GRADENIGO, Vincenzo
Secondogenito di Bartolomeo di Francesco, del ramo di S. Lorenzo, e di Pisana di Pietro Morosini dalla Sbarra, nacque a Venezia, nella dimora di famiglia di S. Severo, il 28 nov. 1540. Dal matrimonio erano nati, inoltre, Francesco (1539-93), Leonardo (1544-70), Alessandro - segnalato dal Barbaro ma non negli elenchi ufficiali, forse morto precocemente -, e almeno una femmina, Sofia, sposata a Federico Priuli. I membri del casato, che annoverava tra gli ascendenti il doge Bartolomeo, avevano alternato nelle ultime generazioni il servizio dello Stato con l'esercizio della mercatura e della rendita fondiaria. Unico dei maschi destinato al matrimonio, il G. sposò, il 3 febbr. 1569, Contarina di Polo Contarini dagli Scrigni di S. Trovaso, pronipote per parte di madre del doge Andrea Gritti.
La sposa, che portò in dote 18.000 ducati, apparteneva a una famiglia politicamente e finanziariamente cospicua, vicina alla S. Sede e tra le prime a stringere un sodalizio con i gesuiti fin dal loro arrivo a Venezia. Dall'unione nacquero quattro maschi e due femmine: Bartolomeo (1573-1636), che sposò nel 1596 Bianca Memmo e nel 1603 Maria Contarini, che lo lasciò vedovo per la seconda volta nel 1610; Pietro (1574-1613), ucciso con un punteruolo, non si sa se per incidente o per omicidio; Francesco (1577-1644); Polo (1579); Pellegrina, sposata nel 1587 a Daniele di Antonio Giustinian, e un'altra figlia, monacata con il nome di suor Ancella. Poiché Bartolomeo aveva avuto dalla prima moglie un unico figlio, Vincenzo, morto nel 1622 a ventidue anni e senza eredi, questo ramo si estinse nella linea maschile dopo la morte di Francesco.
Entrato in Maggior Consiglio a vent'anni, grazie all'estrazione della balla d'oro, il G. fu nominato, il 21 dic. 1566, savio agli Ordini, carica riservata tradizionalmente ai giovani più promettenti, e fu rieletto anche per il primo semestre 1568. Il G. proseguì il cursus honorum con gradualità, candidandosi tra il 1576 e il 1578 a diversi incarichi consueti, di tipo amministrativo, economico e giudiziario. Fu eletto nel gennaio 1577 alla Quarantia civil vecchia, nel giugno del 1578 fu camerlengo di Comun, passando, il 5 ott. 1578, al Magistrato sopra atti. La carriera del G. compì un salto di qualità con la nomina, il 29 marzo 1579, a savio di Terraferma, riconfermatagli altre quattro volte, tra il 1579 e il 1583, e associata nel 1581 anche all'incarico di savio cassier. L'ultima nomina restò congelata perché il 4 giugno 1583 il G. fu eletto ambasciatore ordinario in Spagna. Il 30 agosto ricevette le commissioni che gli prescrivevano di richiedere la garanzia del commercio di frumenti con il Regno di Napoli, di negoziare le controversie di confine con il Milanese e di sondare la possibilità di ristabilire un regolare servizio di galere tra Venezia e Lisbona. Si mise in viaggio il 9 settembre e, passando per Milano, dove fece visita al cardinale Carlo Borromeo, raggiunse Savona, dove si imbarcò per la Spagna. Il 1° nov. 1583 era a Madrid e il giorno 20 si presentò a Filippo II.
Impegnato, nonostante frequenti episodi di malattia, a stare accanto a un sovrano peregrinante, solitario, enigmatico, accentratore e imprevedibile, il G. si adoperò per decifrare - grazie ai suoi assidui contatti con i protagonisti della vita politica spagnola, con accorte frequentazioni di colleghi stranieri e personaggi di secondo piano - il flusso delle informazioni per fornire al governo veneziano le più esatte e tempestive informazioni su uno scenario quanto mai complesso. Testimonianza di questo sforzo sono i dispacci settimanali che con precisione e chiarezza illustrano lo scontro tra Filippo e il pretendente lusitano dom Antonio, e dove il G. manifesta i suoi dubbi sulla effettiva forza del re spagnolo e sul crescente impegno della Spagna nelle Fiandre, ostinate, sotto l'insegna del calvinismo, a intrappolarne gli eserciti, dissanguandone le finanze.
Nei suoi dispacci il G. evidenzia il ruolo della lotta religiosa nell'alimentare la lacerante guerra civile in Francia e la spregiudicata e attivissima politica di Elisabetta I d'Inghilterra che, sospettata di intesa con i Turchi e più degli stessi Turchi ora temuta, era coinvolta negli avvenimenti dei Paesi Bassi e della Francia, attirando nelle sue spire il re di Spagna nonostante i consigli del cardinale A. Perrenot de Granvelle, del quale il G. descrive delusioni e declino.
Nei confronti della Porta Filippo II era oscillante, tra negoziati e intenti di adesione alla lega proposta dal papa a Spagna e a Venezia. Interpretando lo scetticismo del suo governo, il G. dichiarava al nunzio che "queste leghe […] svegliano gli humori in maniera che possino impedir la quiete d'Italia".
Il G. si prodigò per fugare i sospetti di doppio gioco con i nemici della Spagna e per ottenere la mediazione di Filippo nelle controversie tra Venezia e Malta, per far cessare gli attacchi di quei cavalieri alle navi ottomane, che attiravano su Venezia accuse di complicità da parte dei Turchi. Egli contabilizza con minuzia notarile l'afflusso delle merci provenienti dalle Indie, una ricchezza smisurata, insidiata e falcidiata regolarmente dagli assalti della flotta inglese di sir Francis Drake. Presenti in questo scenario, ma in tono minore, gli ambiziosi principi di Savoia e Toscana, alla ricerca di rapporti privilegiati con la Spagna, duellanti con il "principe" marciano in puntigliose contese per conquistare privilegi politici e precedenze protocollari; adeguato lo spazio che il G. dedica anche ai fatti di politica interna e di costume e all'Inquisizione spagnola.
Pur essendo moderato e devoto, il G. si sentiva distante da quel modo di intendere la religione, e descrivendo un autodafé cui aveva presenziato, lo definisce cosa "veramente tremenda, et spaventoso spettacolo", obiettando che "questa forma di giustizia tanto commendata a molti non piace giudicando questo né far altro effetto che confirmar la perversa opinione delli altri con la constancia de chi vien brusato".
La missione del G. in Spagna coincise in buona parte con l'episodio forse più interessante ed emblematico dei rapporti tra Spagna e Venezia nel secondo Cinquecento, il cosiddetto affare del pepe.
Da qualche tempo si era sparsa la notizia che Filippo II intendeva offrire alla Serenissima l'esclusiva del commercio del pepe. Il fatto è noto alla storiografia, che si è interrogata soprattutto sulle ragioni del rifiuto veneziano alla allettante proposta, spiegabile con il timore di Venezia di diventare succube della egemonia spagnola. Già dal 1581 le autorità veneziane erano informate del progetto; se ne era discusso ma non se ne era fatto nulla, salvo ordinare ulteriori indagini. Le proposte, definite nel maggio del 1584 in un rapporto del console a Lisbona Dall'Olmo, assunsero rilevanza in novembre, dopo un incontro tra il G. e Giovanni Idiaquez, consigliere reale ed ex ambasciatore a Venezia. Il G., favorevole all'offerta, riportandone i dettagli, suggerì alla Signoria di valutarla con attenzione: "Due cose dirò […] che questa negociatione et per il publico et per il particolare, per il debol parer mio, può esser una delle più utili et più importante che si possino immaginare. L'altra è che V. Ser.tà è - ardisco di dir - pregata. Il che argumento dalle instantie che mi son ben triplicate da Idiaquez e dalli eccitamenti di Cristoforo de Mora". A Venezia si prese tempo e nel novembre del 1585 scese in campo l'inviato personale del re, padre Mariano Azzaro, e il G., sempre senza direttive, poté solo spiegargli "che una machina tanto grande ha bisogno de huomini molti et poderosi per sostentarla, et seben a Venetia molti sariano che la sustentariano, tuttavia il trovar molti che volessero star uniti nel concerto, saria cosa dificile". Nondimeno, sconcertato dall'inerzia del proprio governo, ribadisce "di veder il negozio utilissimo et honor altissimo et nella forma assai facile, senza interesse publico". A Venezia, nel frattempo, gli autorevolissimi procuratori di S. Marco Iacopo Foscarini e Antonio Bragadin presentavano al Senato il parere loro richiesto sulla proposta spagnola. Un parere favorevole, lucido, realistico e spregiudicato di due esponenti di primo piano del patriziato conservatore, che non convinse tuttavia la maggioranza del governo, che lasciò cadere l'offerta. Agli Spagnoli, non senza stupore, non restò che rivolgersi altrove.
Lasciata, il 10 luglio 1586, Madrid con tutti gli onori e rientrato a fine novembre a Venezia il G., che nel frattempo aveva ricevuto ripetute nomine reservato loco a savio di Terraferma, fu designato, il 31 ott. 1586, ambasciatore ordinario in Germania. Il 20 giugno 1587 ricevette la commissione di mostrare a Rodolfo II "l'ottima volontà di conservar inviolabile et sincera amicitia et buona vicinanza" della Serenissima, e si mise in viaggio accompagnato dai figli Bartolomeo e Francesco. Il 6 luglio era a Innsbruck, dove affrontò con l'arciduca Ferdinando le questioni dei fuorusciti e le vertenze confinarie in Cadore. Passato per Vienna, dove incontrò gli arciduchi Ernesto e Massimiliano, giunse a Praga il 27 giugno 1587 e fu ricevuto il giorno 30 dall'imperatore. I continui spostamenti tra le località che di volta in volta ospitavano la maestà cesarea furono da subito mal sopportati dal Gradenigo. Irritato dai disagi del viaggio, dagli attacchi di gotta o spinto da un'antipatia personale, prese subito a lamentarsi di cose e persone: la mancanza di "ogni cosa necessaria", i funzionari governativi indolenti e "non molto curiosi delle cose del mondo"; il fatto che "tuto deve passar per mano de officiali heretici". Ripresosi da una grave malattia che lo aveva tenuto in pericolo di vita per tutto il marzo 1588, desideroso di recuperare la forzata inattività, dispiegò la sua abilità per spiegare al sovrano il diniego veneziano al prestito finanziario richiesto, non per "diffetto di volontà" della Repubblica, ma per le "occasioni che si adombravano di pericoli di guerra" con i Turchi, che obbligavano Venezia, "antemurale" della Cristianità, a mantenere un poderoso e costoso apparato militare.
Il G. protesta per le "robarie" degli Uscocchi - "antichissima materia", ironizza - che eccitavano la bellicosità ottomana e che l'Impero tollerava e proteggeva. Unica soluzione sarebbe il levarseli di torno - scrive alla Signoria - ma quei pirati sono indispensabili contro i Turchi, e non ci si deve illudere su un intervento repressivo degli Arciducali ma accettare le loro "tardanze" ammantate di solenni quanto vane assicurazioni. Di Rodolfo II, definito dopo i primi incontri "principe accorto discreto et molto prudente et ben veramente amaestrato nella scola del ser.mo re di Spagna suo zio", sebbene si lasciasse spesso "guidare più dalla necessità che dalla ragione", il G. focalizza con il tempo sensibilità e inquietudini. In densi dispacci, il G. illustra con scrupolo interpretativo, le vicende dell'Europa centrorientale, le minacce ottomane, l'attivismo diplomatico moscovita, le furbizie dei principi di Transilvania e, soprattutto, le intricate vicende del Regno di Polonia e il ruolo giocato dagli Asburgo, informando delle quotidiane vicissitudini dell'arciduca Massimiliano, pretendente a quel trono, la sua sfortunata spedizione militare, la sua prigionia e le defatiganti manovre per liberarlo, in mezzo a una guerra civile tra le fazioni polacche connotata dalla lotta tra protestanti e cattolici: avvenimenti che "non pronosticano molto buon fine", da cui Rodolfo II non sa come uscire, "molto malinconico", intrigato in lunghe trattative con i Polacchi, preoccupato di salvare la faccia, di evitare il prevalere di forze disgregatrici che, complice la questione religiosa, ipotecavano la saldezza del suo trono. Non può contare sui Boemi, freddi verso di lui; lo destabilizzano le divergenze con gli arciduchi, suoi parenti; la mediazione della S. Sede gli è sgradita e non lo aiuta l'irritato disprezzo dello zio Filippo II che, filtrato dalle confidenze dell'ambasciatore spagnolo, giudica il comportamento di Rodolfo II "di poca dignità per sua maestà l'Imperatore, ormai stanca di questo negocio et tanto fastidita che anco il parlarne di esso l'apporta nausea, oltre che per se stessa non può sentir longamente cose di travaglio né che ricerchino molto studio et opera per ben espedirle. Li ministri poi, oltre conoscono la natura del padrone, sanno anco l'impossibilità per aggredir cosa alcuna di momento et che ricerchi una risolutione degna d'un Imperator". Mentre "i più intendenti pensano che solo con i soldi si potria liberarlo", constata il G., l'imperatore somatizza, "retirato, né si lascia veder alla messa, né mangia in publico", e la ignominiosa prigionia di Massimiliano evidenzia la palese "impotenza di questa casa serenissima con dar occasione alli Principi di Germania poco affetti che si confermino nelli loro humori contro la reputazione et grandezza della Casa d'Austria". Scongiurato finalmente, con la liberazione di Massimiliano nel settembre 1589, un pericoloso dramma dinastico, Rodolfo II deve fare i conti con la questione religiosa. Se la penetrazione del "luteranesimo" in Polonia, Germania e Transilvania è ben visibile, in Boemia "l'heresia" dilaga. Descrivendo, nel giugno del 1588, la processione del Corpus Domini, di cui loda la solennità, il G. aggiunge risentito che "fu cosa lacrimevole veder che doi heretici cioè un ussita et un atheista sostentassero l'arcivescovo che portava il Santissimo sacramento et che de sei altri che portavano il baldachino tre fossero parimenti heretici, cioè un Luthero et doi Picardi, alla presentia dell'imperator. Lascio poi di dire per opposito che alcuni Catholici habbino portato il baldachino nella processione delli ussita, cose certo miserabili, alle quali piacerà al signor Dio un giorno di provedere".
Nell'aprile 1589 comunicava l'espulsione dei gesuiti dalla Transilvania, elogiando quei padri, che combattevano intrepidi contro le moltissime "sette" presenti in quel paese. E ancora, in un altro dispaccio, rivelava che perfino in Austria c'erano stati episodi di rivolte "per causa di religione" e si erano sobillati i contadini con asserzioni sulla "libertà di conscientia, materia molto difficile et pericolosa in modo che è grandemente da dubitare ch'el poco che resta della religione catholica nell'Austria superiore sia per estinguersi molto presto". La notizia dell'assassinio del re di Francia Enrico III di Valois aveva addolorato molti - scriveva il 5 settembre - "specie li heretici", i quali - parlando molto male della religione cattolica, perché il delitto era stato commesso dal frate Jacques Clément - prendevano spunto per attaccare il papa.
È vero che "se li principi protestanti havessero spiriti vivaci et come per lo adietro solevano haver li precessori suoi, la Christianità heveria grandissima causa de viver con molto pensiero, ma è verissimo che in alcuno d'essi non è altro fine che di goder del suo". Colto il carattere politico e dinastico sotto "l'apparenza di religione" di quanto accade, il G. mostra di condividere le preoccupazioni della Chiesa sulla sorte del cattolicesimo in Francia, ma, tacendo dell'appoggio che Venezia si apprestava a concedere a Enrico IV, proclama invece l'equidistanza della Serenissima.
Al termine del mandato il G. torna sulla questione religiosa, dando l'impressione che la tormentata vita spirituale dell'Impero sia tanto elemento di preoccupazione per il politico quanto fonte di amarezza per l'uomo di fede, che la considera tra le prime cause dei problemi che via via passano sotto il suo sguardo. I "principi tedeschi" che chiedono a Rodolfo II di poter "vivere con la libertà della conscientia, come dicono che fosse concesso da Carlo V"; il matrimonio per i vescovi e per coloro che godono di entrate ecclesiastiche, e altro ancora, in applicazione della Confessio Augustana, suscitano allarme nei cattolici e inducono a pronostici di "ruina al poco di buono che è in Germania". L'imperatore certo si dimostra contrario, ma c'è da dubitare del suo potere, conclude pessimista il G., perché si vede come "in quel paese ogn'uno vivi a suo gusto", e che i protestanti ne sarebbero usciti vittoriosi.
Il 26 apr. 1590 giunse a Praga il successore, Giovanni Dolfin e il G., congedatosi dall'imperatore l'8 maggio, il giorno 15 partì per Venezia tra un coro unanime di stima e di lodi per "la desterità et prudentia" dimostrate. Trattenutosi nella dimora del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani a San Vito al Tagliamento per ristabilirsi da un attacco di gotta che lo aveva colpito durante il viaggio, il G. arrivò a Venezia ai primi di settembre e il giorno 15, probabilmente, presentò in Senato la relazione. Si aprì per il G. un periodo di pausa domestica, speso a ricoprire le cariche che gli erano state riservate. Per tre volte, nel 1590 e nel 1591 sedette in Collegio come savio di Terraferma e savio cassier. Nominato capitano a Padova, il 17 luglio 1591 prese servizio in una città incupita dalla tensione sociale: protagonisti, una nobiltà agitata da rivalità antiche, l'irrequieta comunità studentesca, contaminata da infiltrazioni protestanti e sviata da un insegnamento filosofico ritenuto dal G. responsabile di diffondere l'ateismo, e i gesuiti, che con l'appoggio di alcuni patrizi, si proponevano di allargare i loro spazi culturali e accademici. Con severità esemplare, il G. si adoperò per mantenere l'ordine pubblico e la pace sociale, vigilando con fermezza perché non fosse turbata l'attività o fosse compromesso il prestigio dello Studio. Rientrato a Venezia (il 25 genn. 1593), il G. fu eletto alla carica di provveditore in Zecca, che lasciò prima della scadenza, essendo stato designato, insieme con Giovanni Dolfin ("senatori gravissimi", li chiama Nicolò Contarini nella sua Storia) l'11 maggio 1594, ad ambasciatore straordinario in Francia. Ricevuta la commissione il 6 ottobre, si mise in viaggio alla fine del mese con il collega e il nuovo ambasciatore ordinario Pietro Duodo e - passando per Milano, evitando Torino ostile, toccando Grenoble, Lione, Nevers e Orléans - giunse a Parigi il 30 genn. 1595. Seguirono alla trionfale accoglienza - i delegati furono trattati "non come ambasciatori ma come principi" - le udienze del 3 e del 9 febbraio, nel corso delle quali a Enrico IV che professava, grato del riconoscimento veneziano al suo insediamento, grande amicizia per la Repubblica, il G. ribadì "l'antica affetione et osservanza" verso la Corona e assicurò della volontà della Repubblica verso la persona del re, "indispensabile" a tutta la Cristianità. Nella seconda udienza il sovrano, proclamando di aver fatto ogni passo per mostrare la sua buona disposizione verso la religione cattolica, lamentava che il papa non si era ancora deciso ad approvare la sua incoronazione "per rispetto de spagnoli da quali riceve consiglio" e sfogava il suo risentimento contro Filippo II, precisando di sentirsi "giovane" quindi "più forte et più gagliardo di lui" e pronto a sfidarlo.
Il G. gli rispose pacatamente, auspicando invece una più sicura pacificazione del suo Regno. Lasciata Parigi il 14 febbraio, passando per la Lorena e la Germania, il G. fece ritorno a Venezia, dove lo aspettavano le cariche, ancora una volta riservategli, di consigliere per il sestiere di Castello e di savio del Consiglio - quest'ultima reiterata altre quattro volte fino al 1599. Eletto depositario in Zecca nel settembre del 1595, consigliere dei Dieci in dicembre, il 2 ott. 1596 fu savio all'Eresia, carica di particolare prestigio riservata ai patrizi più esperti.
In tale veste il G., confermandosi simpatizzante dei gesuiti e devoto al Papato, si segnalò nel dibattito riapertosi sulla questione cenedese: soltanto lui e il suo collega Iacopo Soranzo sostennero in Collegio una posizione più conciliante con la S. Sede. Il 23 ag. 1598 il G. fu eletto consigliere ducale e nel settembre successivo fu designato, con il collega Paolo Paruta, a scortare la principessa Margherita d'Austria in viaggio per la Spagna, di passaggio nel territorio veneto. Il 15 nov. 1598 il G. fu eletto bailo a Costantinopoli. Partito da Venezia agli inizi della seconda decade di luglio 1599, arrivò a Zara il giorno 14 e, passando per Zante, giunse a Patrasso il 30 luglio.
Avvisato della presenza di navi barbaresche, decise prudentemente di proseguire via terra. Ma il viaggio fu "il più infelice et più miserabile che si possa immaginare" (dispaccio del 27 agosto). Lungo il percorso, coperto faticosamente, la carovana incappò più volte nei predoni. Inoltre, uno dopo l'altro, servitori e collaboratori del G. si ammalarono, e ben diciotto di loro morirono. Anche il G. cadde malato e da Salonicco, dove era arrivato il 5 settembre, fu trasbordato su una nave appositamente mandatagli dal bailo Girolamo Cappello; stanco e debilitato giunse finalmente a Costantinopoli il giorno 29. Impossibilitato a prendere servizio, supplito dal bailo uscente Cappello e validamente assistito dal figlio Francesco, il G. affrontò con rassegnazione la penosissima malattia, che i medici diagnosticarono subito "lunghissima e non senza qualche timore della sua vita". Dopo cinque mesi trascorsi tra miglioramenti e ricadute, la "gagliarda complessione" del G. fu vinta, ed egli morì il 22 febbr. 1600.
Il corpo "fu trovato in tutte le sue parti essangue et il fegato et polmone così mal composti che pare miracolo che quel povero signore si sii potuto mantenere tanto tempo in vita", scrive desolato il Cappello. Il G. avrebbe desiderato essere sepolto a Venezia, probabilmente nell'arca che la famiglia possedeva a S. Francesco della Vigna, invece non tornò in patria e fu tumulato a Costantinopoli, nella chiesa di S. Francesco in Galata. Le ingenti spese sostenute per le ambascerie non impedirono al G. di lasciare ai figli un patrimonio di tutto rispetto, costituito da rendite fondiarie, immobiliari e mulini a Monselice, Este e nel Trevisano, oltre a immobili a Venezia, tra cui l'amata dimora di S. Severo.
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