Vincenzo Cuoco
L’impegno intellettuale, l’elaborazione teorica e la concezione della politica di Vincenzo Cuoco, una delle più grandi intelligenze dell’Ottocento, rappresentano un elemento insostituibile per cogliere la nervatura profonda dell’identità culturale italiana. Le sue riflessioni sulla rivoluzione e sulle caratteristiche della nazionalità hanno infatti segnato in profondità il movimento risorgimentale nelle sue molteplici componenti per poi rappresentare, lungo tutto il 20° sec., un costante punto di riferimento nel dibattito sulla irregolare modernità della penisola.
Vincenzo Cuoco nacque a Civitacampomarano, in Molise, il 1° ottobre 1770, da Michelangelo, dottore in legge. Si portò giovinetto a Napoli per compiere gli studi, dove si interessò di diritto e di medicina, senza tuttavia mai arrivare a laurearsi. Dopo una breve collaborazione con Giuseppe Maria Galanti, iniziò una modesta carriera da ‘paglietta’, alla quale lo sottrasse, nel gennaio del 1799, l’improvviso arrivo dei francesi. Pur senza svolgere incarichi di grande rilievo, non mancò di prendere parte alla Repubblica napoletana, tanto che, prontamente incarcerato al momento del ritorno di Ferdinando di Borbone, venne condannato a venti anni di deportazione.
Fu esule in Francia, per poi raggiungere Milano, liberata da Napoleone Bonaparte nel 1800. Qui, agli inizi del 1801, dava alle stampe il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, una straordinaria riflessione sulle cause della sconfitta rivoluzionaria, nel 1799, a Napoli come in tutta Italia. L’opera, dove si suggeriva una diversa prospettiva al rivoluzionamento della penisola nel momento in cui i francesi vi tornavano in forze, ebbe fortune immediate e aprì a Cuoco la via di un’intensa attività giornalistica – che lo portò nel 1804 alla direzione del «Giornale italiano», una sorta di organo ufficioso del governo –, ma non gli assicurò quella carriera di funzionario che, anche attraverso studi di statistica e di politica economica, pensava invece di intraprendere. Sempre nel 1804 dava però alle stampe i primi due tomi del Platone in Italia, dove, in omaggio al suo sentimento nazionale, prefigurava l’unità etnica e culturale del popolo italiano. Il terzo e ultimo tomo, dove si affaccia il dominio romano sulla penisola come allegoria di quello francese, apparve, assieme alla seconda edizione ampiamente riveduta del Saggio storico, nel 1806, proprio parallelamente all’ingresso delle truppe napoleoniche a Napoli.
Pronto il ritorno di Cuoco, il quale, negli anni di governo dei re Giuseppe Bonaparte (1806-08) e Gioacchino Murat (1808-15), avrebbe avuto incarichi di grande rilievo, tra i quali spiccano la redazione del nuovo codice civile, i criteri per l’eversione della feudalità e un progetto di pubblica istruzione. Tuttavia, pur dimostrando piena lealtà ai sovrani napoleonidi, egli non venne mai meno al proprio progetto politico di unificazione della penisola e in qualità di consigliere di Stato contribuì in modo decisivo ad allontanare Gioacchino dalla Francia, salutando con parole commosse nel 1815 la presa delle armi del sovrano contro l’Austria nel proposito di unificare sotto il suo scettro l’Italia tutta. Il fallimento della guerra per l’indipendenza segnò la fine della carriera politica di Cuoco: messo a riposo al rientro del Borbone, egli tentò inutilmente di restituirsi agli studi, che gli vennero impediti da una drammatica crisi di nervi destinata ad accompagnarlo sino alla morte, intervenuta a Napoli il 14 dicembre 1823.
Scarse le notizie su Cuoco fino alla svolta della creazione della Repubblica napoletana: appena giunto a Napoli, nel 1787, studiò diritto e medicina e seguì i corsi tenuti da Mario Pagano, Francesco Conforti e Giuseppe Cirillo. Entrò al tempo stesso in contatto con Galanti, che gli fece conoscere le opere di Antonio Genovesi e lo chiamò a collaborare alla sua Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie. I rapporti tra i due si sarebbero però presto incrinati e, sin dal 1792, il giovane Cuoco, senza aver mai concluso gli studi, era ormai in contatto, grazie all’amicizia contratta con Vincenzio Russo, con lo zio di quest’ultimo, Nicola Vivenzio, avvocato fiscale della Corona, grazie alla cui protezione mise a punto un memoriale sulla vacanza dei feudi non ancora rinvenuto.
Nel 1795, ormai ‘paglietta’, entrò a far parte della cerchia di Prosdocimo Rotondo, un avvocato specialista di contenzioso tra università e baroni, e sotto la sua guida iniziò a patrocinare alcuni comuni contro i rispettivi signori feudali. La sua carriera parve andare incontro al disastro nel 1798, quando, sostenendo una rivendicazione della sua Civitacampomarano contro il feudatario locale, si scontrò con Michele De Iorio, presidente del tribunale dell’Ammiragliato e creatura del ministro John Francis Edward Acton. Lo salvò l’arrivo dei francesi a Napoli nel gennaio del 1799: proprio la critica della feudalità collocò subito Cuoco tra i sostenitori della Repubblica e nel corso di quella breve stagione di democrazia, convinta Luisa Sanfelice a denunciare la congiura controrivoluzionaria dei Baccher, seguì a Nola Ignazio Falconieri, commissario organizzatore nel dipartimento del Volturno, incarico in cui lo stesso Cuoco sarebbe subentrato alla vigilia del crollo della Repubblica.
Tratto in arresto e condannato a venti anni di deportazione, nella primavera del 1800 lasciava Napoli alla volta della Francia, da dove, a seguito del trionfo di Napoleone a Marengo, si portava subito a Milano, capitale della restaurata Repubblica cisalpina e luogo di raccolta di molti fuorusciti meridionali. Qui, nel febbraio 1801, pubblicava il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli.
L’opera è una riflessione sulla vicenda napoletana del 1799, in cui Cuoco indica come quella tragedia nascesse soprattutto dall’incapacità dei patrioti di conquistare il favore popolare e fosse l’esito della pretesa di solo emulare, anziché articolare sulla base delle peculiarità della penisola, il modello istituzionale d’Oltralpe. Prendeva forma in quelle pagine la considerazione, destinata a grande successo nella cultura politica dell’Italia moderna, che la svolta del 1799 fosse stata – a Napoli, ma il discorso si allargava volutamente alla penisola tutta – una rivoluzione passiva, perché promossa dalle baionette dell’esercito francese e poco o punto sostenuta da un libero consenso.
La denuncia della subordinazione dei patrioti all’esempio francese, che li avrebbe indotti a far strame delle tradizioni politico-culturali della penisola in nome di un malinteso cosmopolitismo, conosceva poi un approfondimento d’ordine costituzionale nei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo posti in appendice all’opera, dove, mediante un escamotage letterario, Cuoco asseriva di aver tenuto dialogo con l’amico attorno al progetto costituzionale scritto da Pagano nel corso del 1799. Denunziando come quel testo fosse troppo fondato sull’esempio della carta francese dell’anno III, lamentandone verticismo e artificiosità, l’autore arrivava a suggerire un differente tracciato costituzionale in cui le antiche tradizioni popolari potessero essere accolte (e rifuse) nel quadro di un progetto volto a interpretare al meglio l’esperienza storica della penisola.
In queste ultime pagine era la chiave di lettura di tutta l’opera, perché nella serrata critica di Cuoco a un testo costituzionale troppo adagiato sul modello francese vi sono tutti i motivi della riflessione politica che egli articola nelle pagine precedenti: e, in effetti, i rilievi di astrattezza rivolti ai giacobini partenopei (e dell’Italia tutta) che non seppero ottenere il consenso popolare, la condanna di un ordine democratico fondato sull’esempio straniero (e quindi del tutto inadeguato a riassumere la specificità italiana), la denuncia della totale dipendenza delle Repubbliche italiche dalle baionette di Francia, l’amara riflessione sulla presenza di due popoli separati da una distanza abissale di cui i patrioti quasi non si sarebbero neppure accorti, sono temi che, mentre nel Saggio storico trovano collocazione all’interno della categoria della rivoluzione passiva, nei Frammenti vengono esplicitati sotto la forma della riflessione d’ordine costituzionale, dove, se il suffragio universale veniva accantonato, non erano poche, però, le suggestioni perché le antiche tradizioni popolari potessero essere accolte e ridefinite nel quadro di un progetto propriamente nazionale.
Questo non significava, tuttavia, una presa di distanza politica dalla Francia: gli anni rivoluzionari sembravano a Cuoco avere fondato una modernità politica che sola avrebbe potuto consentire alla penisola di recuperare il divario che la separava dai più progrediti Paesi d’Europa ed egli rimase fermo sull’importanza del nuovo ordine bonapartista per rilanciare la causa della modernizzazione della penisola. Non a caso, nel Saggio storico, la subordinazione alla Francia, niente affatto nascosta, diviene un passaggio doloroso e, tuttavia, necessario perché dalla situazione di decadenza in cui l’antico regime aveva trascinato l’Italia tutta, potesse risorgere un’autentica politica nazionale, prendendo lezione dal disastro spaventoso del 1799, ma sempre attraverso l’adesione ai valori del 1789.
Per questo motivo, nei mesi immediatamente successivi a Marengo, in una Milano luogo di raccolta dei tanti esuli d’Italia, l’opera venne letta quale autentico manifesto politico, perché nel quadro di una prossima ripresa delle ostilità lungo la penisola solo un nuovo modello repubblicano, declinato attorno ai valori e ai bisogni delle sue tante genti, avrebbe consentito di vincere la partita con l’antico regime e di stabilizzare, sulla base di un convinto consenso sociale, il nuovo ordine. Alla sua proposta non sarebbero mancate grandi fortune, che furono immediatamente di segno opposto e avrebbero dominato la scena dell’Ottocento italiano: i molti sostenitori dell’antico regime vi colsero compiaciuti la conferma della dimensione reazionaria delle collettività della penisola, i circoli moderati vi lessero il messaggio che solo una ristretta élite, seppure nell’interesse di tutti, dovesse farsi carico della modernità italiana, mentre i circoli radicali vi scorsero, invece, l’apprezzamento della vitalità popolare e su quella pensarono di articolare un processo di democratizzazione. In ogni caso, l’opera diveniva punto di riferimento ineludibile nel dibattito politico dell’Ottocento e consacrava il suo autore quale straordinario pensatore politico, a cui, lungo tutto il 19° sec., mai si sarebbe mancato di fare ritorno per trovarvi conferme o auspici.
Avvantaggiandosi delle forti aspettative del momento, le pronte fortune del Saggio storico consentirono al suo autore di guadagnare una posizione di grande rilievo nel panorama culturale milanese. Ne fu prova la collaborazione di Cuoco al «Redattore cisalpino», presto divenuto, a seguito del cambio di denominazione della Repubblica stabilito nel dicembre 1801 ai comizi di Lione, il «Redattore italiano». Dalle colonne del giornale egli non si stancò mai di insistere sulla necessità di guadagnare quel consenso sociale che al nuovo ordine continuava invece molto a mancare e proprio quella preoccupazione lo indusse a coniugare l’attività pubblicistica con il diretto impegno all’elaborazione di specifiche proposte di governo.
Nascevano in questo quadro le Osservazioni sul dipartimento dell’Agogna, il territorio del Novarese appena divenuto parte integrante della giovane Repubblica. Scritte su esplicita richiesta del commissario straordinario del dipartimento Ludovico Lizzoli, quelle note offrivano una descrizione delle condizioni storiche e geografiche, sociali ed economiche del territorio, dove tornavano alcuni dei temi già anticipati nel Saggio storico: per lo sviluppo del dipartimento molto si insisteva, infatti, sull’istruzione quale strumento di emancipazione dall’arretratezza in cui versavano le collettività locali, e parimenti forte risuonava l’elogio della piccola proprietà, che veniva indicata quale il vero basamento sul quale avrebbe dovuto far conto il nuovo ordine. L’insistenza su questi aspetti, che dovevano essere debitamente valorizzati mediante una concreta opera di governo, valeva a innescare una polemica niente affatto velata contro la grande possidenza – additata quale uno dei più gravi ostacoli sulla via della stabilizzazione della nuova Repubblica – e contro quella stessa libertà di commercio, che sembrava invece dominare l’orizzonte di governo della classe dirigente messa al potere da Bonaparte dopo i comizi di Lione.
Appunto alla volontà di suggerire altra politica economica (e un ricambio della classe politica, che tenesse conto della dimensione ormai italiana della nuova Repubblica) va collegata la Lettera ad un amico sull’opera di Gioja, uscita anonima agli inizi del 1802, dove Cuoco conduceva una dura polemica contro il liberismo economico dell’altro e si spingeva a denunciare l’illimitata libertà di commercio preconizzata in precedenza da tutto l’Illuminismo lombardo. A detta di Cuoco, le tesi di Pietro Verri, che Gioia provvedeva disinvoltamente a saccheggiare, erano ormai sorpassate e immeritevoli di dominare il paesaggio mentale della nuova classe di governo repubblicana, perché proprio la vicenda rivoluzionaria, in Francia come in Italia, aveva fatto strame delle teorie degli economisti e dimostrato come dall’astrattezza dei riformatori non potesse nascere un nuovo ordine di governo.
La contestazione del pensiero economico del 18° sec. era d’altronde parte integrante di una più ampia critica al modello culturale illuminista, che gli sembrava un prodotto d’Oltralpe la cui pedissequa imitazione in Italia aveva per certi versi addirittura ingigantito la condizione di arretratezza in cui versava la penisola. L’argomento viene spesso affacciato, infatti, nell’attività giornalistica, dove Cuoco mai mancò di ricordare come la nazione italiana, tornata a disporre di sé solo grazie alla spada di Bonaparte, pena una perenne dimensione ancillare, proprio sul terreno culturale dovesse invece arrivare a distinguersi dal preponderante esempio di Francia. E non a caso, quella stessa preoccupazione avrebbe informato il progetto di una statistica per l’intero territorio della Repubblica italiana che Cuoco sottomise, sempre nel 1802, all’attenzione del vicepresidente Francesco Melzi d’Eril.
Il lavoro venne prontamente avviato, ma non giunse mai a conclusione, anche per le molte resistenze cui andò presto incontro. Tuttavia, quanto resta di quella fatica, su cui Cuoco avrebbe a lungo riposto tante speranze, illumina circa il suo proposito di individuare una radice propriamente italiana dell’economia politica: a sua detta, infatti, l’originalità della disciplina stava nella diretta osservazione della realtà, una caratteristica questa che era propria della tradizione nazionale, ma che era andata presto perduta quando l’economia era divenuta affare della scuola fisiocratica. Era pertanto necessario tornare a quell’approccio, che solo avrebbe consentito di rilanciare, anche sul terreno dell’economia, quel primato italico nelle arti e nelle scienze che, dopo gli splendori del Rinascimento, era presto andato perduto in ragione della decadenza politica della penisola.
La riscoperta della statistica quale scienza propriamente nazionale era insomma parte integrante di un progetto politico-culturale improntato all’identità italiana della giovane Repubblica sul quale Cuoco avrebbe sempre insistito trovando tuttavia scarso appoggio presso le autorità di Milano: gli facevano torto le scelte di governo del vicepresidente Melzi d’Eril che, da un lato, per ingraziarsi Bonaparte, aveva cura di tenere a freno il personale più pronunciatamente patriottico e, dall’altro, proprio in materia di politica economica, sempre volle insistere sulla grande proprietà e sul liberismo quali strumenti d’appoggio per stabilizzare in termini socialmente conservatori e politicamente moderati il nuovo Stato.
La conclusione fu improntata alla politica del tutto negare pur concedendo, almeno apparentemente, qualcosa: il progetto di statistica venne presto accantonato, a Cuoco non vennero aperte le agognate porte della carriera amministrativa, ma si pensò di impiegarlo nella direzione del «Giornale italiano», dalle cui colonne avrebbe potuto continuare la propria battaglia culturale senza che questa dovesse conoscere una declinazione politica capace di incidere sugli equilibri di governo della Repubblica italiana. Anche a seguito di questa personale delusione, Cuoco sarebbe tornato a insistere sul tema della sudditanza italiana nei confronti dei modelli culturali d’Oltralpe: quell’aspetto gli sembrava uno strumento di dissipazione della specificità nazionale a tutto vantaggio del dominio di Francia che non poteva più essere tollerato, anche se i margini per una scoperta critica del potere di Francia andavano drammaticamente restringendosi. Restava, non di meno, la riservatezza della scrittura: e appunto negli stessi anni in cui inutilmente tentava, con i propri lavori di politica economica, di proporre una specifica identità culturale italiana, Cuoco avrebbe anche avviato la stesura di un’opera letteraria, destinata nei suoi intenti – mediante la rilettura di un’opera giovanile di Giambattista Vico – a riproporre al pubblico colto della penisola la tesi, dal chiaro significato politico, di un antico primato culturale nazionale.
Nel 1804 Cuoco avrebbe pubblicato i primi due tomi del Platone in Italia, un’opera che segnava il suo passaggio dalla trattatistica alla narrativa. Le ragioni di questa scelta riflettevano il quadro politico profondamente mutato: a far data dal 1802, Milano non era più la capitale della Repubblica cisalpina fondata da Bonaparte nel 1797 e quindi restaurata, dopo il disastro del 1799, nel 1800. Essa era divenuta, invece, la capitale di una Repubblica italiana che aveva come presidente lo stesso primo console francese e – nel nome almeno – dimostrava la propria intenzione di costituire un punto di raccordo perché, nel tempo, tutta la penisola vi potesse confluire.
Questo clima politico aveva indotto Cuoco a riflettere sul significato di una possibile nuova nazione italiana e sulle modalità mediante le quali essa avrebbe potuto rifondere le molteplici genti che abitavano la penisola. Era un tema che gli si presentava improvvisamente alla mente, perché ancora nel 1801, al momento di licenziare il Saggio storico, pur parlando all’Italia tutta, non aveva mancato di fare spesso riferimento a una nazione napoletana, ripetutamente evocata nella propria peculiarità.
Le vicende politiche che avevano condotto al ritorno in forze dei francesi nella penisola lo avevano però convinto che, senza puntare tutto al tavolo dell’esistenza di una nazionalità compiutamente italiana, che fosse capace di fondere politicamente i tanti popoli della penisola, non si configurava alcuna possibilità di sfuggire all’abbraccio soffocante della Francia. Aveva preso avvio da una siffatta preoccupazione la stesura del romanzo, che si dipana lungo i sentieri dell’erudizione e narra d’un viaggio di Platone, accompagnato dal giovane Cleobolo, per l’Italia meridionale, dove i due hanno modo di entrare in contatto con i vari popoli della penisola, ammirandone il grado di civiltà e studiandone gli ordinamenti. Grande è l’entusiasmo di entrambi per la civiltà italica, ritenuta di molto superiore a quella greca; e forte l’interesse verso la scuola pitagorica, fondatrice della morale e della politica attorno alle quali fiorì la civiltà d’Italia; ma turbato appare loro il quadro istituzionale di quelle terre, perché la mancanza di saldi sistemi di governo lascia intravedere un’imminente perdita della libertà a fronte della assai meglio ordinata potenza romana.
I primi due tomi del romanzo costituiscono pertanto un viaggio a ritroso nella storia d’Italia, alla ricerca di un passato di prestigio attorno al quale imbastire una prospettiva (o almeno un auspicio) per il futuro. In questa risalita nel tempo, sulle tracce di un’antica sapienza italica, fanno tuttavia riflesso due ordini di preoccupazioni: da un lato, vi è lo scrupolo di sottolineare ossessivamente la tradizione culturale della penisola, che viene proposta, grazie al mito pitagorico, quale culla della civiltà d’Europa, perché maestra (e non allieva) del mondo greco; e, dall’altro, si affaccia una sofferta riflessione circa lo iato esistente nelle città italiche tra lo sviluppo culturale e l’articolazione della vita politica, alla cui insufficienza si imputa il rischio della perdita dell’indipendenza a fronte dell’espansionismo romano. Facile, al riguardo, individuare l’allusione ai tempi presenti, perché il convinto e ostinato elogio della sapienza italica costituisce il fondamento erudito alla pretesa, tutta politica, di fissare in un lontanissimo trascorso la specificità culturale della giovane nazione italiana, mentre l’ascesa della potenza romana grazie ai propri ordinamenti si vuole allegoria dei migliori strumenti di governo in possesso dei francesi.
Anche per questo motivo il terzo e ultimo tomo del Platone in Italia, comparso nel 1806, con gran ritardo, dunque, rispetto ai primi due, si presenta discorde rispetto ai precedenti: se in quelli ritorna sempre il tema del primato culturale della penisola, in questo affiora invece il problema dell’unità etnica dei suoi abitanti e in un quadro siffatto si ricorda pure l’antico impero etrusco, un popolo che aveva abitato e uniformato la penisola dai tempi antichissimi e che, spostandosi per il Mediterraneo, avrebbe colonizzato anche la Grecia. La retrodatazione dell’unità d’Italia alla lontanissima (anche se immaginaria) stagione etrusca consentiva a Cuoco di dare soluzione al problema storico della nazionalità italiana, vantandone – contro quanto testimoniava la storia – una inveterata uniformità etnica. Era una proposta tanto intrigante quanto infondata, che riusciva non di meno a ricomporre l’altrimenti incontrovertibile frattura antropologica segnata dall’arrivo dei coloni greci nella bassa Italia: dimostrando che quelle genti erano discendenti dell’antico popolo etrusco, Cuoco poteva infatti concludere che, giungendo sulle coste italiane, esse si erano solo ricongiunte ai loro fratelli di antica data rafforzando, anziché smentendo, l’unità etnica della penisola tutta. Queste tesi venivano sviluppate facendo conto sulla tradizione antiquaria del 18° sec. che Cuoco smontava pezzo a pezzo per poi ricomporre in un quadro prestabilito, dove nulla era fondato, ma ogni cosa sembrava comunque plausibile.
Quella conclusione era infatti il brillante risultato di un metodo di lavoro dall’affascinante genericità, che rendeva possibile accogliere temi, argomenti e stilemi provenienti dai più svariati indirizzi di studio (e dalle finalità politiche contrapposte) per trasformarli in altrettante prove provate di una tesi largamente precostituita: il risultato sarebbe stato, con gli occhi del lettore di oggi, un temerario e confuso balzo all’indietro nel tempo, dove tutto si tiene sotto il segno del primato italico, tutto si giustifica sull’inappellabilità delle giovanili tesi di Vico circa il primato dell’antica sapienza italica, ma nulla corrisponde a un dato storico provato. La cosa, tuttavia, poco turbava Cuoco, convinto che la riscoperta di un oscuro passato, fatto di meraviglie e di trionfi a fronte di un difficile presente, restituendo all’Italia un prestigio da altri ingiustamente offuscato, fosse un richiamo troppo lusinghiero perché la verità storica potesse far da ostacolo alla sua diffusione. Insomma, l’artificiosità della ricostruzione era compensata dall’impatto su un pubblico che da quelle proposta si sarebbe dovuto sovvenire dell’antica grandezza per costruire un futuro migliore.
Alla notizia del ritorno dei francesi a Napoli, Cuoco ritenne di porre ancora mano al Saggio storico, approntando una nuova edizione dove non mancano gli aggiustamenti in ossequio al mutato clima politico e istituzionale. Nella nuova versione, gli entusiasmi repubblicani sono così sopiti a tutto vantaggio del riconoscimento delle monarchie – purché temperate – e l’accentramento di governo, di cui aveva dato gran prova Bonaparte, diviene uno strumento importante per assicurare la modernizzazione della penisola. E tuttavia, nella nuova versione dell’opera, il riconoscimento del valore positivo dell’esperienza napoleonica non sembra andare a detrimento di una libera vita municipale, perché l’accentramento di governo e la libertà locale vengono proposti quale basamento per un ordine costituzionale che consentisse al cittadino di pienamente fruire dei propri diritti.
L’adesione all’ordine napoleonico – che nella dimensione imperiale arrivava, appunto, nel 1806 a controllare l’intera penisola e a prefigurare quindi un comune destino amministrativo per l’Italia tutta – non deve così indurre alla facile conclusione che Cuoco rivedesse, in ossequio alle esigenze del momento, la propria fiducia nella costruzione di un modello politico nazionale. Piuttosto, egli continuava a pensare che si dovesse fare tesoro degli strumenti di governo di Francia, rivelatisi di grandissimo impatto per accompagnare il riordino della società uscita dalla rivoluzione, rendendoli però compatibili con il quadro sociale della penisola. Era quanto, restituitosi a Napoli, mai avrebbe scordato: nella capitale meridionale, dove le élites di potere si erano sottratte alla richiesta di collaborazione avanzata loro dal nuovo re Giuseppe Bonaparte, egli sarebbe divenuto un prestigioso funzionario, perché in qualità di consigliere del Sacro real collegio sarebbe divenuto componente delle commissioni per la stesura del codice civile, per l’eversione della feudalità, per la riforma dei tribunali e dell’istruzione, sino ad acquisire il titolo di consigliere di Stato e infine di direttore generale del Tesoro.
Nell’arco di questa brillante carriera di governo egli tentò puntualmente di coniugare il complesso delle nuove leggi con le concrete aspettative delle collettività, rifiutando una indistinta razionalità della norma che gli pareva diretta conseguenza del verticismo di tanto Settecento riformatore. Su questo punto, nel corso della propria azione di governo degli anni successivi, Cuoco mai avrebbe deflettuto: intrecciando il metodo di Vico sulla mutevolezza delle leggi e delle istituzioni con la lezione di Niccolò Machiavelli circa la necessità di un costante raffronto tra le norme e i costumi di una determinata collettività, egli avrebbe individuato nella giurisprudenza il solo strumento di grande flessibilità per accompagnare e sostenere, anziché dettare o solo orientare, ogni processo di evoluzione civile.
In questo quadro la legge perdeva infatti ogni tratto di imposizione esterna per ricondursi a un sistema valoriale fondato sulla capacità di leggere e di interpretare il sentimento collettivo e a questa prospettiva egli informò la propria attività nella commissione incaricata di riformare il codice civile e nella riorganizzazione dei tribunali. Ma questo orizzonte domina anche la sua azione in seno alla commissione chiamata a dare esecuzione all’eversione della feudalità, dove, piegando la tradizione intellettuale del tardo Settecento napoletano alla riflessione economica dei precedenti anni milanesi, poneva l’accento sul lavoro della terra soltanto quale premessa per costruire una diffusa proprietà. Né diversamente si mosse quando venne chiamato a mettere a punto un progetto di pubblica istruzione: ancora una volta insistendo sulle realtà locali quale cellula del nuovo ordine, egli arrivava a ipotizzare l’uniformità e la pubblicità dell’insegnamento e stabiliva che i corsi primari fossero non solo gratuiti, ma resi disponibili in ogni comune.
Tutte le scelte di governo di Cuoco a Napoli, che andarono non a caso incontro a fortissime resistenze, furono dunque il prodotto di un progetto politico in stretta linea di continuità con quello dei precedenti anni milanesi. Se ne vuole prova l’attività giornalistica proseguita nella capitale del Regno meridionale mediante la direzione del «Corriere di Napoli» prima e del «Monitore delle Due Sicilie» poi. Dagli interventi a stampa emerge infatti la coscienza di continuare a svolgere una funzione culturale sempre e comunque nazionale, che nel Mezzogiorno assumeva i tratti di una rilettura della stagione intellettuale del 18° sec. per provare a declinarla sulle coordinate del nuovo tempo politico.
Non stupisce allora che quando l’astro napoleonico prese a declinare, Cuoco fosse tra quanti, in seno all’esecutivo, più premette perché Gioacchino rompesse gli indugi e si facesse sovrano propriamente indipendente e nazionale. Nel 1814, quando Murat risalì una prima volta la penisola alla ricerca di uno spazio di manovra, Cuoco fu tra quelli che lo accompagnarono con funzioni di riorganizzazione amministrativa dei territori momentaneamente occupati. E nel 1815, quando Gioacchino aprì le ostilità all’Austria in nome dell’indipendenza d’Italia, Cuoco tornò a impugnare la penna scrivendo alcuni articoli sul «Monitore» che fanno chiarezza circa il suo progetto politico: in quelle pagine, dove sino all’ultimo Cuoco invita allo sforzo collettivo in nome d’Italia, a dominare la scena è l’endiadi tra unità e costituzione, che trova compiutezza, d’un lato, nella nascita di un solo Stato nazionale nella penisola (cui indirizzava la comune esperienza amministrativa conosciuta dall’Italia negli anni napoleonici) e, dall’altro, nell’esercizio di uno statuto che fosse la cornice politica dove coniugare gli sviluppi della libertà e l’ampliamento del consenso sociale.
Su questi temi Cuoco avrebbe insistito sino all’ultimo: solo quando le truppe austriache entrarono a Napoli egli fu costretto a tacere; e fu allora il tempo di preferire la follia alla presa d’atto che il sogno di un’esistenza intera era definitivamente infranto.
Gli scritti di Cuoco sono oggi disponibili nell’edizione Opere di Vincenzo Cuoco. Scritti editi e inediti, a cura di L. Biscardi, A. De Francesco, di cui sono stati pubblicati i seguenti volumi:
Platone in Italia, a cura di A. De Francesco, A. Andreoni, Roma-Bari 2006.
Epistolario, a cura di D. Conte, M. Martirano, Roma-Bari 2007.
Scritti di statistica e di pubblica amministrazione, a cura di A. De Francesco, L. Biscardi, Roma-Bari 2009.
Scritti politico-giuridici, a cura di N. Di Maso, Roma-Bari 2009.
Pagine giornalistiche, a cura di F. Tessitore, Roma-Bari 2011.
Scritti sulla pubblica istruzione, a cura di L. Biscardi, R. Folino Gallo, Roma-Bari 2012.
Il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli comporrà il settimo e ultimo tomo; nel frattempo, tra le molte edizioni disponibili, è possibile leggerlo nella prima ed. del 1801 in copia anastatica a cura di F. Tessitore, Napoli 1988; sempre nella prima edizione, ma con le varianti della seconda del 1806 in nota, nell’ed. a cura di A. De Francesco, Roma-Manduria 1998. La seconda edizione è invece riproposta a cura di P. Villani, Milano 1999.
Si vedano inoltre:
Scritti giornalistici, a cura di D. Conte, M. Martirano, 2 voll., Napoli 1999.
F. Tessitore, Lo storicismo giuridico-politico di Vincenzo Cuoco, Torino 1962.
W. Cariddi, Il pensiero politico e pedagogico di Vincenzo Cuoco, Lecce 1981.
M. Themelly, Cuoco Vincenzo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 31° vol., Roma 1985, ad vocem.
A. De Francesco, Vincenzo Cuoco. Una vita politica, Roma-Bari 1997.
Vincenzo Cuoco nella cultura di due secoli, Atti del Convegno internazionale, Campobasso (20-22 gennaio 2000), a cura di L. Biscardi, A. De Francesco, Roma-Bari 2002.
F. Tessitore, Filosofia, storia e politica in Vincenzo Cuoco, Lungro di Cosenza 2002.
N. Di Maso, Il repubblicanesimo di Vincenzo Cuoco: a partire da Machiavelli, Firenze 2005.
Vincenzo Cuoco. Des origines politiques du XIXe siècle, sous la direction de M. Bouyssy, Paris 2009.
M. Martirano, A Milano e a Napoli. Biografia, cultura storica, filosofia in Vincenzo Cuoco, Milano 2011.