Cuoco, Vincenzo
Nato a Civitacampomarano nel 1770 e morto a Napoli nel 1823, C. apparve sulla scena culturale italiana nel 1801, quando pubblicò a Milano il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, una densa e sofferta riflessione sulle cause della sconfitta conosciuta nel 1799 da quanti nel Mezzogiorno avevano salutato con entusiasmo l’arrivo di Napoleone Bonaparte e avviato l’eversione dell’antico regime nella penisola. Nell’opera compariva la considerazione, destinata a grande successo nella cultura politica dell’Italia moderna, che la Repubblica napoletana – ma il discorso si allargava volutamente alla penisola tutta – fosse stata una «rivoluzione passiva», ossia un rivolgimento determinato dalle baionette francesi, ma rimasto privo del necessario consenso delle collettività locali. In quell’affermazione si riassumevano le tante critiche rivolte all’esperienza del 1799, perché vi confluivano – e le davano sostanza – i rilievi di astrattezza rivolti ai patrioti tutti, nonché l’amara riflessione circa la presenza nella penisola di due popoli, separati da una distanza abissale e destinati di conseguenza a incontrarsi con difficoltà. Nel Saggio storico era però anche altro, perché C. traeva dall’analisi del recente disastro l’occasione per suggerire una nuova prospettiva politica, che consentisse di fondare su più solide basi il nuovo ordine repubblicano.
Nella ricostruzione delle drammatiche vicende italiane di fine Settecento, nell’analisi dell’improvviso fallimento della rivoluzione in Italia come nelle considerazioni che informavano la sua proposta di un nuovo indirizzo politico, gli scritti di M., definito «uomo sommo d’Italia», costituivano non di meno un costante punto di appoggio, perché – a sostegno delle proprie tesi – C. faceva loro un esplicito riferimento per ben nove volte. Non vi è dubbio che dovesse all’antico maestro Giuseppe Maria Galanti (→), autore nel 1779 di un Elogio di Niccolò Machiavelli, l’ammirazione per lo scrittore fiorentino: tuttavia la lettura di C. era molto diversa. Mentre quello aveva circostanziato l’interpretazione settecentesca di M. e lo aveva proposto come lo scrittore che, elogiando la forza dei principi, sarebbe stato in realtà dissacratore del loro dispotismo, C. sembrava poco o nulla interessato alla questione e puntava tutto sul significato storico, nonché sul valore scientifico degli scritti del Segretario fiorentino.
Nelle sue pagine si insisteva infatti su una chiara analogia tra il 1494 e il 1798, ossia veniva introdotto un diretto nesso tra la stagione, drammatica per le sorti della penisola, in cui M. aveva sviluppato la propria dottrina politica e quella che lo stesso C. aveva altrettanto pericolosamente vissuto e sulla quale si sentiva parimenti chiamato a scrivere. In altre parole, come l’arrivo di Carlo VIII aveva dimostrato la pochezza degli antichi Stati italiani, così – a distanza di tre secoli – l’invasione di Bonaparte aveva confermato la fragilità degli equilibri politico-istituzionali della penisola: da qui, la scelta di insistere su una drammatica linea di continuità tra i due avvenimenti. Nell’analogia faceva riverbero la plurisecolare decadenza italiana, sulla quale non a caso C. faceva leva per sviluppare una serrata critica ai poteri di antico regime che, pavidi e tremebondi, sarebbero corsi a chieder la pace ai francesi per rovesciare sui vicini la minaccia militare, e avrebbero in tal modo confermato il valore universale di quanto M. aveva scritto circa la capacità dei Romani di dividere gli avversari per vincerli l’uno dopo l’altro. Ma c’era di più: proprio il richiamo alla precedente perdita dell’indipendenza italiana lo induceva a suggerire come la medesima meccanica – ossia la circostanza che nel 1796 la libertà nascesse dall’invasione – avesse molto condizionato i rivoluzionari italiani, i quali, non riuscendo a distinguersi dai loro liberatori, persero il contatto con le attese delle collettività locali e finirono per sprecare la grande occasione presentatasi loro.
In questo quadro, il riferimento a M. tornava ripetutamente: sia quando C. ricordava come lunghi secoli di servitù rendessero difficile il trasporto popolare verso il nuovo ordine e facilitassero il contraccolpo reazionario; sia quando sottolineava come sarebbe stato fondamentale coinvolgere le collettività nelle principali scelte di governo; sia quando suggeriva come non si dovesse troppo innovare perché le nuove leggi non suonassero astruse e tiranniche; sia, infine, quando ricordava come lo spirito pubblico – in assenza di un quadro generale ispirato alla virtù – rischiasse, sotto il peso degli interessi particolari, di degenerare in una logica settaria destinata ad annientare ogni prospettiva di libertà.
E, di rovescio, C. non mancava di fare ricorso sempre a M. quando si trattava di far tesoro degli errori commessi per sviluppare una nuova strategia politica che consentisse finalmente di stabilizzare su più ampie basi sociali il nuovo ordine: in questo quadro meritano di essere ricordate le parole di elogio del Segretario fiorentino quando sottolineava come nell’antica Roma il desiderio dei plebei di emulare i patrizi favorisse il perfezionamento dell’istituto repubblicano. E sempre sulla stessa falsariga vanno lette le sue lodi a Lucio Giunio Bruto – che pur fondando la repubblica aveva però mantenuto i costumi religiosi della monarchia romana, ai quali andava la devozione popolare – oppure la sua insistenza sulla necessità di coinvolgere, sempre e comunque, il maggior numero dei cittadini nelle scelte di governo.
Nell’insieme, dunque, il Saggio storico chiamava ripetutamente in soccorso gli scritti di M., ai quali si proponeva però di tornare con quello sguardo profondamente rinnovato rispetto alla tradizione del 18° sec. che solo la drammatica esperienza del 1799 poteva consentire. Di tutto questo si ha conferma negli scritti giornalistici che C. avrebbe pubblicato successivamente nel «Giornale italiano». Dalle colonne di quel foglio, sempre insistendo sulla necessità di un consenso sociale al nuovo ordine, egli avrebbe ripetutamente fatto appello a M. per sostanziare la propria idea che solo una nuova cultura nazionale, fondata sullo straordinario esempio offerto al riguardo dall’Italia del 16° sec., avrebbe consentito alla penisola tutta di recuperare il troppo tempo perduto e di ricomporre le drammatiche divisioni di cui dava prova la sua società. Non è casuale che nel 1804, scrivendo di Paolo Giovio, che gli sembrava ingiustamente criticato, C. ponesse M. al centro dell’auspicata nuova politica italiana, sottolineando come lo stesso Montesquieu guardasse con ammirazione al Segretario fiorentino, e facendo proprio ciò che M., nell’Arte della guerra, aveva fatto dire a Fabrizio Colonna a proposito di virtù civili e militari, di rifiuto delle sette e d’interesse per il bene comune.
Sempre in quello stesso anno, in un altro articolo C. pubblicava un dialogo immaginario di M., che costituisce una sorta di autoritratto politico: al Segretario fiorentino egli faceva infatti lamentare la pochezza dei signori italiani del tempo, lo descriveva sofferente per l’impreparazione del popolo alla virtù, gli faceva ammettere di non aver scritto aforismi, bensì riflessioni profondamente innestate nello specifico contesto del momento; e mentre gli riconosceva un incontenibile amor di patria, gli accreditava pure l’idea dell’unità italiana quale antidoto alla pochezza militare e alla fragilità politica della penisola. Non vi è dubbio che qui il 1799 facesse però premio sul 1494 e favorisse una scoperta attualizzazione del personaggio M.: la cosa non deve troppo stupire, perché C., che viveva il proprio tempo e lo interpretava politicamente nei termini che il Segretario fiorentino gli sembrava avere compiutamente definito, non trovava implausibile appropriarsi di quella figura storica per farne un anticipatore della questione italiana quale gli si appalesava nei primi anni del 19° secolo.
In tal modo, la figura e l’opera di M. divenivano anche una bussola di precisione nella difficile rotta scelta da C. scrittore politico nell’Italia d’inizi Ottocento. Lungo questa direttrice – dove la critica del tempo presente costruiva ogni ipotesi d’un possibile destino migliore – egli si sarebbe mosso anche nella stesura delle sue successive fatiche, ossia il Platone in Italia, comparso in tre tomi tra il 1804 e il 1806, nonché la nuova edizione del Saggio storico, pubblicata a sua volta in quello stesso ultimo anno. Nella prima, si narra d’un viaggio di Platone accompagnato dal giovane Cleobolo per l’Italia meridionale, dove i due ammirano la civiltà dei popoli italici – che sembra loro superiore alla greca – e mostrano interesse per la scuola pitagorica, fondatrice della morale e della politica attorno alle quali si diceva fosse fiorita la civiltà dell’Italia antica. Ai due il quadro istituzionale appare non di meno fragile, perché la mancanza di saldi sistemi di governo presso le popolazioni italiche lasciava loro intravedere la prossima perdita della libertà a fronte della assai meglio ordinata potenza romana. Al riguardo, non è difficile individuare l’allusione ai tempi presenti, perché se l’elogio della sapienza italica costituisce un fondamento erudito alla pretesa di collocare, addirittura in un lontanissimo trascorso, l’originalità culturale italiana, l’inevitabile trionfo della potenza romana, grazie alla perfezione dei suoi ordinamenti, è allegoria della Francia di Bonaparte, portata a dominare, in virtù dei migliori strumenti di governo, anche nella penisola italiana.
In questo quadro, i riferimenti appaiono in tutta evidenza: da un lato, nell’elogio dell’antica sapienza italica, vi è una brillante rilettura della giovanile Antiquissima Italorum sapientia di Giambattista Vico; ma dall’altro nel rapporto tra ordini, leggi e costumi quale strumento di misurazione dello sviluppo (o dell’involuzione) di una comunità politica, sono proprio i Discorsi, anche per il tramite di Montesquieu, a costituire un costante punto di appoggio. Tutto questo appare evidente nelle pagine che il Platone in Italia riserva alle origini del sistema politico di Roma, interamente esemplate sulla ricostruzione a suo tempo fattane da Machiavelli. In tal modo, l’analisi storica del Segretario fiorentino sembra puntualmente accompagnare quella di C., nell’elogio degli ordinamenti come nell’analisi della tirannide, nell’accettazione della storia romana alla stregua di un procedimento esemplare con il quale sempre tenere confronto, come nella lettura delle singole vicende che l’avevano innervata. Singolare a questo proposito il giudizio sul decemvirato e sulla figura di Appio Claudio, che C. – facendo perno sulla lettura di M. – addirittura ripropone quale termine di comparazione con le recenti vicende del Terrore in Francia.
Questo debito assume proporzioni ancora più significative nella seconda edizione del Saggio storico, data alle stampe quando la situazione politica italiana, a qualche anno appena dall’uscita della prima stesura, sembrava non di meno del tutto trasfigurata: rispetto al 1801, quando era parso che la repubblicanizzazione della penisola intera e l’unità italiana fossero una strada percorribile, il 1806 presentava infatti un Bonaparte nel frattempo divenuto imperatore dei francesi e re d’Italia, che sanciva, con il proprio illimitato potere, come le speranze di una pronta libertà italiana dovessero lasciare il passo a una nuova stagione di subordinazione. E tuttavia, se il trionfo dell’ordine napoleonico – che con la recente conquista di Napoli dominava ormai l’intera penisola – sembrava annullare le tante speranze di C., restava, come auspicio per il futuro, la circostanza che la società italiana fosse guidata da ordinamenti uniformi, i quali molto avrebbero potuto, nel tempo, per la sua piena maturazione. La stagione napoleonica, intesa come un forzato incontro della penisola tutta con l’ordine di Francia, sembrava così una dolorosa (ma per più d’un aspetto vantaggiosa) ingessatura nella quale raccogliere la società italiana, perché questa – proprio sotto le autoritarie e al tempo stesso rassicuranti insegne imperiali – potesse ricomporre le proprie plurisecolari fratture e fondare, su più solide basi, la pretesa di tornare, finalmente in modo indipendente, sulla scena europea.
In questa chiave – e in ossequio al mutato ordine istituzionale – C. avrebbe nuovamente messo mano al suo Saggio storico: e tale prospettiva spiega perché la sua adesione al nuovo ordine napoleonico non gli impedisse di tener fermo sull’impianto della prima edizione, giusto adattandola, laddove il mutato quadro politico lo imponeva, alla congiuntura del processo storico nel quale tornava a proporre la propria fatica. Per questo motivo, se nel 1801 M. era stato un sicuro punto di riferimento (e molteplici, come si è visto, erano stati gli accenni alla sua opera), il ricorso all’autorità del Segretario fiorentino si sarebbe, se possibile, ulteriormente rafforzato in occasione della seconda stesura. Alle nove esplicite citazioni presenti nella prima versione, C. ne aggiungeva infatti altre sei ancora, che rafforzavano la sua scelta di fare dell’universo politico e morale delineato dall’opera di M. un punto di legittimazione delle proprie parole.
Così, all’indomani del fatto nuovo ed epocale di un Bonaparte divenuto Napoleone imperatore e re, non gli era difficile d’un lato tracciare il quadro della decadenza degli istituti repubblicani di epoca moderna prendendo come riferimento le durissime parole del Segretario fiorentino rivolte contro Venezia; e dall’altro, confermando la prospettiva che era venuto sviluppando dalle colonne del «Giornale italiano», poteva ricordare come la scuola italiana di scienze politiche e morali – fondata da M. e proseguita da Gian Vincenzo Gravina e Vico – disponesse di una originalità (e di una primazia) che mai avrebbe potuto indurre chi ne seguisse i precetti a condividere i propositi complessivi della Rivoluzione francese. Parole che per un verso consentivano a C. di prender le distanze dalla recente vicenda repubblicana (di Francia come d’Italia) e per altro gli permettevano di tracciare una via propriamente nazionale alla moderna dottrina politica, le cui potenzialità stavano anche nella capacità di interpretare il passaggio epocale del 1789 in termini più puntuali rispetto agli stessi francesi.
Ne era prova la sua lettura della Rivoluzione francese di cui individuava il punto di non ritorno nell’esecuzione della condanna a morte di Luigi XVI, perché gli sembrava che il 1789 avesse perduto ogni plausibilità politica proprio quando la Convenzione, pretendendo la morte del cessato re nel gennaio del 1793, aveva rinnegato i propri principi: così come – subito aggiungeva per dare legittimità alla sua affermazione – aveva a suo tempo scritto M. di quel Virginio che, vinto Appio, si era rifiutato di permettere a questi di fare appello al popolo benché le leggi glielo consentissero. E sempre in tema di Rivoluzione francese, la lettura del decemvirato nei Discorsi veniva utile a C. per esprimere il proprio giudizio su Robespierre attraverso l’analogia con il già ricordato Appio: così, quanto nel Platone in Italia era solo accennato, C. ora ulteriormente sviluppava per suggerire come l’Incorruttibile avesse seguito lo stesso tragitto politico dell’antico Romano, perché – proprio come aveva detto M. – investito di un potere assoluto, ma limitato nel tempo, aveva tentato di perpetuarlo mediante la tirannia.
Questi esempi tratti dalla seconda stesura del Saggio storico, unitamente ad altri passi dove si torna ad accostare il 1494 al 1798 e molto si insiste sulla fragilità delle armi degli antichi Stati italiani, offrivano così la cifra dell’uso – per ampi tratti predato-rio – che C. avrebbe fatto dell’opera di M.: d’un lato, con il preciso intento di costruire un modello di cultura propriamente nazionale, avrebbe individuato nel Segretario fiorentino il capostipite di una scuola morale prettamente italiana, capace di formulare le regole immutabili della politica e dunque atta a favorire la puntuale comprensione degli avvenimenti d’ogni tempo; dall’altro, lo avrebbe evocato a legittimazione del vivere presente, perché gli indirizzi politici di quello non dovevano restare circoscritti alla sfera della trattatistica, bensì allargarsi alla formulazione di concrete scelte in merito alla stagione presente e permettere in questo modo di vivere politicamente il proprio tempo.
Questo uso per ampi tratti disinvolto dell’opera di M. sintetizza la stessa scelta politica di C., che mentre faceva dire al Segretario fiorentino di preferire il Valentino agli altri signorotti d’Italia (perché quello, a differenza di tutti gli altri, avrebbe almeno avuto a mente la formazione di una statualità italiana), al tempo stesso non mancava di dare una profonda adesione all’ordine napoleonico, che gli sembrava, seppure indirettamente soltanto, molto favorire la causa unitaria. Lungo questa direttrice, non vi è dubbio che negli scritti di C. siano largamente sparsi i motivi che avrebbero indotto tutto l’Ottocento politico italiano a confrontarsi ripetutamente con l’opera di M.: l’identità patriottica, intesa come il portato di una tradizione culturale che proprio nel Rinascimento aveva trovato origine e irripetibile eccellenza, avrebbe infatti costituito il costante punto di riferimento per le parole scritte solo qualche anno dopo da Ugo Foscolo ed era destinata a dettare l’ispirazione di quanti, fino a Francesco De Sanctis, si sarebbero confrontati con la lezione del Segretario fiorentino. In tal modo, C. chiudeva per sempre la lettura di M. offerta dal 18° sec. e avviava un’interpretazione in cui si aprivano larghi squarci per una puntuale definizione della sua dottrina politica, ma al tempo stesso – proprio perché piegava il personaggio storico alla temperie politica del tempo – ne favoriva anche quell’uso largamente surrettizio di cui la stagione risorgimentale avrebbe spesso dato prova.
Bibliografia: Gli scritti di C. sono oggi disponibili nell’edizione Opere di Vincenzo Cuoco. Scritti editi e inediti, a cura di L. Biscardi, A. De Francesco, di cui si hanno i seguenti volumi: Platone in Italia, a cura di A. De Francesco, A. Andreoni, Roma-Bari 2006; Epistolario, a cura di D. Conte, M. Martirano, Roma-Bari 2007; Scritti di statistica e di pubblica amministrazione, a cura di A. De Francesco, L. Biscardi, Roma-Bari 2009; Scritti politico-giuridici, a cura di N. Di Maso, Roma-Bari 2009; Scritti giornalistici, a cura di F. Tessitore, Roma-Bari 2010; Scritti sulla istruzione pubblica, a cura di L. Biscardi, R. Folino Gallo, Roma-Bari 2012. Il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura di A. De Francesco, comporrà il settimo volume; nel frattempo, tra le molte edizioni disponibili, è possibile leggerlo nella prima edizione del 1801 in copia anast. a cura di F. Tessitore, Napoli 1988; sempre nella prima edizione, ma con le varianti della seconda del 1806 in nota, nell’edizione a cura di A. De Francesco, Roma-Manduria 1998. La seconda edizione è invece riproposta a cura di P. Villani, Milano 1999.
Per gli studi critici si vedano: L. Russo, Machiavelli, Bari 1945; F. Tessitore, Filosofia, politica e storia in V. Cuoco, Lungro di Cosenza 2002; N. Di Maso, Il repubblicanesimo di Vincenzo Cuoco: a partire da Machiavelli, Firenze 2005; M. Martirano, A Milano e a Napoli. Biografia, cultura storica, filosofia in Vincenzo Cuoco, Milano 2011.