '43, tornò per breve tempo a Firenze. Importante fu un rapido viaggio nel Veneto all'inizio del '44: "a spasso" a Venezia visita soprattutto le librerie e si provvede di libri recenti, classici greci e latini, commenti aristotelici, come quello di Bartolomeo Latomo (Masson) ai Topica, e opuscoli del Bembo. Poco dopo veniva nuovamente assegnato al monastero fiorentino: e a Firenze passò tutto il resto della vita, senza allontanarsi se non per frequenti soggiorni in villa resi necessari dalla salute malferma, spiegando accanto alle pesanti mansioni religiose, che svolse con alto spirito di abnegazione e di umanità, una crescente attività pubblica e una prodigiosa operosità di ricerca filologica e storica. Tornando a Firenze, lo aspettava la sgradita nomina a cellerario e decano, mentre non ebbe come sperava la dignità di abate, e fu bersaglio di gelosie da parte confratelli (annota allora: "Le passioni che sono tra i religiosi sono cose terribili, e per venire tal volta a loro intenzioni usano di grande arte"). Liberato nel giugno del '45 dal peso della cellereria, si trasferì dalla badia alle Campora, dove poté dedicarsi tutto agli studi. Gli interessi filologici e storici sembrano consolidarsi allora, indirizzandosi anzitutto verso le ricerche antiquarie, con l'acquisizione di vaste conoscenze epigrafiche, archeologiche, numismatiche, paleografiche e di una sicura pratica archivistica, che in breve tempo lo portano a stabilire relazioni coi dotti maggiori del suo tempo. Contemporaneamente egli stringe legami con l'ambiente artistico fiorentino, e in particolare con Giorgio Vasari, che probabilmente egli conosceva dal tempo del soggiorno aretino o anche prima e del quale nel '49 era già amico intimo, se fu da lui incaricato di condurre le trattative per il suo matrimonio, e, fatto ben più importante, partecipò accanto a Cosimo Bartoli e al Giambullari alla revisione delle bozze della prima edizione delle Vite stampate nel '50 dal Torrentino, e ne compilò le tavole. Si stabilì allora fra il B. e il Vasari quel sodalizio che fu grave di conseguenze per la cultura fiorentina, e fu determinante per quella funzione di mediatore fra la cultura artistica e la cultura letteraria, filologica e storica, che il B. poi esercitò con l'appoggio del duca, e che produsse certo i migliori frutti nella seconda edizione delle Vite del Vasari. Qualche anno dopo e assai prima che quel sodalizio desse le manifestazioni più clamorose, il Vasari poteva scrivere, nel '58: "Domenedio quando fece me, fece poi nascer voi per mio bisogno: onde 10 vengo a esser vite retta e guidata da un palo che mi fa parere più che non sono".
Già nel '48 il B. aveva iniziato un vasto lavoro per un trattato antiquario sull'onomastica e la storia delle famiglie romane, del quale riuscì a stendere sommariamente un solo libro, che inviò nel '51 all'amico Lelio Torelli: di quest'opera, i cui materiali sono conservati fra gli autografi borghiniani della Bibl. Nazionale di Firenze (Magl. II. X.139), il Vettori lamentava il ritardo ancora nel '60 scrivendo al Sigonio. Di poco posteriore è un altro trattatello antiquario in volgare Dei conviti degli antichi, compiuto ma rimasto inedito (Ibid., Strozz. XXVIII.52), e assai importante perché offre un quadro delle vastissime conoscenze classiche del B. in campo greco oltre che latino e degli orientamenti biondiani della sua filologia verso la ricostruzione ambientale e istituzionale e la conoscenza della vita privata.
Ma nel '52 la tranquillità degli studi del B. era di nuovo e durevolmente compromessa da un altro pesante incarico: nell'ottobre il duca Cosimo lo nominò "spedalingo" degli Innocenti, carica di grave responsabilità per la situazione di dissesto finanziario e di intrinseche difficoltà in cui si trovava quella istituzione, che fu per lui durante tutta la vita un peso tormentoso, la servitus della quale conta gli anni nella corrispondenza con gli amici: ma assolse quel delicato compito con tanta competenza e umanità che si vide affidare più tardi, certo prima del '69, anche lo Spedale dei trovatelli di Pisa. Questa restò la sua occupazione più assorbente, come attestano i carteggi, e ai contemporanei il B. apparve anzitutto come il buon priore degl'Innocenti: il Varchi nell'Ercolano, pubblicato nel '70 ma composto nel '62, presenta il B. in colloquio col giurista Lelio Bonsi nella cornice della villa "Agli alberi" presso le Cure, amena e fiorente azienda agricola che reca non solo "piaceri e comodo, ma utili a quei poveri e innocenti figliuoli" che "sotto la paterna custodia" di lui "si può dire che vivano felici". Illuminano questa sua attività le Considerazioni sopra l'allogare le donne delli Innocenti fuora del maritare omonacare, un memoriale da lui composto dopo il '72. Intanto, intorno al '70, un nuovo gravoso incarico era caduto sulle sue spalle: chiamato dalla fiducia di Cosimo a far parte con altri due membri (Guido di ser Guidi e Bartolomeo Carnesecchi, ai quali, morti poco dopo, subentrarono due cari amici del B., Antonio Benivieni e Agnolo Guicciardini), della Deputazione sopra i monasteri, si trovò a dover esercitare funzioni ispettive su numerosissimi monasteri femminili particolarmente di Firenze e Siena, in un momento di crisi acuta suscitata dalle rigide misure di clausura disposte da Pio V con le bolle del '66 e '69: anche qui egli seppe mostrare equilibrio morale, indipendenza verso "quei di Roma" e buon senso amministrativo. Altri compiti religiosi di delicata responsabilità egli ebbe a più riprese: nel '74 fu scelto dal cardinale Alessandro de' Medici, eletto arcivescovo di Firenze, come suo procuratore, ma respinse con umiltà e fermezza la nomina ad arcivescovo di Pisa offertagli dallo stesso cardinale che ebbe di lui altissima stima. Intanto il B. aveva acquistato una posizione di primo piano nella vita culturale di Firenze, insieme con l'affermarsi nel decennio 1560-70 della sua fama di storico e di filologo sul piano nazionale, nel contatto e nella corrispondenza coi maggiori ingegni del suo tempo, dal Vettori al Panvinio al Sigonio.
L'attività pubblica del B., legata al suo crescente prestigio e alla fiducia del duca che fece di lui uno dei cardini della sua politica culturale, è in gran parte in relazione con gli ambienti artistici e col suo sodalizio col Vasari. All'inizio del '63 Cosimo lo nomina luogotenente per l'Accademia del disegno, che ebbe sede nella sagrestia nuova di S. Lorenzo (di cui il B. fu "operaio"): il 3 febbraio egli ringrazia, contento di trovarsi fra gli artisti, "ché, quantunque io non sia di questa professione, non di meno sempre ci ho hauta singolare inclinazione e affezzione". Conservò quella carica fino alla morte, lasciando all'Accademia la sua ricca raccolta di disegni.
Il suo primo atto importante fu la preparazione delle esequie di Michelangelo che si svolsero in S. Lorenzo il 14 luglio 1564: egli predispose tutto il minuzioso e splendido apparato scenico di quella apoteosi funebre, ed ebbe certo larga parte nella cura dell'opuscolo sulle Esequie stampato allora da Iacopo Giunti, della cui attività editoriale il B. era già ispiratore. L'occasione dei funerali e poi il disegno del sepolcro in S. Croce ideato dal B. fecero divampare nuovamente la disputa sulla precedenza o "maggioranza" delle arti, fra pittura e scultura, dibattuta già nel '47 dal Varchi, e sottopose il B. ad aspre critiche, in quella città che aveva, com'egli poi scrisse, "buon occhio, e cattiva lingua". La preferenza per la pittura mostrata dal B. significava in effetti una parzialità per il Vasari. Il vecchio Cellini andò su tutte le furie e non risparmiò i suoi strali pungenti contro i due, il braccio e la mente, ché, secondo un suo epigramma, "Giorgio Aretin e quel Frate priore" sono uno stesso, se ben paion due. Fu forse la sola persona verso la quale il B. mourasse scarsa serenità di giudizio, in quella occasione e in seguito. Da allora si svolge pressoché ininterrotta l'attività del B. come "inventore" di soggetti pittorici soprattutto per il Vasari, da quelli per il salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio commissionatigli da Cosimo nel '65 a quelli per la cappella Paolina nel '73, e di apparati scenici per feste e cerimonie pubbliche, come quelli grandiosi per le nozze del principe Francesco con Giovanna d'Austria nell'estate del '65, esecutore il Vasari (un grosso quaderno del B., importantissimo per la storia della scenografia, attesta la vastità della preparazione e della scupolosa documentazione sulla casa d'Austria) o per i funerali del granduca Cosimo nel '74 e per il battesimo dell'erede granducale nel '77, ma anche per feste fuori di Firenze come quella dei monaci di S. Croce di Fonte Avellana per il cardinale d'Urbino. E certo la sua azione si configura come quella di un letterato di corte al servizio dell'assolutismo mecenatesco e dei nuovi orientamenti di celebrazione storica delle origini cittadine e della nobiltà. Ma il B. era immune da ogni servilismo personale e dalla retorica cortigiana, e i paesaggi naturali, gli apologhi, le allegorie pittoriche e i quadri storici che egli progetta per il Vasari o per altri gli suggeriscono alcune delle sue pagine più limpide e felici.
Questa attività artistica d'inventore o soggettista, a parte la sua diuturna collaborazione alle Vite vasariane per l'edizione giuntina del '68, rivista da lui anche in bozze insieme con l'amico Silvano Razzi (collaborazione della quale le pur numerose menzioni esplicite del Vasari offrono solo qualche indizio, e che certo non fu rivolta solo o prevalentemente agli aspetti formali), è d'altronde in stretto rapporto con la maturazione dei suoi interessi per la storia di Firenze, e in particolare sulle origini della città. Lo scrupolo documentario della verità storica, della topografia, dei costumi, delle istituzioni lo spinge proprio nell'occasione degli affreschi del '65 per Palazzo Vecchio a ricerche sulla più antica storia fiorentina: già provveduto di una forte preparazione antiquaria e di tutti i mezzi per l'analisi critica delle fonti antiche e medievali, si volge a indagini sull'età tardoromana e altomedievale, nella prospettiva locale ma in un orizzonte vasto e non municipale. Nasce l'opera maggiore della sua vita, il suo obiettivo massimo e raggiunto solo in parte, nel quale si assommano le sue esperienze di filologo e di storico.
Alla base sta una cordiale polemica con uno scolaro del Vettori, Girolamo Mei, che alla fine del '65 aveva inviato da Roma al maestro un trattatello sull'ordine e il sito di Firenze, con la tesi della riedificazione longobarda in sede diversa da quella dell'antica colonia augustea. Il B., anche a difesa della propria interpretazione degli affreschi che si stavano allora scoprendo al pubblico, aprì una vivace e corretta disputa erudita col Mei, inviandogli una serie di memorie nelle quali dimostrava che la tesi della riedificazione longobarda poggiava su un falso di Nanni (Annio) da Viterbo, e forniva le prove della continuità in loco dalla colonia augustea alla Firenze, medievale. E il Mei finì per accedere in parte e poi in tutto alle tesi dell'autorevole contraddittore (che intorno all'utilità dell'urbana polemica scrisse allora un opuscolo Dello scrivere contro alcuno).
Concepito il disegno di proseguire la storia delle origini fino al 1200, e incoraggiato all'impresa dal Panvinio prima della sua precoce scomparsa, il B. compì intorno al '70 un primo abbozzo dell'opera, la cui tela si venne poi allargando e articolando in tre libri. Il primo, dedicato alle origini della città, venne sviluppandosi in una serie di ampie dissertazioni speciali sui municipi e le colonie romane, latine e militari, sui fasti romani e la cronologia, su Fiesole e sulle dodici antiche città toscane, sicché si venne perdendo l'unità della trattazione, che il B. tentò di ricomporre invano ancora nel '79, alla vigilia della morte. Il secondo libro, concepito inizialmente come storia di Firenze nell'alto Medioevo fino a Federico II (ne restano abbozzi nei quaderni aut. Magl. II. X. 111 e II. X. 120 della Bibl. Nazionale di Firenze), si venne poi determinando come Trattato della nobiltà (abbozzi aut. nel Magl. II. X. 104), i cui materiali principali sono trasmessi dalle copie di mons. Girolamo da Sommaia (particolarmente i codici Strozz. XXV. 43-5 e Magl. II. IV. 295): se già a più riprese sollecitato da amici aveva compiuto lunghe ricerche d'archivio a fini genealogico-nobiliari, nel '77 su richiesta del nunzio pontificio dette sviluppo a una speciale trattazione sulle "famiglie chiamate grandi a Firenze", e poi sulla consorteria dei Vettori e dei Capponi, mentre una lettera a Baccio Valori "della casa sua e del modo di ritrovare e distinguere le famiglie" e altre scritture rivelano una consumata esperienza archivistica e una perfetta padronanza del metodo di ricerca: ma in sostanza di quel trattato riuscì a compiere solo il capitolo "Dell'arme delle famiglie fiorentine".
Nel '73 il cardinale Alessandro de' Medici gli chiese di compiere ricerche sui vescovi e arcivescovi fiorentini: ne nacque un Trattato della chiesa e vescovi fiorentini poi incluso nei postumi Discorsi, che costituì la prima seria ricerca di storia ecclesiastica fiorentina e mostrò quanti errori e falsi avesse accumulato la tradizione. Riprese poi la questione "Se Firenze fu spianata da Attila e riedificata da Carlo Magno", e anche in rapporto con la lite per il diritto di precedenza fra i duchi di Firenze e di Ferrara, della quale dové più volte occuparsi, e dell'autonomia di Firenze dall'Impero, compose nel '77 un trattato Sullamoneta fiorentina, e nel '79 una memoria per dimostrare la falsità della notizia che Firenze avesse ricomprato la libertà dall'imperatore Rodolfo.
Come ultima parte pensò presto, già nel '69, di trattare della lingua di Firenze, "onde ella è nata e cresciuta, che ella è nostra propria, perché è sì bella, e della sua qualità, ultimamente il modo di conservarla e liberarla dalle forastiere, che la imbrattano e la guastano" (aut. Magl. II.X. 86 della Bibl. Nazionale di Firenze). Aveva già scritto, non sappiamo quando, una graziosa Novella o apologo intorno al tema del parallelo fra le tre lingue, le due classiche e la volgare rappresentate allegoricamente nel mito di tre sorelle, Ellas, Lazia e Tyrsine, le prime due nella chiusa "care ed onorate", l'ultima "adorata", che era poi la sua esperienza. In una lettera del '63 al Varchi sulle Giunte del Castelvetro, lamentava, nonostante la copia degli interventi, la mancanza di una trattazione soddisfacente e compiuta del problema della lingua: anche l'ammirato Bembo, per vero un po' "scarsetto", non aveva "compreso il tutto della lingua", né il B. rimase soddisfatto della trattazione del Varchi (aut. Magl. II.X. 80 e 117). Dotato di un senso vivo, anche come scrittore (e in tempi di involuzione accademica), della naturalità e popolarità della lingua, e portato per formazione a risolvere nella storia le questioni astratte e le posizioni normative, sentì tuttavia acutamente il problema dell'insegnamento della lingua e di una più adeguata sistemazione grammaticale: e quando nel '71 il granduca stabilì, probabilmente anche per suo suggerimento, che si codificassero le regole della lingua ad uso delle scuole, il B. compose una breve ma notevolissima memoria, conservata in varie copie, Per le regole della lingua toscana, con la proposta di un piano ragionevole per "formar le regole del buon parlare e quelle proporre nelle scuole alla gioventù", subordinato all'idea di una decadenza della lingua e al tentativo di una restaurazione, in base a un canone trecentesco che qui è formulato chiaramente per la prima volta, ma senza la rigidezza accademica che sarà del Salviati e della Crusca: il compito doveva essere affidato a una speciale deputazione composta di poche persone "dotte e ben fondate in più d'una scienza", al primo posto Piero Vettori, e di alcuni giovani attivi, fra i quali compariva il Salviati. L'impresa non ebbe seguito, ma restano alcuni suoi abbozzi grammaticali inediti (Bibl. Naz. di Firenze, filze Rinuccini, 23bis).
Il Trattato della lingua, intanto, che era stato prima concepito come semplice complemento di quello sulle origini, veniva a configurarsi come opera autonoma, quale studio della lingua dei trecentisti condotto su basi larghissime, come mai prima, e oltre che sui maggiori anche sui prosatori minori, sui volgarizzamenti e sulle scritture domestiche e familiari, perché "la lingua pura e propria è del popolo" e questi "ne è il vero e sicuro maestro", che significava non una mortificazione della lingua letteraria, ma una netta distinzione fra la media e norma socio-linguistica e le soluzioni individuali degli scrittori grandi, che il B. sapeva valutare con grande finezza e libertà di giudizio, rifuggendo dai canoni e dalle graduatorie, come quando respingeva un giudizio attribuitogli dal Varchi sulla superiorità di Dante su Omero. Osservava che per intender la lingua bisogna "cercar molte cose, e molte vederne e notarne, leggere gli scritti di molti, ritrovare autorità, riscontrare testi, e cotali altre brighe e pensieri". Ma il capitale trattato sulla lingua, soltanto abbozzato, resta inedito nei numerosi e confusi quaderni autografi; e di tutto l'immenso lavoro sull'origine e la storia antica di Firenze, solo una piccola parte fu pubblicata, e in maniera spesso arbitraria e frettolosa, dai deputati che dopo la sua morte cercarono di assolvere secondo le disposizioni testamentarie il non facile compito editoriale, Alessandro Rinuccini, Piero del Nero e Francesco Bonciani, coi due volumi dei Discorsi stampati da Filippo Giunti e fratelli nel 1583 (con due lettere di dedica dei deputati al granduca Francesco e alla nobiltà fiorentina) e nel 1584, dai quali si ricava un'idea assai pallida del complesso di ricerche compiute dal B. per la sua opera maggiore. Fortunatamente la filologia del B. ha lasciato altre insigni testimonianze, anche se le sole delle quali egli vide la pubblicazione, e sempre senza il suo nome, rappresentano certo di quella filologia la parte meno grata a lui, per l'appunto le "rassettature" contro le quali egli combatté, e di cui dové accettare di farsi artefice, con il proposito di evitare il peggio.
L'interesse linguistico del B. è essenzialmente storico, e si sviluppa in stretto rapporto con l'edizione e l'interpretazione dei testi letterari e dei documenti: alla letteratura volgare il B. applica i metodi già affermatisi nella filologia classica più avanzata, ma con interessi nuovi e sviluppi originali. La prima e già matura manifestazione di questi interessi è la Lettera intorno ai manoscritti antichi, nata probabilmente nel '62dagli scambi epistolari con Dionigi Atanagi che preparava a Venezia con la consulenza del B. la prima edizione della cronaca di Matteo Villani, apparsa contemporaneamente nel '62a Venezia presso i Guerra e a Firenze presso gli eredi di Bernardo Giunti. La lettera, indirizzata a un amico (forse lo stesso Atanagi), che gli ha chiesto consigli sul modo di "conoscere i buoni testi da' cattivi", fu ripresa al tempo della rassettatura del Decameròn, ma rimase incompiuta.
L'obiettivo polemico sono quei raffazzonatori di classici, così frequenti particolarmente nell'editoria veneziana (e le edizioni del Boccaccio e anche la recente edizione giuntina di Giovanni Villani ne offrivano esempi), i quali "han creduto che la cosa de' libri e delle parole sia come quella degli abiti o de' vestimenti, cioè che gli antichi non sien più buoni a questi tempi"; alle anacronistiche falsificazioni dei testi egli contrappone la tecnica del restauro sulla base della tradizione manoscritta, non recepita passivamente né casualmente ma vagliata attraverso l'analisi delle abitudini o "vezzi" dei copisti e l'individuazione dei codici migliori e delle lezioni autentiche, che comporta in primo luogo una conoscenza sicura e profonda dell'usus dell'autore e del suo tempo: mentre manca un'idea precisa della recensio, è invece formulato chiaramente il principio della lectio difficilior, che il B. utilizzerà poi con grande acume, e affermata la necessità di una cauta critica congetturale, perché "la malleveria de' miglior testi" dev'essere "accompagnata dalla ragione". Questo programma lo spinge a un vasto esame comparativo della lingua e a penetrare, più e meglio di ogni altro prima di lui, e per molto tempo dopo, la compagine del volgare trecentesco. Ma i frutti maggiori di questo lavoro rimangono tuttora in larga parte nascosti nei quaderni autografi. Invece le edizioni curate o dirette dal B. furono, se non raffazzonature, "rassettature", in obbedienza ai tempi.
Nel '71 il B. fu richiesto di procedere alla correzione delle opere del Machiavelli, ma riuscì a disimpegnarsi. All'inizio dello stesso anno il granduca, che aveva ricevuto da Roma, dal maestro del Sacro palazzo Tommaso Manriquez, una copia del Decameròn con le precise indicazioni di tutti i passi contenenti riferimenti a persone e cose di religione il cui emendamento era considerato condizione necessaria perché il libro ricercatissimo potesse ancora circolare nominò da una rosa di nomi proposti dall'Accademia fiorentina quattro deputati alla "rassettatura" del Decameròn, che furono il B., al quale toccò il peso maggiore dell'ingrata impresa, Bastiano Antinori, Antonio Benivieni e Agnolo Guicciardini. La lunga corrispondenza che in quegli anni corse fra il B. e il Manriquez, in gran parte inedita, attesta l'indipendenza, la fermezza e la serenità di giudizio del B. e anche l'abilità diplomatica del benedettino nel resistere alle pressioni del domenicano; e costituisce uno degli episodi più illuminanti della Controriforma. Tuttavia l'edizione giuntina del '73 risultò gravemente manomessa, anche se non tanto da contentare i censori romani, pur presentando nelle parti non "rassettate" un testo molto migliorato sui precedenti, soprattutto sulla base del codice Mannelli. Del poderoso lavoro testuale, linguistico ed esegetico, resero conto le Annotazioni e discorsi sopra alcuni luoghi del Decamerone, pubblicate l'anno successivo a nome dei deputati, ma opera del B. per la quasi totalità, e stampata in fretta per evitare la marea montante della censura: redazioni provvisorie spesso più ricche e genuine e appunti sparsi si trovano nei quaderni autografi, mentre la documentazione borghiniana della rassettatura si trova nel cod. Laur. XCsup., 111. Nello stesso periodo, e certo in rapporto con quell'inipresa, forse per offrire un esempio, che risultò per vero infelicissimo, di rassettatura per eliminazione e sostituzione di testi incriminabili, piuttosto che per via di rimaneggiamento, curò l'edizione del Novellino duecentesco, ripresentato, dopo l'edizione del Gualteruzzi del '25 (di cui si conserva un esemplare postillato dal Vettori e da lui) in complesso assai migliore, col titolo di Libro di novelle e di bel parlar gentile (Firenze, Giunti, 1572), con una prefazione non firmata del B. che non offriva precise indicazioni del lavoro compiuto: in sostanza la sostituzione di diciotto novelle della compagine gualteruzziana con altre di diversa provenienza, ricavate soprattutto, come fu riconosciuto solo nell'800, dalla prima parte del cod. Panc. 32 della Bibl. Naz. di Firenze che porta appunto quel titolo. Molto migliore risultò invece l'edizione della Istoria delle cose avvenute in Toscana dall'anno1300 al 1348, o Istorie pistolesi, apparsa nel '78 con una dedica e una prefazione che vanno assegnate al B., mentre egli non riuscì a realizzare la nuova edizione a lungo vagheggiata della Cronaca di Giovanni Villani, intorno alla quale restano, oltre a innumerevoli appunti, le compiute Annotazioni sopra Giovanni Villani, ancora inedite nella trascrizione da lui fatta eseguire (ms. Magl. II. X. 66); e così soltanto note e appunti sopravvivono dell'immenso lavoro compiuto su cronache, ricordi, scritture familiari del '300, trasmesseci in larga parte per merito del B. (ma l'originale della cronaca di Luca da Panzano, da lui particolarmente apprezzata e utilizzata, andò perduto), che le raccolse e le valorizzò per i suoi studi storici e per riscontri linguistici. Al B. si deve anche la conservazione del Trecentonovelle del Sacchetti, del quale, inedito e noto a pochissimi, disegnò a più riprese un'edizione (e ne seppe intendere l'arte, diversamente dal Salviati): l'archetipo di tutta la tradizione oggi conservata è infatti la copia fatta eseguire dal B. sull'esemplare malconcio da lui posseduto e presto scomparso; una parte di quella copia con altro apografo completo borghiniano era già alla Laurenziana nel 1571, data dell'inaugurazione, fuori delle mani del B., e quell'apografo fu la base della princeps biscioniana del 1724.
Se gli interessi dominanti del B. filologo furono rivolti alla prosa, egli raccolse e annotò numerosi testi di poesia due-trecentesca e il suo apporto alla tradizione manoscritta fu anche qui cospicuo: egli possedette e postillò almeno due esemplari della giuntina di poeti antichi del '27 (del principale, interfogliato e arricchito, restano derivati come la copia di Piero di Simone del Nero nel Ricc. 2846), ne fece ampi spogli (aut. Magl. II. X. 68) ebbe fra le mani e postillò la raccolta bartoliniana, fece annotazioni a Cino da Pistoia, Francesco da Barberino (aut. Magl. II.X. 58), Bindo Bonichi e Fazio degli Uberti, oltre che al Petrarca. Ma il massimo obiettivo di tutta la sua esperienza di filologo e di critico fu Dante, di cui egli fu nel '500 il piùprofondo conoscitore e l'interprete più sicuro.
Alla tradizione manoscritta, al testo e alla lingua della Commedia, dedicò costantemente nella sua maturità di studioso, dopo le estemporanee esercitazioni giovanili da lui condannate, studi approfonditi: conobbe e valorizzò l'epistola a Cangrande e l'antica tradizione esegetica, e fece gran conto del commento anonimo da lui definito Ottimo; possedette e annotò molti esemplari del poema; nel 1557 riscontrò un esemplare dell'aldina 1515 con cinque manoscritti; un esemplare postillato della Laurenziana, già Antinori, reca le collazioni con nove codici antichi, e un altro esemplare laurenziano dell'ed. toscolana dei Paganini è da lui annotato; nei suoi quaderni raccolse e illustrò varie lezioni cavate da antichi codici (per esempio del Paradiso, aut. Magl. II. X. 81). Da lui parte il lavoro filologico che mette capo più tardi, ma con criteri assai più ristretti e tradizionali, alla ed. Manzani della Crusca del '95. L'attività filologica e linguistica volta a restaurare e interpretare il testo di Dante e a mostrare che le accuse di arbitri e licenze rivolte da grammatici come il Ruscelli erano dovute a ignoranza della lingua, del pensiero e dell'arte di Dante, "miracolo della natura", introduce e accompagna una acuta e originale attività critica. Contro il Ruscelli "uomo vano" e la grossolana ignoranza da lui mostrata nel trattato Del modo di comporre in versi nella lingua italiana (Venezia, Sessa, 1559) svolse una serrata requisitoria critica che, rimasta incompiuta e inedita nei quaderni, solo alla fine dell'800 fu pubblicata dall'Arlia col titolo di Ruscelleide; piùtardi intorno al '72, nel quadro delle polemiche e degli interventi apologetici fiorentini dell'Altoviti, del Sassetti e del Mazzoni sollevati dal Discorso del misterioso Castravilla, intervenne con lettere e Discorsi sopra Dante in appassionata e serena difesa della poesia della Commedia. Compose una Difesa di Dante come cattolico, offrendo contro i sospetti controriformistici una schietta e non angusta interpretazione morale del poema, ispirata a un rigorismo etico con risonanze savonaroliane; e trattò a più riprese del valore dell'allegoria dantesca in rapporto alla poesia, puntando sulla fondamentale allegoria morale della Commedia sulla base dell'epistola a Cangrande e respingendo tutte le interpretazioni allegoriche arbitrarie e particolari, diffuse fra i commentatori, ché "il cavar i sensi allegorici violentemente non è interpretare l'intenzione degli autori, ma piùpresto un fare che il poeta interpreti la nostra". Ma soprattutto, dotato di una percezione acuta e concreta della poesia, respinse il giudizio, diffuso anche fra gli apologeti fiorentini, di Dante come filosofo o teologo, e lo ammirò e valutò anzitutto come poeta: "Dante, la prima cosa è poeta e poeta grande, o epico o altramente che si abbia a chiamare"; e fu convinto che la Poetica di Aristotele non rappresentasse tutto il pensiero del filosofo e fosse un'elaborazione empirica su determinati modelli letterari, sicché anche Aristotele avrebbe, iuxta propria principia, potuto ammirare la Commedia. E Dante, "maestro di parlar proprio", va studiato prima di tutto nei suoi aspetti letterali e concreti e va illustrato sempre con "esempi", come ogni giudizio sulla poesia: di questo modo di legger Dante egli offrì molte prove, in pensieri sparsi, note e postille critiche, per esempio nelle Osservazioni sulle bellezze notate ne' canti dell'Inferno XVII-XXIII, e si mostrò insofferente, superando diffusi pregiudizi del tempo suo, di criteri estranei alla valutazione della poesia, come quello delle epoche auree e felici (al quale pure non fu insensibile sul piano della storia della lingua), o di paradigmi comparativi di moda, come le dispute che giudicò oziose sulla superiorità di Omero o Dante e di Dante o Petrarca. Libero da pregiudizi filosofici o retorici, ebbe un senso profondo della "naturalezza" e della individualità dello stile, come nella lettera del '76 al Salviati "intorno all'imitazione del Boccaccio", dove conclude che ciascuno deve "secondar quello stile che la natura gli porge": nel definire lo stile del Boccaccio oppose alla riduzione aulica e classicistica del Bembo la vivacità naturale e colloquiale dello "stile suo ordinario, che era bellissimo". A una tale sensibilità dello stile sono ispirati i frequenti giudizi su scrittori moderni, sparsi fra le sue carte, come sull'Ariosto, ammirato anche dove non può considerarsi modello di lingua, e su scrittori contemporanei (incontrò il Tasso e tenne con lui corrispondenza) e specie sulla recente storia del teatro della quale fu curioso e attento osservatore.
Dei suoi studi, dei suoi libri e dell'eredità da lui lasciata alla cultura fiorentina, il B., ottenuta (dopo lunghe trattative iniziate con Paolo V anche per tramite del Vasari e concluse con Gregorio XIII nel novembre del '73) la facoltà di testare, tracciava un consuntivo nel testamento steso nel giugno 1574, il limpido specchio intellettuale della sua vita; qui sono precise disposizioni sulla sorte delle sue carte e dei suoi libri, che dovevano costituire uno dei nuclei più vivi della nuova filologia fiorentina e un nodo centrale di molte tradizioni manoscritte (dei libri da lui lasciati rese conto subito dopo la sua morte l'amico Baccio Baldini in una importante lettera inviata al granduca il 18 agosto 1580, conservata all'Arch. di Stato di Firenze, Cart. mediceo, f. 738;un altro inventario è fra gli aut. del Borghini).
Mori a Firenze il 15 ag. 1580 ed ebbe sepoltura nella chiesa del suo Spedale degli Innocenti.
Se la sua fama di antiquario e di consulente artistico e filologico fu altissima, e non solo a Firenze, negli ultimi vent'anni della sua vita e in seguito, la sua operosa umiltà e la rinuncia a pubblicare in vita sotto il suo nome fecero sì che l'opera filologica e critica del B. non esercitasse direttamente sulla cultura del suo tempo e sulla tradizione degli studi un'azione degna della sua qualità e novità, anche se egli contribuì forse più di ogni altro a determinare i futuri orientamenti della cultura fiorentina e l'indirizzo filologico della Crusca, sostanzialmente impoverito e irrigidito già nel Salviati rispetto alla libertà intellettuale e alle geniali iniziative del grande benedettino.
Opere: Per gli scritti, ancora in parte dispersi, inediti o male editi, oltre alle edizioni citate delle Novelle antiche (sucui cfr. G. Biagi, Le novelle antiche, Firenze 1880), del Decameròn (su cui cfr. G. Biagi, La rassettatura del Decameròn, in Aneddoti letterari, Milano 1887, pp. 282-326; G. Lesca, V.B. e il Decameròn, in Misc. stor. della Val d'Elsa, XXI [1913], pp. 246-63; V. Branca, Linee d'una storia della critica al Decameròn, Firenze 1937) e delle Istorie pistolesi (su cuicfr. S. A. Barbi nei Rer. Ital. Script., XI, pp. V, nn. 45 s., LXXII; e L. Zdekauer, in Arch. stor. italiano, s. 5, II [1892], pp. 332 ss.), si ricordi che le Annotazioni al Decameròn furono rist. in aggiunta all'ed. di Milano, Tip. Class. Ital., 1803 e poi più volte, e che i postumi Discorsi raccolti e dati in luce da' Deputati per suo testamento, Firenze, Giunti, 1584-85, furono ristampati nel 1755 a cura di D. M. Manni, con note e indici rinnovati, e ancora con le note del Manni a Milano, Tip. Class. Ital., 1808. Il Discorso a Baccio Valori intorno al modo di fare gli alberi delle famiglie nobili fiorentine fu stampato da M. Giunti, Firenze 1602 e rist. da D. Moreni, Firenze 1821, poi raccolto insieme ad altri opuscoli del B. in Opuscoli inediti o rari di classici o approvati scrittori, I, Firenze 1844 (cfr. anche Dello scrivere contro alcuno, a cura di G. Aiazzi, Firenze 1841). La più importante raccolta di lettere è in Raccolta di prose fiorentine, IV, 4, Firenze 1745 [90 lettere]; la lettera al Salviati del 4 ag. 1576 sull'imitazione del Boccaccio e la risposta del Salviati in G. Lami, App. alla Illustrazione istorica di G. Boccaccio, Milano 1820. Per il carteggio artistico cfr. Lettere sulla pittura,scultura e architettura, raccolte da G. Bottari, Roma 1754 (e poi Milano 1822-25) [21 lettere]; G. Gaye, Carteggio inedito d'artisti dei secoli XIV,XV,XVI, Firenze 1839-40; Carteggio artistico inedito di don V. B., a cura di A. Lorenzoni, Firenze 1913; e per la corrispondenza col Vasari, K. Frey, Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, I, München 1925; II, ibid. 1930 (sul contributo del B. alle Vite del Vasari cfr. da ultimo P. Barocchi, in G. Vasari, Vita di Michelangelo, Milano-Napoli 1962, pp. XXXVIII s.). Un frammento su una raccolta di poeti antichi fu edito da M. Barbi, in Manoscritti e testi inediti, I, Bologna 1910; per edizioni da copie borghiniane cfr. F. Sacchetti, Novelle,pubblicate secondo la lez. del cod. borghiniano con note inedite di V. Follini e V. B., a cura di O. Gigli, I-II, Firenze 1860-61; e Frammenti della cronaca di Messer Luca di Totto da Panzano,scritta nel 1350,da una copia di V. B., Firenze 1861. Per gli scritti sulla lingua cfr. G. Mazzoni, Una novella di V. B. sopra la lingua italiana, in Lingua nostra, I (1939), pp. 38-40; e G. Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale, Napoli 1967, per l'ed., in appendice (pp. 295-303) dello scritto Per le regole della lingua toscana e per brani inediti e importanti giudizi. Per gli scritti danteschi cfr. Studi sulla Divina Commedia di G. Galilei, V. B. ed altri, a cura di O. Gigli, Firenze 1855, e Ruscelleide ovvero Dante difeso dalle accuse di G. Ruscelli, a cura di G. Arlia, I e II, Città di Castello 1888-89. Notevoli i frammenti sul teatro editi sparsamente da F. Palermo, I mss. Palatini di Firenze, II, Firenze 1860. Per la biografia, fondamentali V. B., Ricordi della sua vita, in Opuscoliinediti o rari, Firenze 1844, e poi l'ed. assai migliore e completa curata da A. Lorenzoni, Iricordi di don V. B., Firenze 1909; il testamento in Gaye cit., I, pp. 381 ss. Lettere d'affari furono edite da E. Saltini, in IlBorghini, I, (1863), pp. 369-76, 411-420; nella stessa rivista sono altre lettere e documenti; per l'attività amministrativa cfr. le Considerazioni sopra l'allogare le donne dell'Innocenti, a cura di G. Bruscoli, Firenze 1904 (e a cura dello stesso L'ospedale degli Innocenti di Firenze..., Firenze 1900).
Bibl.: Intorno al B. fornisce ancora dati importanti F. Valori, Termini di mezzo rilievo, Firenze 1604, e anche per la fortuna settecentesca cfr. G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 3, Brescia 1762, pp. 1740 s.; fondamentali gli studi di M. Barbi, Degli studi di V. B. sopra la storia e la lingua di Firenze, in Il Propugnatore, n.s., II (1889), pp. 5-71, e l'accurata monografia complessiva di A. Legrenzi, V. B. Studio critico, I-II, Udine 1910. Sulla critica dantesca cfr. M. Barbi, Della fortuna di Dante nel sec. XVI, Firenze 1899, pp. 274 ss.; B. Croce, La poesia di Dante, Bari 1940, pp. 178 s., e poi l'importante saggio (con qualche forzatura) Un critico di poesia: V. B., in Poeti e scrittori del pieno e del tardo rinascimento, Bari 1958, II, pp. 134-54. Da ultimo R. Scrivano, V. B. critico letterario, in Cultura e letteratura nel Cinquecento, Roma 1965; e A. Vallone, Aspetti dell'esegesi dantesca nei secoli XVI e XVII attraverso testi inediti, Lecce 1966, oltre al Mazzacurati cit.; giusto rilievo dà al B. nel quadro della tradizione filologica fiorentina E. Bonora in Storia della letteratura, IV, Il Cinquecento, Milano 1966, pp. 616-21. Una silloge organica di scritti filologici e critici del B. è in preparazione per gli "Scrittori d'Italia" a cura di M. Pozzi.