GUSSONI, Vincenzo
Secondogenito di Francesco di Giacomo e di Pellegrina Mocenigo del procuratore Leonardo, nacque a Venezia, nella parrocchia di S. Vidal, il 9 febbr. 1575. La famiglia era agiata e operava nel ramo delle assicurazioni marittime (nel settembre del 1606 il G. risultava associato con la ditta Stella, attiva a Lisbona). Ai fratelli Giacomo e Giovanni sarebbe toccato il compito, sposandosi, di garantire la continuità del casato, mentre il G. avrebbe preferito dedicarsi esclusivamente all'attività politica. Iniziò non appena ebbe raggiunto l'età prevista dalla legge, e fu savio agli Ordini per il secondo semestre dell'anno 1600; dopo di che la presenza nel Collegio di parenti dallo stesso cognome comportò l'esclusione del G., che invano cercò ancora di farsi eleggere savio di Terraferma e savio agli Ordini (29 giugno e 19 sett. 1602). Non gli restava allora, per emergere, che percorrere la più dispendiosa e impegnativa strada dei rettorati e della ambascerie, e pertanto il 5 dic. 1604 accettava la nomina a podestà di Vicenza.
Qui rimase dall'aprile 1605 al maggio 1607, giusto il periodo in cui Venezia viveva la crisi dell'interdetto; ma anche lontano dall'epicentro della vertenza egli ebbe modo di manifestare con chiarezza la propria posizione. Il G. apparteneva infatti al gruppo dei "giovani", che proprio allora trovavano nelle dottrine sarpiane la più efficace difesa dei diritti dello Stato contro le ingerenze romane e asburgiche e, all'interno, miravano a perseguire una linea politica più intransigente nei confronti della nobiltà di Terraferma. Per quanto concerne il primo punto, a Vicenza il G. contribuì a far rimuovere dall'incarico il vicario episcopale, ritenuto troppo ligio alle direttive romane; quanto al suo comportamento nei confronti dei poteri locali, emblematico esempio è il processo da lui istruito e condotto contro il nobile Paolo Orgiano, giovane prepotente e dissoluto, esponente della consorteria dominante di cui il G. ebbe ragione, denunciando al Consiglio dei dieci una fitta rete di connivenze, protezioni e omertà.
Il carattere intransigente e battagliero del G. fu nuovamente messo alla prova nel corso della successiva ambasceria in Savoia, cui era stato nominato il 27 nov. 1610.
Ricevute le commissioni il 30 apr. 1611 (proprio quando si schierava in Senato per un'alleanza con l'Inghilterra, in funzione antispagnola), differì la partenza di quasi un anno; era a Torino da pochi mesi quando scoppiò la crisi monferrina, sollevata dal duca di Savoia Carlo Emanuele I alla morte di Francesco IV Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato che lasciava vedova Margherita figlia del duca sabaudo. Dopo un'iniziale cautela, nel febbraio 1613 la Repubblica si schierò con Mantova, provocando l'irritata reazione di Carlo Emanuele, che nel corso di un vivace colloquio intimò al G. di lasciare il Piemonte (12 maggio 1613). Rimpatriato, questi consegnò la relazione alla Cancelleria ducale il 21 settembre dello stesso anno.
Lo scritto, di altissima levatura, consiste in una minuziosa ricostruzione delle cause che indussero il duca all'"impetuosa, improvvisa ed inaspettata mossa d'armi nel Monferrato"; tralasciata l'ordinaria descrizione del paese e delle sue risorse, l'analisi del G. è tutta incentrata sulla psicologia di Carlo Emanuele, gran cacciatore, donnaiolo accanito, alieno dalle lettere e dalle arti, di natura irruenta e a tratti ferina ("si vale[…]di quello avvertimento comune anco coi bruti, che è di mangiare all'ora che si sente eccitare dall'appetito, e di dormire quando viene stimolato dal sonno"), politicamente inaffidabile ("i suoi pensieri possono chiamarsi stabili nella instabilità"), guidato piuttosto dall'ambizione che dal senso dell'onore, dissipatore di ricchezze anziché liberale. Un giudizio durissimo, che spiega la mancata lettura della relazione di fronte al Senato; per ragioni di prudenza, infatti, il Collegio impedì la divulgazione dello scritto.
Savio di Terraferma dall'ottobre 1613 al marzo 1614 e dall'11 luglio al 30 sett. 1615, l'8 dicembre di quell'anno il G. si vide affidata un'altra ambasceria, stavolta alla prestigiosa corte di Francia. Giunse a Parigi nel giugno 1616, mentre la Repubblica era impegnata nella difficile guerra di Gradisca contro gli arciducali: perciò l'itinerario del G. aveva toccato le terre dei Grigioni e il Palatinato, allo scopo di suscitare consensi alla politica veneziana. Inoltre rimaneva ancora aperta la questione monferrina: per contenere la pressione spagnola in Italia la Repubblica intendeva sollecitare la mediazione francese, e a tal fine aveva deciso l'invio a Parigi, quasi contemporaneamente al G., di un ambasciatore straordinario nella persona di Ottaviano Bon. Compito dei due era di risolvere a un tempo i contrasti veneto-arciducali e sabaudo-spagnoli.
La scelta operata dal Senato, nell'individuare i suoi rappresentanti, doveva rivelarsi infelice, ché un profondo contrasto ideologico separava i due patrizi: il Bon era infatti un pacifista convinto ed esponente del partito dei "vecchi", laddove il G. propugnava un indirizzo politico decisamente antiromano e antiasburgico. Queste divergenze sublimarono in attrito quando il negoziato giunse alla stretta finale; fu il Bon a prendere l'iniziativa di concludere una pace separata, abbandonando la causa sabauda: spiazzato, al G. non rimase che acconsentire.
Così, nella ricostruzione apologetica del proprio operato affidata alla relazione conclusiva, il G. riferisce sull'azione del collega, nel corso dei colloqui con i delegati francesi (luglio 1617): "L'eccellentissimo Bon, che in alcun tempo mai non aveva conferito meco alcuna cosa de' suoi pensieri […], improvvisamente, con voce strepitosa e moti stravaganti, gridò, dicendo: son convinto, son convinto: credo, e per la parte mia sottoscriverò ogni cosa[…]; in fine questa è opera dello Spirito Santo".
A Venezia, però, ci fu chi stigmatizzò il "tradimento" dell'alleato piemontese, e per salvare la faccia il 18 sett. 1617 il Senato pose sotto accusa Bon e il G., rei di aver ecceduto i termini del mandato. Furono entrambi salvati dall'intervento francese, ma la loro carriera risultò compromessa; la relazione del G., letta in Senato il 21 febbr. 1618, quasi non fa parola della situazione politica d'Oltralpe, risolvendosi in un puntiglioso attacco contro le presunte prevaricazioni del Bon.
Benché Luigi XIII avesse creato cavaliere il G., per qualche anno egli non fu eletto ad alcuna carica, né più gli sarebbero state affidate ambascerie; pertanto le risorse destinate a servire la patria furono da lui impiegate a incrementare il patrimonio, realizzando l'acquisto di 2270 campi presso Cavarzere, effettuando cospicui investimenti in Zecca e allestendo una prestigiosa raccolta di quadri.
Solo nel 1621 riprese la carriera politica da dove l'aveva lasciata e fu savio di Terraferma per il semestre aprile-settembre degli anni 1621-23; assunse la carica anche nell'aprile 1624, ma la depose il 25 maggio per assumere, fino a settembre, quella più prestigiosa di savio del Consiglio. A questa apertura di credito del Senato, il Maggior Consiglio fece presto seguire la dispendiosa carica di capitano a Padova, che al G., del quale era risaputa l'estrema parsimonia, doveva risultare ancor più gravosa.
Eletto capitano della città euganea il 6 dic. 1624, vi rimase dal maggio dell'anno seguente all'ottobre 1626, esercitando per qualche tempo anche la funzione podestarile; si occupò prevalentemente di fisco con efficace rigore nei confronti di quei funzionari che, come scrisse nella relazione, "scorticano et mangiano il povero contado". Al ritorno a Venezia, fu "promosso" alla carica di savio del Consiglio, che esercitò nel corso del primo semestre del 1627, dall'ottobre 1629 al marzo 1630 e dall'ottobre 1630 al 21 dicembre dello stesso anno, affiancandovi l'esercizio di altre funzioni, come quella di savio alla Mercanzia (ottobre 1627 - marzo 1628), presidente all'Esazion del danaro pubblico (ottobre 1628 - settembre 1631), aggiunto ai Riformatori dello Studio di Padova (28 ott. 1628 - 27 ott. 1629). Il 22 dic. 1630 risultò eletto capitano a Brescia, ma a causa della peste gli fu concesso un rinvio. L'epidemia spinse molti patrizi ad abbandonare la città, rifugiandosi nelle campagne; questo spiega la concentrazione delle cariche nelle mani dei superstiti, e così il G. nel 1631 si trovò a essere savio del Consiglio, capo della Sanità per il sestiere di S. Croce (si era trasferito nella parrocchia di S. Giovanni Decollato, in un palazzo sul Canal Grande), aggiunto ai Riformatori dello Studio di Padova, savio alla Mercanzia, inquisitore sopra il Banco Giro; inoltre alla morte del patriarca Giovanni Tiepolo, avvenuta il 7 maggio 1631, il G. cercò invano di proporsi tra i candidati alla successione.
Nominato podestà a Brescia il 21 marzo 1632, rimase al di là del Mincio fino al 9 giugno 1633, cercando di varare provvedimenti atti a risanare i guasti provocati all'economia e al Fisco da un contagio che si era portato via quasi la metà della popolazione. Il 10 giugno 1633 fu eletto ambasciatore in Spagna: il Senato gli offriva in tal modo l'occasione di riscattarsi dal precedente insuccesso francese; il G. ne approfittò per lasciare anticipatamente Brescia, ma una volta a Venezia riuscì ad annullare la nomina, e a farsi eleggere savio del Consiglio per il semestre settembre 1633 - marzo 1634.
Sennonché incappò in un secondo infortunio politico il 1° genn. 1634, quando fu eletto sindaco inquisitore in Levante. Rifiutò, pagò l'ammenda e per tre anni il suo nome scomparve dai registri del segretario alle Voci; esattamente il giorno successivo allo scadere della contumacia (29 genn. 1637) fu eletto capitano a Brescia; in tal modo lo si voleva far tornare, in veste leggermente meno prestigiosa, nella città che aveva lasciato cinque anni prima. Rifiutò nuovamente, ma ottenne di farsi dichiarare eleggibile al saviato del Consiglio, che gli fu conferito, per poco più di un mese e mezzo, il 12 febbr. 1637 e poi ancora da ottobre al marzo 1638 e successivamente fino al 1648, quasi sempre per il primo semestre dell'anno.
Era ormai tra i più influenti e ascoltati senatori veneziani e negli intervalli del Collegio ricoprì una quantità di cariche, tra le quali spiccano quelle di provveditore alle Biave (1639, 1640, 1641, 1644) e di aggiunto ai Riformatori dello Studio di Padova (1643, 1645-46); quando i Turchi sbarcarono a Gorgnà, dando inizio all'invasione di Candia (23 giugno 1645), il G. sedeva tra i savi del Consiglio; qualche mese prima si era pronunciato contro il preventivo rafforzamento difensivo dell'isola, per risparmiare e non offrire motivi di provocazione agli Ottomani. Fu un grave errore di valutazione politica, pagato con la forzata rinuncia a una nuova elezione al saviato del Consiglio: pochi giorni dopo la nomina, infatti, il 3 genn. 1647 il Senato gli accordava la dispensa, richiesta dal G. in considerazione delle "indispositioni gravissime che l'opprimono".
Si trattava probabilmente di un rinvio tattico, non certo di una definitiva rinuncia, visto che il G. era ritenuto tra i dodici senatori "di maggior valore e prudenza stimati" (Andretta, p. 217); pertanto il G. sedette ancora fra i savi del Consiglio per il semestre aprile-settembre 1647 e ancora nell'anno seguente, sostenendo in ogni frangente, anche a rischio di impopolarità, la necessità di porre termine alla guerra col Turco, rinunciando a Candia.
In seguito il G. non partecipò più alla vita pubblica; morì a Venezia il 20 genn. 1654.
Fu sepolto nel chiostro del monastero di S. Stefano, con iscrizione da lui dettata; nel testamento, steso il 9 ott. 1652, raccomandava agli eredi "tutte le pitture che mi ritrovo avere che sono preciose, et vagliono molte migliara di scudi": si trattava di una famosa raccolta (fu visitata anche dal cardinale Alessandro Bichi, nell'aprile 1644), che comprendeva opere di Tiziano, Tintoretto, Veronese e Palma il Giovane.
Fonti e Bibl.: Venezia, Arch. stor. del Patriarcato, Chiesa di S. Vidal, Libri dei battezzati, 9 febbr. 1574 m.v.; Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti…, IV, cc. 201, 206; Segretario alle Voci, Elezioni in Pregadi, regg. 7, c. 20; 8, c. 70; 9, cc. 12-13, 69; 10, c. 12; 11, cc. 2, 12, 56, 61, 100; 12, cc. 1-3, 12, 14, 44, 45-46, 60, 84, 99, 133, 136, 165, 178; 13, cc. 2-3, 44, 60, 69; 14, cc. 2, 4, 31, 60, 79, 88, 100, 105, 146, 172; 15, cc. 1-4, 60; ibid., Elezioni del Maggior Consiglio, regg. 14, c. 138; 15, cc. 164, 166; 16, cc. 67, 164, 187; Senato, Terra, regg. 115, c. 424r; 126, c. 128v; 142, cc. 280v-281r; Senato, Dispacci, Savoia, ff. 35, nn. 10-80; 36, nn. 1-28; ibid., Francia, ff. 48-50; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere di ambasciatori, bb. 28, nn. 162-164 (Savoia, 1612); 11, nn. 220-221 (Francia, 1616); per il testamento, Notarile, Testamenti, b. 1146/319; sugli affari a Lisbona, ibid., Atti, reg. 5842, f. 37; sull'amministrazione patrimoniale, regg. 12026, cc. 31r-32r; 12151, cc. 190r-195r; Dieci savi alle decime, Aggiunte, bb. 204/12795; 206/13555; 207/13953; Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Mss. Venier, 68: Consegli, sub 5/12/1604; Mss. P.D., C I: G. Sagredo, Memorie istoriche dei monarchi ottomani, c. 80r; un suo ritratto, opera di F. Ruschi e D. Varo, Stampe, D 41/15; la relazione di Savoia, in Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. III, I, Venezia 1862, pp. 505-547 (ristampa in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, XI, Torino 1983, pp. 801-841, con cenni sulla cronologia della missione, p. XIII); quella di Francia, con scarne notizie biografiche sul G. e le commissioni, in Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. II, II, Venezia 1859, pp. 5-31 (ristampa in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, VI, Torino 1975, pp. 569-595, con cenni cronologici, p. XXII); Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, IV, Podestaria e capitanato di Padova, Milano 1975, pp. 207-218; VII, Podestaria e capitanato di Vicenza, ibid. 1976, pp. 179-189; Processi del S. Uffizio di Venezia contro ebrei e giudaizzanti (1642-1681), a cura di P.C. Ioly Zorattini, XI, Firenze 1993, p. 33; G. Gualdo Priorato, Vita del cav. Pietro Liberi pittore padovano scritta… l'anno 1664, a cura di L. Trissino, Vicenza 1818, p. 12; B. Nani, Historia della Republica Veneta, in Degl'istorici delle cose veneziane…, Venezia 1720, VIII, p. 155; IX, pp. 34, 196-200; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, pp. 359, 367, 377; R. Quazza, La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato (1628-1631), I, Mantova 1926, p. 135; A. Zanelli, Le relazioni tra Venezia e Urbano VIII durante la nunziatura di mons. Giovanni Agucchia (1624-1631), in Archivio veneto, s. 5, XVI (1934), p. 223; F. Seneca, La politica veneziana dopo l'interdetto, Padova 1957, pp. 80, 128, 151, 171 ss.; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 137, 142, 166 s., 204; P. Ulvioni, Il gran castigo di Dio. Carestia ed epidemie a Venezia e nella Terraferma. 1628-1632, Milano 1989, p. 178; C. Povolo, L'intrigo dell'onore. Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento, Verona 1997, pp. 13, 16 s., 21, 32-39, 43-47, 51, 54, 57, 60, 81 s., 301, 348, 418, 425; G. Candiani, Conflitti di intenti e di ragioni politiche, di ambizioni e di interessi nel patriziato veneto durante la guerra di Candia, in Studi veneziani, n.s., XXXVI (1998), pp. 153, 155, 166; S. Andretta, La Repubblica inquieta. Venezia nel Seicento tra Italia ed Europa, Roma 2000, pp. 211 s., 217 ss., 236 s.; M. Pasdera, Bon, Ottaviano, in Diz. biogr. degli Italiani, XI, Roma 1969, pp. 422 s.