ROSSI (de' Rossi), Vincenzo di Raffaello di Bartolomeo
ROSSI (de’ Rossi), Vincenzo di Raffaello di Bartolomeo. – Nacque a Fiesole nel 1525 (Schallert, 1998, p. 14).
Fu allievo di Baccio Bandinelli (Le opere di Giorgio Vasari, 1568, 1881, VII, p. 626), che ebbe per lui una vera predilezione (Colasanti, 1905, p. 429). Con il maestro a Firenze sin dal 1534 (Utz, 1966, p. 33), si perfezionò con lui a Roma, al tempo delle tombe dei papi Medici (Roma, S. Maria sopra Minerva, 1536-41; Borghini, 1584, p. 595); qui un suo intervento è stato visto nel S. Giovanni Evangelista del sepolcro di Clemente VII (Schallert, 1998, pp. 15, 32 s.). A Roma, forse tra il maggio 1540 e l’aprile 1541, realizzò autonomamente i rilievi del S. Pietro liberato dal carcere e del Dio Padre (S. Salvatore in Lauro; Borghini, 1584, p. 595), parti dell’altare marmoreo, perduto in un incendio del 1591, per il mercante spagnolo Pietro Mates (Schallert, 1998, pp. 37-54, ma una datazione più tarda è in Riccoboni, 1942, e Marini, 2001, p. 104). Più problematici appaiono la Madonna con il Bambino e il lavabo con la Samaritana al pozzo, nello stesso complesso (Schallert, 1998, pp. 53, 71-79), privi di documentazione e dallo stile assai diverso.
Su progetto di Bandinelli, e su ordine di Cosimo de’ Medici, nel 1541 Rossi – che dal 27 giugno era stipendiato dall’Opera di S. Maria del Fiore (Waldman, 2004, pp. 218, 226, 246) – scolpì il Termine maschile per la porta principale di Palazzo Vecchio a Firenze, a pendant di quello femminile dello stesso Baccio (Borghini, 1584, p. 595; Schallert, 1998, pp. 54-69). Tornato a Roma forse nel 1542-43 (ibid., p. 15), nel 1545 ottenne dalla Congregazione dei Virtuosi al Pantheon, per interessamento dei confratelli Antonio da Sangallo il Giovane e Raffaello da Montelupo, la commissione del S. Giuseppe con il Gesù Bambino per l’altare della confraternita (Roma, Pantheon; ibid., pp. 79-106). Questa, che aveva appunto s. Giuseppe per patrono, riuniva molti artisti, tra cui, dal 1547 al settembre 1549, lo stesso Rossi (pp. 84 s.). Il 9 agosto 1545 Vincenzo mostrava il modello in creta e il 13 novembre 1547 il gruppo marmoreo era collocato (pp. 83 s., 233-236). Giorgio Vasari ne apprezzò la «buona pratica e bella maniera» (Le opere di Giorgio Vasari, 1568, 1881, VII, p. 626), mentre Raffaello Borghini ne sottolineò la misura colossale (1584, p. 596). L’artista mise in opera anche l’altare, per il quale Raffaello da Montelupo e Antonio Labacco avevano fornito un modello (Schallert, 1998, pp. 83, 235) e al quale si è voluto riferire un disegno del Metropolitan Museum di New York (Speelberg - Rinaldi, 2015). A procurare a Rossi i contatti con Antonio da Sangallo dovette essere suo fratello Nardo, scalpellino nella bottega dell’architetto e membro del clan Sangallo per via matrimoniale (Utz, 1971, p. 363), all’opera sin dal 1541 in palazzo Farnese (Schallert, 1998, p. 16). Il legame con Nardo – che nel 1541 aveva stilato l’inventario delle cose che Bandinelli, di ritorno a Firenze, gli aveva lasciato in casa a Roma (Waldman, 2004, pp. 214-217) – doveva essere assai stretto, se il 9 gennaio 1546 Vincenzo risultava vivere con lui a Roma (Pini - Milanesi, [1876]). Secondo Borghini (1584, p. 595) precedettero il lavoro del Pantheon una grande Leda con il cigno in marmo per Pierluigi Farnese e un Bacco con satiro, prelevato da Pio IV dal giardino di villa Giulia per donarlo a Cosimo de’ Medici. Entrambe le opere sono oggi disperse, anche se il Bacco è noto grazie ad alcune piccole repliche in bronzo (Saladino, 2003, pp. 93-95). Di quegli anni sono anche una «Vergine annuntiata con bellissime prospettive» (Borghini, 1584, p. 596), riconosciuta, in modo non del tutto convincente, nell’altorilievo di S. Maria del Poggio a Viterbo (Schallert, 1998, pp. 106-119), e un «Saturno maggiore del vivo, che di quattro figliuoli ne mangia uno», non identificato (Borghini, 1584, p. 596).
Nel decennio successivo Vincenzo fu ben radicato a Roma, condividendovi con Nardo lavoro e casa, in via del Monterone (Schallert, 1998, p. 18). Il 27 maggio 1553 acquistò con lui una ‘vigna’ al Celio, da Ludovico di Tommaso Strozzi (Lanciani, 1907, p. 68). Verosimilmente nello stesso anno eseguì, su commissione di Ludovico, la tomba del fratello di questi, Uberto Strozzi, morto il 28 febbraio 1553 (Roma, S. Maria sopra Minerva; Schallert, 1998, pp. 119-131, 257 s.). Il magnifico busto, riferito a Rossi da August Grisebach (1936), unico esemplare identificato di una prolifica attività di ritrattista ricordata dalle fonti (Borghini, 1584, p. 597), tutta da riconfigurare (Schallert, 1998, pp. 131-135), rivela la competenza antiquaria di Vincenzo, della quale danno conto il suo allievo Flaminio Vacca (1594, 1820, IV, pp. 12, 28, 30), la copia del Laocoonte da lui eseguita per Giovanni da Sommaia (Borghini, 1584, p. 598; Heikamp, 1990), e una collezione di epigrafi conservate nella sua casa romana (Schallert, 1998, p. 17, nota 66).
Secondo Vasari risalirebbe al 1553-54 la collaborazione di Vincenzo al monumentale coro della cattedrale fiorentina, dove Bandinelli, «volendo nell’altare tutto quello che mancava di marmo farlo di terra, si fece aiutare da Vincenzio a finire i due Angeli che tengono i candellieri in su’ canti» (Le opere di Giorgio Vasari, 1568, 1881, VI, p. 184).
La notizia, assai controversa, collegata da Vasari all’esecuzione della prima versione bandinelliana del Dio Padre del coro (Firenze, giardino di Boboli), ha consentito a Ulrich Middeldorf di riferire a Rossi, e poi genericamente alla bottega di Baccio, tre rilievi in terracotta con tracce di bronzatura, già attribuiti a Donatello, raffiguranti Cristo davanti a Pilato, la Flagellazione e l’Andata al Calvario (Firenze, Museo nazionale del Bargello), riconoscendone la provenienza dalla predella dell’altare maggiore (Middeldorf, 1929; 1932, p. 483; Venturi, 1936, p. 296; Heikamp, 1964, p. 33; Schallert, 1998, pp. 136-145; una diversa interpretazione è in Cinelli - Vossilla, 1998, p. 77). Perduti sarebbero i due Angeli cerofori.
Nel dicembre del 1555 Vincenzo e Nardo lavorarono al nuovo portale di Castel Sant’Angelo a Roma per Paolo IV Carafa: a loro andò l’ordine di un S. Paolo, mai compiuto (Schallert, 2006, p. 241). A causare questo mancato esito fu forse la commissione a Rossi da parte del Senato romano, tra il 1555 e il 1556, del monumento a Paolo IV, per la sala dell’Udienza dei conservatori in Campidoglio (Butzek, 1978, pp. 253-280; Schallert, 2006). L’opera, inizialmente assegnata a Guglielmo della Porta, fu lavorata tra l’aprile 1556 e il maggio 1558 (Frediani, 1834; Utz, 1971, p. 362; Schallert, 2006). Venne allestita nel luglio 1559, ma a distanza di solo un mese, il 18 agosto, morendo il papa, il complesso venne distrutto dalla folla inferocita: la statua del pontefice fu decapitata e la testa gettata nel Tevere (Butzek, 1978, pp. 267, 278, 467 s.). Il 29 agosto ai fratelli Rossi venne ordinato di prelevare quanto restava del monumento; il 9 ottobre 1563 le sue parti furono richieste dai frati di S. Maria in Aracoeli per ornare l’altare maggiore della chiesa (Lanciani, 1907, p. 208), dove ancora oggi sono visibili, insieme a elementi architettonici, due Angeli reggighirlanda (Butzek, 1978, pp. 279, 474; Schallert, 2006, pp. 245-247). Entro il 17 maggio 1565 si prelevò infine anche la scultura acefala del pontefice che, nel 1645, sarebbe stata trasformata, con le integrazioni di testa e braccia, in un Innocenzo X. Nuovamente modificata nel 1708 con il reinnesto di un nuovo ritratto di Paolo IV, essa sarebbe stata infine distrutta dai francesi nel 1798; quest’ultimo allestimento è documentato da un’incisione di Francesco Aquila (Schallert, 2006, p. 236).
L’originale monumento papale è ricordato da Vasari (Le opere di Giorgio Vasari, 1568, 1881, VII, pp. 626 s.) e Borghini (1584, p. 596); il secondo, in particolare, ne precisa la struttura, elencando, oltre alla colossale figura del pontefice seduto, quattro statue «di cui ve ne erano due di sua mano». Ancora a Borghini spetta l’aver riferito a Battista Lorenzi l’autografia di uno dei fanciulli all’interno dell’impresa (pp. 598 s.). Così pare oggi verosimile restituire a Nardo, forse con la collaborazione di Vincenzo, il Putto di sinistra dell’altare maggiore dell’Aracoeli, e quello di destra a Battista Lorenzi (Schwager, 1973, p. 55; Schallert, 2006, pp. 241-252). A Vincenzo vanno invece ricondotti la testa, assai danneggiata, di Paolo IV, conservata a Castel Sant’Angelo, e due magnifici Nudi di fanciulli (Roma, S. Luigi dei Francesi, palazzo S. Luigi), che dopo lo smantellamento del monumento a Paolo IV avevano trovato ricovero nella bottega di famiglia. Nardo li impiegò quali arredi di Porta Pia, ai lati dello stemma di Pio IV, come documentato da un’incisione del 1568 di Bartolomeo Faleti (Schwager, 1973, pp. 55-59). I due marmi furono poi venduti il 22 gennaio 1583 dal figlio di Nardo, Raffaello, a Giovanni Cavart, depositario della fabbrica di S. Luigi (Schallert, 2006, p. 283).
Tra le opere giovanili, Venturi (1936, p. 285) elogia le sculture della cappella Cesi in S. Maria della Pace. Queste valsero a Rossi «gran nome» nell’opinione di Vasari e Borghini, che ne anteposero la descrizione a quella del monumento a Paolo IV (Le opere di Giorgio Vasari, 1568, 1881, VII, p. 626; Borghini, 1584, p. 596). Vincenzo vi avrebbe lavorato dal 1554 al 1555-56, e poi ancora tra il 1558 e il 1560 (Schallert, 1998, pp. 173 s.), intrecciando quest’incarico con quello pontificio. Nel maggio 1558 egli rammentava, in una missiva a Bandinelli, di essere proprio in quei giorni in relazione con il «reverendissimo Cessis» (Utz, 1971, p. 362), nel quale va identificato il cardinale Federico. Lo scultore era dunque subentrato a Sangallo il Giovane, che nel corso degli anni Venti aveva progettato la cappella, e a Simone Mosca, che vi aveva eseguito le decorazioni marmoree (Schallert, 1998, pp. 160-166). A Rossi spetterebbero le figure demi-gisantes di Angelo Cesi e di Franceschina Carduli, con i sarcofagi poggianti su grandi sfingi, e le rispettive lunette con il Dio Padre benedicente e la Vergine con il Bambino; suo è anche il fronte esterno della cappella, forse imputabile alla seconda tranche d’interventi, con i Ss. Pietro e Paolo, nelle nicchie inferiori, e il coronamento con Angeli e profeti (pp. 155 ss.).
La composizione convenzionale, rigida e impacciata di Angelo e Franceschina, tratti da maschere mortuarie, e forse lavorati da collaboratori del maestro, si scioglie in dinamici effetti chiaroscurali nelle figure del prospetto (Venturi, 1936, p. 285).
A partire dal 1558 cominciò la campagna di riavvicinamento dello scultore a Firenze. Bandinelli lo coinvolse nel progetto, poi disatteso, del ponte di Castelfiorentino (Utz, 1971, p. 361). Ma a trattenerlo a Roma furono i lavori al monumento a Paolo IV, e un contenzioso ereditario con i fratelli (pp. 361-366), che si sarebbe concluso solo dopo la morte di Nardo e con l’intervento di Cosimo e Ferdinando de’ Medici nel 1572 (Gaye, 1840, pp. 339 s.). L’ultima opera romana fu il gruppo di Teseo ed Elena (Firenze, giardino di Boboli, grotta Grande), eseguito tra il 7 maggio 1558 (Utz, 1971, p. 362) e il 24 febbraio 1560 (Gaye, 1840, p. 24) e donato dallo scultore a Cosimo de’ Medici. Dopo il trasferimento della scultura a Firenze il duca la pagò all’artista, e la fece porre al pianterreno di Pitti, dove la ricordò nel 1577 Ulisse Aldrovandi (Barocchi - Gaeta Bertelà, 2002, p. 260). Di qui fu trasferita nel 1586 (p. 278) nel primo ambiente della grotta Grande di Boboli «sopra un gran pilo antico» (Bocchi, 1591, p. 70).
Controversa è la sua iconografia, sebbene lo stesso scultore, e con lui Vasari e Borghini, l’abbiano definita senz’esitazione Teseo ed Elena (Gaye, 1840, p. 24; Le opere di Giorgio Vasari, 1568, 1881, VII, p. 627; Borghini, 1584, p. 596). Per Aldrovandi e Francesco Bocchi sarebbe invece un Paride ed Elena (Barocchi - Gaeta Bertelà, 2002, p. 278; Bocchi, 1591, p. 70), mentre in date più recenti la si è interpretata come Enea e Didone (Galleni, 1991). In un ideale confronto con l’antico, il gruppo, che comprende anche una scrofa, fu virtuosisticamente ricavato da un solo blocco di marmo e garantì a Vincenzo il rientro a Firenze (Heikamp, 2003, pp. 457-465).
Il sostegno di Bandinelli, che vedeva in lui l’aiuto per terminare il coro della cattedrale e il Nettuno di piazza della Signoria (Waldman, 2004, p. 755), e l’ausilio di amici fidati quali Giuliano Cesarini e Girolamo Morelli (Utz, 1971, pp. 365 s.) gli procurarono la disponibilità del duca Cosimo (Waldman, 2004, p. 760). Il 24 febbraio 1560 Rossi aveva scritto al sovrano, candidandosi per le due imprese del suo maestro appena scomparso (Gaye, 1840, p. 24). Assegnato il Nettuno a Bartolomeo Ammannati, non è dato sapere se Vincenzo abbia messo mano ai bronzi della fontana: il suo coinvolgimento è suggerito da una lettera di Vincenzio Borghini a Cosimo I (5 aprile 1565), nella quale egli figura come autore di «statue fatte, così di marmo come di bronzo» da porre alla fontana, ancora in lavorazione, durante le celebrazioni delle nozze del duca Francesco (Bottari - Ticozzi, 1822). Così all’artista sono stati riferiti quattro diversi Satiri (Mandel, 1995), anche se Heikamp (2011, pp. 238 s.) attribuisce l’intero apparato ad Ammannati.
È possibile che anche i rilievi con i Profeti e i Santi per il coro della cattedrale non gli siano stati affidati, giacché l’8 marzo 1563 egli chiese la «cura» proprio di quei lavori (Waldman, 2004, p. 785). Privi di pagamenti nominali, gli ottantotto rilievi del coro sono oggi per lo più riferiti a Bandinelli, a Giovanni Bandini e a suoi aiuti (Petrucci, 2014, p. 597), ma non sono mancati tentativi di identificazione di un contributo di Rossi (Utz, 1971, pp. 365 s.; Vossilla, 1996, pp. 62-65).
Le opere promosse da Cosimo per le nozze del figlio Francesco nel 1565 valsero allo scultore la partecipazione agli apparati effimeri (Gaye, 1840, pp. 179 s., 185 s.; Waldman, 2004, p. 813) e il completamento delle sculture bandinelliane dell’Udienza del salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio; qui Rossi sarebbe intervenuto sul Leone X e sulla testa del Cosimo I (Allegri - Cecchi, 1980, pp. 32, 270). Ma l’incarico ducale più prestigioso giunse nei primi anni Sessanta con le dodici Fatiche d’Ercole, destinate a ornare una monumentale fontana a candelabra, commissionata da Cosimo I e mai realizzata (Heikamp, 1964, p. 40; Utz, 1971, pp. 347-361).
Un disegno del Musée du Louvre (Heikamp, 1964, pp. 38, 42), preparatorio per un rilievo bronzeo da porre a corredo del complesso, ne indica l’iconografo in Vincenzio Borghini. Lo studio d’insieme del progetto (New York, Cooper-Hewitt Museum; Heikamp, 1964, pp. 40-42) mostra, su una vasca ottagonale ornata di rilievi, gli Ercoli svettanti al centro di ciascun lato, mentre sui tre mensoloni del registro superiore sono allestiti altrettanti gruppi dedicati all’eroe, dietro al quale si cela lo stesso duca. Elemento apicale è l’Ercole che regge il mondo, identificabile con la scultura collocata poco dopo il 1620 da Giulio Parigi all’ingresso della villa di Poggio Imperiale a Firenze, dove tuttora si trova (Baldinucci - Ranalli, 1846, III, p. 497).
Lo scultore, che poté trarre spunti da modelli di Bandinelli conservati presso l’Opera del duomo (Waldman, 2004, pp. 787-789), chiese l’apporto di collaboratori a partire dal 2 ottobre 1562 fino al 28 giugno 1572 (pp. 779, 806, 828). L’11 marzo 1563 Rossi riferì che nella stanza concessagli dall’Opera vi erano quattro sue sculture (Gaye, 1840, pp. 107 s.), nelle quali si sono voluti riconoscere alcuni pezzi della serie (Heikamp, 1964, p. 42). Il 2 marzo 1566 l’Ercole e Caco appariva terminato, mentre l’Ercole e il centauro era da ultimare (Cinelli - Vossilla, 1999, p. 86), il che si sarebbe verificato entro il 1568 (Le opere di Giorgio Vasari, 1568, 1881, VII, p. 627). Pagamenti all’artista furono registrati anche nel 1569 (Utz, 1971, p. 347). Ben informato dei fatti appare Borghini (1584, p. 598), che rammenta come autografe altre cinque sculture, oltre le due ricordate: Ercole e Anteo, Ercole con la sfera di Atlante, Ercole e la regina delle Amazzoni, Ercole e il cinghiale di Erimanto ed Ercole contro Diomede, precisandone la collocazione all’Opera del duomo. È lì che le conferma una lettera del 18 marzo 1587 con la quale la figlia sedicenne dell’artista, Laura, supplicava il granduca che si pagassero le opere cui il padre aveva atteso sino alla morte (Cinelli - Vossilla, 1999, pp. 89 s.). Questa commissione di Cosimo I fu sostenuta anche dai figli Francesco e Ferdinando: nel 1599 i rimanenti cinque marmi sbozzati da Vincenzo, ricordati da Borghini e Baldinucci e rimasti in parte a Livorno e in parte a Signa (ibid., p. 91; Baldinucci - Ranalli, 1846, III, p. 497), furono assegnati a Giambologna e alla sua bottega per essere terminati; ancora il 16 febbraio 1600 uno di essi risultava in lavorazione (Heikamp, 1964, p. 42). Nel 1592 almeno sei delle Fatiche realizzate da Vincenzo furono allestite nel salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio per i festeggiamenti del battesimo di Cosimo II (Bocchi - Cinelli, 1677, p. 89; Heikamp, 1990, p. 345).
Dopo un Mercurio in marmo più grande del vero, inviato a Palermo e oggi non identificato, intorno al 1565 Rossi scolpì il Bacco con satiro (Firenze, giardino di Boboli) e l’Adone morente (Firenze, Museo nazionale del Bargello; un modello in terracotta è al Bode-Museum di Berlino; Venturi, 1936, p. 304), acquistati da Isabella de’ Medici per la sua villa fiorentina di Baroncelli, oggi Poggio Imperiale (Borghini, 1584, p. 597; Utz, 1966). L’Adone, già a lungo ritenuto di Michelangelo, è stato reso a Rossi da Grünwald (1910, p. 18), mentre il Bacco, un tempo assegnato a Pierino da Vinci, gli è stato restituito dalla Utz (1966, pp. 29, 32; Saladino, 2003, pp. 95 s.).
Facendo seguito al favore di Cosimo I per lo scultore (Gaye, 1840, p. 339), anche il duca Francesco se ne servì, nel 1572, per il proprio studiolo in Palazzo Vecchio, commissionandogli il Vulcano bronzeo (Borghini, 1584, p. 597; Keutner, 1958, p. 428; Allegri - Cecchi, 1980, pp. 338 s., 346). Sempre sotto l’egida medicea, e con l’avallo dell’Accademia fiorentina del disegno, Rossi realizzò, tra il 1580 e il 1581, S. Matteo e S. Tommaso per le nicchie del coro di S. Maria del Fiore (Cinelli - Vossilla, in Cinelli - Myssok - Vossilla, 2002, pp. 33 s.). Un documento del 1587 attesta come egli fosse stato incaricato di eseguire un terzo apostolo, mai cominciato, poi passato a Taddeo di Lando Manini, ipoteticamente identificato in Taddeo Landini (pp. 35, 43, 115).
La serie scultorea, inaugurata nel 1506 da Michelangelo e ripresa nel 1563 da Cosimo I dopo una lunga interruzione, aveva visto i creati di Bandinelli impegnati nelle ultime statue degli Apostoli (p. 15).
Del 1585, infine, sono i restauri di due magnifici busti loricati di Cesare e Pertinace (Firenze, Galleria degli Uffizi; Saladino, 1997), che segnalano Rossi come un valente interprete dell’antico.
Il suo catalogo, ricco di numerose proposte attributive (Venturi, 1936, p. 318; Schallert, 1998, pp. 262-264, 269-277), comprende anche vari disegni (Speelberg - Rinaldi, 2015), mentre ancora da riconfigurare è la sua attività di architetto ricordata dalle fonti (Borghini, 1584, p. 598).
Dopo aver redatto un secondo testamento il 25 febbraio 1587 – il primo era stato rogato il 18 dicembre 1575 (Waldman, 2004, pp. 836-838, 851-853) –, con il quale nominava erede il figlio Cosimo, frate cappuccino, e in alternativa la figlia Laura, entrambi avuti dalla prima moglie Caterina Morelli, Rossi morì a Firenze il 3 marzo 1587 (Le opere di Giorgio Vasari, 1568, 1881, VII, p. 627).
Fu sepolto presso l’altare maggiore della Ss. Annunziata, dove aveva una propria lastra tombale dotata di stemma (Utz, 1966, pp. 34, 36). Si formarono con lui Ilarione Ruspoli e Raffaello Peri (Le opere di Giorgio Vasari, 1568, 1881, VII, p. 627; Boström, 1998, p. 264).
Fonti e Bibl.: Le opere di Giorgio Vasari (1568), a cura di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, pp. 164, 184, VII, 1881, pp. 626 s., VIII, 1882, p. 393; R. Borghini, Il Riposo, Firenze 1584, pp. 162, 595-599; F. Bocchi, Le bellezze della città di Fiorenza, Firenze 1591, pp. 70 s.; F. Vacca, Memorie di varie antichità trovate in diversi luoghi della Città di Roma (1594), in F. Nardini - F. Nibby, Roma antica, IV, Roma 1820, pp. 1-47; F. Bocchi - G. Cinelli, Le bellezze della città di Firenze..., Firenze 1677, pp. 87, 89 s.; G. Bottari - S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura scritte dai più celebri personaggi dei secoli XV, XVI, XVII, I, Milano 1822, pp. 182 s.; C. Frediani, Intorno ad Alfonso Cittadella esimio scultore lucchese fin qui sconosciuto del secolo XVI, Lucca 1834, p. 44; G. Gaye, Carteggio inedito d’artisti dei secoli XIV, XV, XVI, III, Firenze 1840, pp. 24, 102 s., 107 s., 179 s., 185 s., 272, 339 s., 404 s.; F. Baldinucci - F. 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