CATENA, Vincenzo
Pittore, nato a Venezia verso il 1470, morto nel 1531. Dipingeva nei primi anni del Cinquecento con spiriti e modi ancora quattrocenteschi, ma poi, a poco a poco, sentì lo stile nuovo di Giorgione e di Tiziano e ne trasse timidamente ma garbatamente morbidità e dolcezza. Mentre la critica moderna, pur ammirandone qualche opera, generalmente lo svaluta e lo mette fra gl'ibridi e i ritardatarî, i contemporanei tennero invece il C. in grandissimo pregio fra i primi, forse appunto perché molto era diffusa la peritanza ad allontanarsi dalla finitezza quattrocentesca e da quel suo spirituale riserbo, di fronte alla deliziosa, e sia pure nobilissima, sensualità nuova. Scapolo, e forse malaticcio, il C. si mostrava molto preoccupato della sua successione, tanto che abbiamo di lui ben cinque testamenti. Si conserva nel cortile del Seminario Patriarcale l'epigrafe del 1532, tolta dalla Scuola dei pittori già presso S. Sofia, nella quale essi pittori dichiarano di aver comperato il suolo ed eretta la casa coi beni lasciati dal C. al loro Collegio. Non trova più credito l'opinione che lo identificava col pittore Vincenzo da Treviso o Vincenzo dalle Destre, tante e continue sono le prove di pura venezianità che il C. offre anche nella sua arte.
Le prime opere, a contorni netti e a forti contrasti di ombre, quasi tarsie colorate, lo mostrano rigido seguace del geometrico schematismo antonelliano che gli veniva più ancora da Lazzaro Bastiani e da Alvise Vivarini che dal Giambellino, come possiamo vedere nella Santa Conversazione dell'Accademia e nella Vergine venerata dal Doge Leonardo Loredan (1501-1521), ex-voto per la chiesetta a Palazzo ducale, opera rigorosa ma pesante e d'un arcaismo ingrato, tanto più se dobbiamo crederla eseguita verso il 1510, quando moriva, avendo già compiuto la sua opera, Giorgione. In una sua seconda maniera il C. è tutto pervaso dalle manifestazioni ultime, luminose del Giambellino; è aggraziato nei volti, largo nei drappeggi di colori vivi e quasi troppo lucenti, come nelle sue Sacre Conversazioni, ora a Budapest, a Glasgow, a Berlino e a Modena, con un crescere continuo di abilità, forse un po' troppo formale. Sino che visse il Bellini, si può ben dire che il C. non vedesse altro sole; poi, si accorge dei nuovi miracoli della pittura veneziana e cerca di avvicinarsi a quella vita nuova. Il momento più felice lo ebbe nel dipingere nel 1520 il famoso Martirio di Santa Cristina per l'altare di Santa Maria Materdomini a Venezia. Quadro adorabile, nel quale gli angioletti, quasi per gioco, stringono attorno alla santa, tutta devoto candore, la lunga corda con la mola da molino che la trarrà affondata nel lago. Per larghezza di belle tonalità si avvicina al descritto capolavoro veneziano, fra le poche opere che si debbono con tutta sicurezza attribuire al nostro, il Noli me tangere a Brera in Milano, già ricordato dal Michiel a Crema nella chiesa dello Spirito Santo. Il Cristo che consegna le chiavi a San Pietro assistito dalle tre Virtù teologali, bellissimo dipinto, al Prado di Madrid, soprattutto nelle tre figure femminili che ricordano Sebastiano del Piombo e Palma il Vecchio, segna il punto culminante nelle evoluzioni del C., dato che la bella Giuditta della Querini Stampalia, che pur si ha per opera sua, è troppo guasta dai restauri per poterne ben giudicare.
Intorno a queste opere, che sono le più notevoli, altre molte se ne raccolgono, date e tolte a lui dagli storici dell'arte secondo il variabile apprezzamento che si fa dell'ecclettico maestro. Così già gli veniva comunemente dato il Cavaliere in ginocchio davanti alla Santa Famiglia col paggio, il cavallo e il cagnolino, della National Gallery di Londra e che ora, con altre pitture che a quella si riconnettono, chi vorrebbe d'un anonimo belliniano, chi di Iacopo Palma il Vecchio, che si può dire cominci là dove il C. finisce. Se poi si arriva a dare a lui, come altri ha fatto, persino la Giuditta ritenuta di Giorgione dell'Ermitage a Leningrado, e quel meraviglioso quadro dell'Adorazione dei pastori, che non è di Giorgione, ma tanto gli si avvicina, del visconte Allendale a Dilton, certo il C. grandeggerebbe molto. La diligenza tecnica e lo scrupolo veristico fecero del C. un ottimo, per quanto freddo, ritrattista, e tale lo attestano il Senatore veneziano della Galleria nazionale di Vienna, il ritratto del Fugger ora al Museo a Berlino, già ricordato dal Vasari, ed altri ritratti che si dànno a lui togliendoli al Giambellino.
Bibl.: M. Michiel, in G. Bottari, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, I, Milano 1822, p. 574; id., Notizie d'opere di disegno, Bassano 1800; C. Ridolfi, Le meraviglie dell'arte, I, Berlino 1914, pagine 82-83; B. Berenson, The Venetian Painters of the Renaissance, Londra-New York 1907; G. Gronau, V. C. oder Vincenzo delle Destre, in Rassegna d'arte, XI (1911), pp. 6-9; Hadeln, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, VI, Lipsia 1912 (con la bibliografia precedente); Guida del Seminario Patriarcale, Venezia 1912, p. 14; L. Venturi, Giorgione e il giorgionismo, Milano 1913, pp. 324-32; A. Venturi, Storia dell'arte ital., VII, iv, Milano 1915, pp. 562-74; T. Borenius, A Portrait by C., in The Burl. Mag., XXIX (1916), pagina 225; C. H. Collins Baker, Catena al Trafalgar Square, ibid. XLII (1923), pp. 239-46.