BELLINI, Vincenzo
Compositore, nato a Catania il 3 novembre 1801, morto a Puteaux, presso Parigi, il 23 settembre 1835.
La vita e le opere. - Dal registro delle nascite della curia arcivescovile di Catania si rileva che il 4 novembre 1801 veniva battezzato, nella cattedrale, un bambino nato il giorno avanti da Agata Ferlito moglie di Rosario Bellini, coi nomi di Vincenzo Salvatore Carmelo Francesco. Rosario B. era un modesto musicista, maestro di cembalo e organista, discendente da un Vincenzo che da un paese della provincia di Chieti, dov'era nato nel 1714, era andato a studiar musica a Napoli, e s'era poi trasferito a Catania. Dei sette figli di Rosario B., Vincenzo, il primogenito, fu il solo che venne dal padre avviato alla musica. Iniziato allo studio della teoria musicale e del cembalo a cinque anni, a sette egli scriveva le sue prime composizioni, fra le quali una Salve Regina e un Tantum ergo. Altre composizioni sacre, ed anche profane, seguirono: due messe, alcune romanze, qualche composizione strumentale, e una cantata (Ombre pacifiche).
Vincenzo B. aveva diciott'anni quando la famiglia di lui, e in particolar modo il nonno, per poter realizzare il desiderio di mandarlo a Napoli a continuare e compiere i suoi studî musicali, si rivolse, per un sussidio, alla duchessa e al duca di Sammartino e ad altri patrizî catanesi. Il sussidio fu concesso, e il 3 giugno il giovanetto partì per Napoli, dove giunse il 18 dello stesso mese. Entrò nel conservatorio di San Sebastiano, dov'ebbe a maestri Giovanni Furno e poi Carlo Conti e Giacomo Tritto, e infine Nicola Zingarelli, operista allora famoso e direttore del conservatorio. Nei sei anni in cui il B., o come alunno o come maestrino, fu ospite del conservatorio, molte composizioni furono da lui scritte: fra le quali i biografi citano sei sinfonie (all'italiana), due messe, una cantata per nozze, e alcune melodie o romanze per canto con accompagnamento di cembalo, compresavi quella sulle parole Dolente immagine di Fille mia, scritte da Maddalena Fumaroli. Fu questa fanciulla forse la più amata di quante donne B. amò; ma anche la più sventurata, perché a causa dell'opposizione del padre di lei e della forse troppo facile rassegnazione del B. stesso, non poté diventare, come aveva sperato, la moglie del giovane maestro. Ma le più importanti opere scritte dal B. in quegli anni sono pur sempre due opere teatrali: Adelson e Salvini, opera semi-seria su un libretto piuttosto scipito di Leone Tottola, che fu eseguita nel teatrino del conservatorio nel 1825, e Bianca e Fernando, opera seria su libretto di Domenico Gilardoni, che fu rappresentata sulle scene del teatro San Carlo la sera del 30 maggio 1826, avendo ad interpreti cantanti celeberrimi come la Lalande, il Rubini e Lablache. "Questa sera va in scena, al San Carlo, Bianca e Fernando del maestro Bellini - scriveva il Donizetti proprio in quel 30 maggio del '26 - prima sua produzione bella, bella, bella, e specialmente per la prima volta che scrive". L'esito fu tale che l'impresario Barbaja (v.) offrì al giovane artista una scrittura per comporre un'opera per il teatro della Scala di Milano.
Bellini accettò l'offerta, e partì il 5 aprile del 1827 per Milano, dove egli si presentò, con una lettera di raccomandazione dello Zingarelli, al poeta Felice Romani, dal quale doveva essergli fornito il libretto, e che doveva poi diventare il suo fraterno collaboratore. La nuova opera fu Il Pirata, dramma di soggetto siciliano, e ricca di situazioni patetiche. Eseguita dalla Lalande, dal Rubini e dal Tamburini, l'opera andò in scena il 27 ottobre del 1827 e fu applaudita entusiasticamente. Non meno entusiastici furono i giudizî dei critici giornalisti.
Nel 1828 l'impresa del Carlo Felice di Genova chiede a B. un'opera nuova per l'inaugurazione del teatro appena costruito; B. propone di rifare, qua correggendo, là aggiungendo o modificando un pezzo, Bianca e Fernando, e la proposta viene accettata. La nuova Bianca va in scena il 7 aprile, applauditissima.
Nel 1829 dopo alcuni mesi di varie e vane trattative, B. accetta l'impegno di scrivere per la Scala di Milano una nuova opera, su libretto intitolato La Straniera, il cui argomento il Romani ha tratto da un romanzo di D'Arlincourt. L'opera, eseguita la sera del 14 febbraio 1829, ottenne un esito, anche questa volta, ottimo. I cittadini di Catania fanno coniare una medaglia d'oro, con impressavi l'effigie del maestro, e le parole Vinc. Bellini Catanensis Musicae Artis Decus, e sul verso: Meritis Quaesitam Patria.
Dopo il trionfo della Straniera, cominciarono le critiche ostili di qualche giornalista e le maldicenze e le calunnie di qualche collega invidioso (ci fu perfino chi accusò B. di numerosi plagi); e anche l'umore del pubblico cominciò a manifestarsi, nei riguardi della musica belliniana, capriccioso e mutevole.
B. benché indispettito dalle imprevedute contrarietà, accettò l'offerta - già stata fatta al Rossini, ma rifiutata - dell'impresario Morelli di scrivere l'opera d'apertura per il teatro di Parma, e scrisse la Zaira, su libretto di Romani tolto dalla tragedia di Voltaire. Scritta in fretta e forse senza entusiasmo, l'opera non riuscì pari alle precedenti, e la sera del 16 maggio del '29, quando andò in scena, fu fischiata senza misericordia.
Questo insuccesso amareggiò B., ma non lo abbatté; anzi gli fu di sprone a voler conseguire nuove vittorie, delle quali la prima fu quella che egli ottenne l'11 marzo nel 1830 a Venezia (alla Fenice) con Capuleti e Montecchi, opera che egli dedicò ai suoi concittadini e che fu subito riprodotta in molti altri teatri italiani e sempre con esito favorevolissimo: interpreti ora la Malibran, ora la Ronzi.
Tra la fine del 1830 e il principio del '31 B. fermò il pensiero sull'Ernani di Victor Hugo, e si hanno documenti del lavoro da lui iniziato: ma per varie ragioni l'idea fu messa da parte, e invece dell'Ernani fu scritta La Sonnambula, il primo dei tre capolavori belliniani.
La Sonnambula, ovvero I due fidanzati svizzeri, idillio su libretto di Felice Romani, fu pensata in gran parte a Moltrasio nell'autunno del 1830, nella villa di quella Giuditta Turina della quale B. s'era innamorato; fu scritta fra gli ultimi mesi del '30 e il febbraio del '31, e fu rappresentata il 6 marzo del '31 al Carcano di Milano con esito trionfale.
Ma sorte assai differente toccò al suo secondo capolavoro, la Norma, che - sempre su libretto del Romani - fu scritta nell'autunno del '31, e fu rappresentata il 26 dicembre del medesimo anno alla Scala, interpreti la Grisi, Donzelli e Negrini, ma con esito infelicissimo. Nella notte fra il 26 e il 27 dicembre B. stesso scriveva al Florimo, suo amicissimo: "Vengo dalla Scala, prima rappresentazione della Norma. Lo crederesti? Fiasco!!! fiasco!!! solenne fiasco!!!" Ma finiva così: "Non ti accorare, mio buon Florimo. Io son giovane, e sento nell'animo mio la forza di poter prendere una rivincita di questa tremenda caduta." A prendere la rivincita provvide la musica stessa della Norma, da sé. E fu una rivincita clamorosa, prima a Milano, subito dopo a Bergamo, e poi in tutti i teatri d'Italia, e quindi nei teatri stranieri.
Il '32 fu anno di riposo. È di quell'anno il progetto di scrivere un Oreste (non si sa se musicando proprio la tragedia dell'Alfieri), che però non ebbe seguito. La prima opera scritta dopo la Norma, fu la Beatrice di Tenda, composta su libretto del Romani, e rappresentata la sera del 16 marzo 1833 alla Fenice di Venezia con esito piuttosto freddo, e per alcune parti addirittura cattivo. Come conseguenza s'ebbe un raffreddamento dell'amicizia fra il B. e il Romani. Fu cosa di breve durata ma dopo quello della Beatrice il Romani non scrisse per il Bellini altri libretti.
Nel 1833 da Londra e da Parigi il B. è invitato a dirigere opere sue, e a scriverne di nuove. Nel maggio egli parte per Londra, con la Pasta, e vi dirige la Norma con tale esito "che simile non si ricorda nel teatro inglese". Passa allora di trionfo in trionfo, e, ormai lieto e fiero della conquistata fama si dà ai divertimenti mondani, e alla sua passione per la Malibran. Da Londra si porta nel '34 a Parigi, dove le sue opere si eseguiscono applauditissime. Nella capitale francese B. incontra Rossini, al quale protesta la sua venerazione e ammirazione. Colà inoltre egli fa la conoscenza del conte Carlo Pepoli, dal quale gli viene offerto un libretto tratto da un vaudeville dell'Amelot intitolato Têtes rondes et Cavaliers. E fu quello il libretto dei Puritani di Scozia, che doveva essere l'ultimo da lui musicato.
Il terzo capolavoro di B. fu composto a Puteaux nella villa Lewys tra la primavera e l'autunno del '34, con meditata lentezza e con specialissima cura di ogni particolare tecnico, armonico, contrappuntistico, orchestrale.
I Puritani furono rappresentati la sera del 25 gennaio 1835 al Teatro italiano, esecutori Giulia Grisi, Rubini, Tamburini e Lablache, con esito che parve superare anche quello ottenuto dalle opere precedenti. Il pubblico gridò il suo entusiasmo, la regina volle ricevere il maestro e accettò la dedica dell'opera, Luigi Filippo lo decorò della Legion d'onore.
Dopo otto mesi da quella serata trionfale, B. moriva a Puteaux, di una malattia viscerale che da anni già più volte, ad intervalli più o meno lunghi, lo aveva fatto duramente soffrire. Ma poiché quei Lewys dei quali egli era ospite non avevano permesso a nessuno di visitarlo durante la malattia (protrattasi per oltre due settimane), ed era sorto e s'era sparso il sospetto di un avvelenamento (era stato il B. l'amante della gelosa Lewys?), Luigi Filippo ordinò l'autopsia del cadavere, la quale però diede, riguardo al sospetto di avvelenamento, esito negativo.
Alla memoria del B. furono rese a Parigi, per iniziativa di Rossini, di Cherubini, Paër, Carafa, Halevy e di altri musicisti, e per interessamento della corte e con la partecipazione d'innumerevoli cittadini, onoranze solenni. E non meno solenni onoranze furono rese alla salma quando, il 16 settembre del 1876, essa fu traslata da Parigi a Catania.
I varî ritratti che di B. ci sono pervenuti, lo rappresentano, nonostante le differenze fra l'uno e l'altro, quale Heine lo ha descritto nelle Notti fiorentine. Soltanto, al "non era brutto" del poeta tedesco può essere certo sostituito che "era bello", di una bellezza un poco femminea ma ricca di fascino. "Era di persona alta e slanciata. Viso regolare, allungato e roseo: capelli biondi e chiari, quasi dorati, e pettinati a riccioli: fronte nobile, alta, spaziosa; naso affilato, occhi azzurri e languidi, bocca proporzionata, mento rotondo". E più oltre: "Aveva portamento effeminato, elegiaco, etereo. Tutta la persona aveva l'aria di un sospiro. Ebbe spesso il favore delle donne".
In queste parole sulla persona fisica del catanese c'è già tanto da poter definire abbastanza chiaramente anche il suo carattere psicologico. Il quale appare poi anche non difficilmente definibile dalle lettere da lui scritte ad amici e conoscenti, e ad amiche, e dalle testimonianze di coloro che ebbero frequenti contatti col B. e di lui scrissero. Non fu, sia lecito dirlo, non fu il B. nella vita sociale uomo di grande animo e di gran mente: ed ebbe piuttosto scarsa la generosità, e scarsi lo spirito di sacrificio e il desiderio di sapere. Ma quando egli entrava in quel mondo fantastico che era il suo mondo di elezione, allora, pur rimanendo un uomo che cantava con voce umana tale da essere sentita e compresa da ogni cuore umano, egli diventava come un Dio, perfetto e puro e senza alcun peso di materia.
L'arte. - Sul finire del 1828 o sul principio del '29, mentre stava componendo la musica della Straniera, B. scriveva una lettera a un suo amico siciliano, nella quale, spiegando la genesi della sua musica, diceva fra l'altro: "Studio attentamente il carattere dei personaggi. Invaso dagli affetti di ciascun di loro, imagino esser divenuto quel desso che parla. Chiuso quindi nella mia stanza, incomincio a declamare la parte del personaggio del dramma con tutto il calore della passione".
"Comincio a declamare la parte del personaggio del dramma". Queste parole potrebbero servire di guida per studiare la genesi e le forme del recitativo belliniano. Ma ci son poi quell'altre parole, "con tutto il calore della passione" e "invaso dagli affetti di ciascuno di loro" (cioè dei personaggi del dramma), che possono aiutarci a comprendere la genesi e la ragione e il valore delle espressioni belliniane più propriamente liriche e meliche.
Invaso dagli affetti dei personaggi drammatici, era il B., ma cosciente: non d'una coscienza logica, ragionante, critica, ma d'una coscienza tutta sentimentale. Un affetto - amore, dolore, gioia - ha da principio la sua causa, ha il volto e il nome di una persona (Amina o Norma o Elvira; Elvino o Pollione o Arturo), ha una ragione particolare di manifestarsi; ma come dalle segrete corde del cuore commosso di B. esso suscita il primo accordo onde emerge e fiorisce la nota iniziale della sua espressione, come esso intona il suo canto, le contingenze sono superate, ed è superata la particolarità del suo riferimento, ed esso rimane, sì, quel tale affetto, di quella tale specie, ma acquista un valore un significato assoluti, universali. "Come quando sognai di Maria Antonietta e di una canzone da mettergli in bocca nella tragedia che allora ne concepii", si legge negli Appunti e ricordi del Leopardi, "la quale canzone non si sarebbe potuta fare se non in musica senza parole". Tale lirica, fu appunto il canto puro di B.; la passione del quale, nel rivivere, per cantarla, la vita dei personaggi del dramma, era un fuoco candente ma non distruttore, che degli esseri e delle cose faceva risplendere l'anima incorruttibile.
Si leggano non solo La Sonnambula, la Norma, I Puritani, ma anche Il Pirata e La Straniera, ma anche opere meno felici come la Beatrice e i Capuleti e Montecchi. Se ne osservino i recitativi, e si troveranno poveri di emozione, troppo poco espressivi o addirittura freddi quelli delle scene più mosse e agite da personaggi antagonistici, quelli che per esprimere il mutevole rapido divenire del dramma dovrebbero essere i più ricchi e varî di accenti, di modulazioni, di trapassi ritmici e melodici; ma si troveranno bellissimi, potentemente esprressivi i recitativi che immediatamente precedono un grande sgorgo di puro canto, quelli nei quali par quasi tremare il presentimento di una grande effusione lirica, e specialmente quelli che, detti da un solo personaggio (solo sulla scena, o personaggio centrale in mezzo ad altri, quello sul quale convergono gli sguardi e gli effetti) escludono a priori la dualità o pluralità di sentimenti, di intenzioni, di volontà.
Si osservino gli accompagnamenti strumentali. Pochissimi eccettuati, risultano dalla suddivisione ternaria di ritmi binarî, ottenuta con un ondulante arpeggio degli accordi. E si confronti, per fare un'esperienza significativa, l'accompagnamento dell'ultima scena della Norma con gli accompagnamenti dell'ultima scena del Trovatore, opera di un genio anche lirico ma più ancora drammatico. Nel Trovatore svariatissimi disegni e ritmi, nei quali sentiamo e vediamo ora l'angoscia tremenda di Leonora, ora la violenta disperazione di Manrico, ora il fatalismo semi-incosciente di Azucena: nella Norma un andamento di arpeggi ternarî, uniforme, largo, quasi oceanico, dal quale sale sino alle regioni della luce eterna un canto di liberazione e purificazione, ma nel quale sembrano trasfigurarsi e vaporare gl'individui liberati dalle sofferenze e dalle passioni.
E si osservino le pagine puramente strumentali, espressioni anch'esse di puro lirismo, rappresentazioni di una realta fantastica di valore assoluto e quasi simbolico, guardata, si potrebbe dire, "con occhio magico".
E infine si leggano le arie più belle, divine: arie come "Ah, non credea mirarti" della Sonnambula, come "Qui la voce sua soave" dei Puritani, come la "Casta Diva" della Norma, qui trascritta. Arie la cui musica si svolge, come ben dice il De Robertis di certi canti di Leopardi, "secondo una linea sinuosa e continua, senza più legami logici, ma per la forza espressiva e quasi direi tematica di un motivo originario". Arie con le quali anche B., come il Leopardi, canta "cose eterne, con parole eterne".
Il lirismo di B., insomma, si esprime in canto che sgorga come espressione essenziale di un'emozione suscitata dal dramma, così come un fuoco divampa dove sian fatti convergere i raggi di luce: ed è canto che non appena sgorgato è già rivo, e subito fiume, e mare. E perciò mentre un musicista come Verdi, il quale è pure un grande lirico, ma che, pur nei momenti di rapimento, e cioè di maggiore entusiasmo ed esaltazione, mantiene sempre un sensibile contatto con l'oggetto del suo entusiasmo e cioè coi diversi attori del dramma e con le circostanze delle loro azioni, mentre dunque un Verdi compone la sua espressione musicale di varî e diversi canti associati o alternati (basti citare il bellissimo terzetto finale del Trovatore e il quartetto del Rigoletto), Bellini crea un canto solo, un canto ampio, quasi senza fine, ma "unico". Unico è il canto nella scena finale della Norma, unico nel finale del primo atto della Sonnambula, unico in tutte le scene più importanti dei Puritani, delle quali basterà citare quella finale del 1° atto dove la medesima melodia dovrebbe esprimere sì la "innocente contentezza" di Elvira, che s'immagina, nella sua follia, di essere all'altare col fidanzato, come il sentimento di vendetta di Riccardo e di Giorgio che imprecano al traditore Arturo, come la commiserazione e la pietà del coro delle donne: e in realtà non esprime particolarmente nessuno di cotesti sentimenti, ma tutti li fonde e li comprende in una superiore espressione di umanità.
Quei critici che hanno scritto essere il discorso armonico di B. povero e scorretto, hanno pronunciato un'enorme ingiustizia: ma certo esso non abbonda di modulazioni. Né potrebbe essere altrimenti, appunto perché l'aria belliniana è risolvimento di contrasti e conflitti sentimentali, e in essa sfocia il canto come risultanza sintetica di un'emozione comprensiva. Gli accordi che la generarono e la reggono sono sempre tutti pieni di sostanza e di significato, e son sempre necessarî, e sono variamente alternati e disposti con profondissimo senso della loro possibilità espressiva, ma non sono di natura molto diversa, ché se tali fossero (appartenenti, per esempio, a tonalità molto lontane le une dalle altre) esprimerebbero opposizione, conflitto, dramma in divenire, e sarebbero dunque contrarî al carattere dell'ispirazione melodica. Né si dica che il fatto di essere la musica dei Puritani armonicamente più ricca di quella della Sonnambula e della Norma dimostra che B. stesso riconobbe la sua povertà di armonista, e che se fosse vissuto più a lungo si sarebbe fatto armonista più vario. Prima di tutto la differenza di ricchezza armonica tra la Norma e i Puritani è molto minore di quanto si pretende: e si tratta poi sempre di differenza nel modo di disporre gli accordi, o di ampliamento dei medesimi con l'aggiunta di altri armonici oltre i tre o quattro primi: si tratta insomma di approfondimento e acutizzamento della sensibilità armonica, non di adozione d'un campo armonico, per così dire, più accidentato.
Anche intorno all'orchestrazione delle opere di B. sono state dette e scritte molte parole ingiuste. Si è detto che B. non conosceva affatto il carattere e le qualità e l'uso dei varî strumenti dell'orchestra, e che le sue opere sono orchestrate non solo poveramente ma con innumerevoli errori d'impasti e di equilibrio. Giudizî ingiusti; perché non è vero affatto che le opere di B. siano, dal lato orchestrale, povere o monotone o cosparse d'errori, almeno per chi esamini le partiture libero da pregiudizî. Certo non si può pretendere dal B. un'orchestrazione contraria allo spirito e all'espressione della sua musica. Cherubini, interrogato una volta sul valore dell'orchestrazione belliniana, rispose che B. "n'en eut pas pus placer une autre sous ses mélodies", e disse una cosa giustissima. Sarebbe ridicolo e assurdo pretendere di trovare nella strumentazione della Sonnambula, della Norma, dei Puritani una grande varietà e ricchezza di colori, di timbri, d'impasti: non si può chiederle che la limpidità e l'equilibrio, e son cose che vi si trovano sempre. Del resto, a dimostrazione del come e quanto il B. conoscesse le qualità espressive dei varî strumenti dell'orchestra, e della cura scrupolosa ch'egli poneva nell'orchestrare le sue opere, si leggano le lettere sue scritte al Florimo nel '34 (dove si tratta dello strumentale dei Puritani) e specialmente quella bellissima scritta il 21 dicembre di quell'anno.
B., dunque, rinunciò tanto alle elaborazioni tematiche (in senso scolastico) quanto alle compilazioni polifoniche armoniche e strumentali, perché sentì che tutto ciò non avrebbe potuto assumere, nella sua arte, che un valore di ricchezza meramente apparente, e non sarebbe stato, in fin dei conti, che rettorica vana. Sentiva nascersi dentro come espressione lineare e quasi nuda la musica dell'emozione pura, come puro canto: linea pura e divinamente nuda doveva essere e rimanere. "Se fossi chiamato", disse una volta ad un concorso di musica, paleserei la scienza del contrappunto, ma io con le mie opere debbo dilettare gli orecchi e commuovere gli affetti". Parole che, a meditarle e a intenderle come si deve, si rivelano profondamente significative, e valgono come conferma decisiva di tutto ciò che sin qui si è detto sul carattere fondamentale dell'arte belliniana. E altra volta scrisse: "Il dramma per musica deve far piangere cantando...": risolversi, cioè, in liberatrice effusione di lagrime e di canto (ed ecco perché egli aveva scritto, un'altra volta: "comincio a declamare la parte del personaggio del dramma con tutto il calore della passione", come uomo "in balìa delle passioni"); ed anche "gli artifizi musicali ammazzano l'effetto delle situazioni...", parole che dicono nel modo più chiaro possibile come il B. non sapesse considerare tutto ciò che non era puro canto se non come vano artificio tecnico. Concetto errato, se si volesse intenderlo in un senso assoluto e generale, ma in quanto lo esprimeva Bellini, dal suo punto di vista di puro lirico, perfettamente logico.
Quando B. scrisse, nel '25, la sua prima opera, Rossini aveva già fatto rappresentare la Semiramide, l'ultima della ventina di opere scritte prima di andare a Parigi a comporvi il Conte Ory e il Guglielmo Tell; quando, pochi mesi dopo aver fatto rappresentare i Puritani, B. morì, nel settembre del '35, Donizetti non aveva ancora scritto le sue opere più belle, e dovevano passare altri quattro anni prima che Verdi si rivelasse con l'Oberto.
Ma se fra Rossini, Donizetti e Verdi c'è continuità (che sarà più o meno evidente, ma che può essere dimostrata e resa sensibile; specialmente fra il primo Rossini e il Donizetti delle opere comiche: fra il Rossini del Tell e il Donizetti della Lucia, della Favorita, del Poliuto, e il Verdi dal Nabucco in poi), fra Rossini, Donizetti e Bellini, fra Bellini e Verdi, se ci sono, come indubbiamente ci sono, affinità e somiglianze, una vera e propria continuità non esiste.
Quel senso di vita, di umanità, e dunque quel senso del dramma, più o meno fecondo e potente nell'espressione di quello o quell'altro affetto secondo le naturali tendenze dell'artista e le risonanze del mondo circostante; quel senso di vita, di umanità, onde nacquero il Tell e le opere del Donizetti migliore, è il medesimo onde nacquero poi le prime opere di Verdi, e che in Verdi diventò sempre più profondo e vasto sino ad essere vera e propria coscienza umana e coscienza morale. La musica di B. nasce pure dal dramma, nutrita di umanità, ma quand'essa si manifesta, bella come nessun'altra, il dramma è già superato, l'umanità non duole più, le passioni son già vinte o placate in una specie di sentimento religioso. Quando l'azione scenica esigerebbe una musica mossa, concitata, ricca di accenti varî, espressivi di forze e volontà avverse e di sofferenze e travaglio sentimentale, essa non riesce più ad essere, quasi sempre, che vano suono o poco più. E perciò il dramma vero e proprio non poteva essere la naturale espressione del genio di B.; se mai, avrebbe potuto esserlo meglio la tragedia greca. Ma quando la musica di B., è sé stessa, essa appare così indipendente da qualsiasi realtà materiale, così staccata dalla realtà terrena, così alta, che gli uomini possono benissimo sentirla troppo lontana e inattingibile. E perciò la comprensione dell'opera di B., genio solitario, è meno larga e meno profonda di quel che l'opera meriterebbe; e ciò per le stesse ragioni per le quali è da molti inadeguatamente compresa la divina poesia di quell'altro genio solitario che fu Giacomo Leopardi. (V. tav. CXLVI).
Bibl.: F. Cicconetti, Vita di V. B., Prato 1859; A. Pougin, B., sa vie, ses øuvres, Parigi 1868; M. Scherillo, V. B., Note anedd. e critiche, Ancona 1882; F. Florimo, Bellini, Memorie e lettere, Firenze 1882; G. Salvioli, Bellini, Lettere ined., Milano 1884; A. Amore, V. B., Arte, Catania 1892; id., V. B., Vita, Catania 1894; G. Ricucci, V. B., le sue opere e i suoi tempi, Napoli 1899; A. Amore, Belliniana, Catania 1902; O. Viola, Bibliografia belliniana, Catania 1902; I. Pizzetti, La musica di V. B., Firenze 1916 (ristampato in Saggi critici, Firenze 1920); A. Aniante, Vita di B., Torino 1925; id., Vita amorosa di V. B., Milano 1926.