MACCHI, Vincenzo
Nacque a Roma il 28 ott. 1866 da Giuseppe conte di Cellere e da Giulia Capranica dei marchesi del Grillo. Il 31 ott. 1888 conseguì la laurea in giurisprudenza presso l'Università di Roma. Un anno dopo, in seguito a esame di concorso nel quale riuscì primo nella scala di merito, fu nominato volontario per gli impieghi di prima categoria del ministero degli Affari esteri.
Con il governo di A. di Rudinì, nel febbraio 1891, ebbe il suo primo incarico come segretario particolare del sottosegretario agli Affari esteri, A. D'Arco, un conte mantovano che fu per lui "esempio fortunatissimo" (Justus, p. 8). La formazione del M. avvenne tutta nell'alveo della tradizione: compì il suo apprendistato nella "carriera interna", che aveva costituito l'elemento di continuità e di conservazione rispetto ai progetti di modernizzazione propri della gestione crispina, e grazie al quale conobbe i segreti dell'amministrazione.
Nel dicembre del 1891 fu promosso vice segretario di 2a classe nella carriera interna; nel gennaio del 1892 fu nominato segretario presso la conferenza internazionale sanitaria di Venezia e nell'aprile dello stesso anno svolse analoghe funzioni presso la conferenza internazionale della Croce rossa a Roma. Promosso il 19 luglio 1894 a vice segretario di 1a classe, dal 1896 svolse funzioni di segretario particolare del conte L. Bonin Longare, sottosegretario agli Affari esteri e oppositore di F. Crispi, passato alla carriera diplomatica nel 1904. Tra il 1897 e il 1898, il M. svolse anche funzioni di segretario particolare del ministro E. Visconti Venosta.
Sebbene il "modello" creato da Visconti Venosta si fosse già da tempo esaurito, fu comunque forte l'influenza del suo stile e del suo sistema di valori nella tradizione diplomatica italiana e, di conseguenza, su un collaboratore giovane e agli inizi della carriera come il Macchi.
Il M. passò dalla carriera interna a quella diplomatica nel 1902, con il grado di segretario di legazione di 1a classe, un passaggio che va letto alla luce delle caratteristiche della gestione di G. Prinetti, il quale fece spesso ricorso al trasferimento di elementi dall'amministrazione interna e dalla carriera consolare alla carriera diplomatica.
In realtà, il provvedimento per la collocazione nei ruoli diplomatici del M. era già maturo sin dal 1898, come risulta da una relazione al ministro F.N. Canevaro, datata al 15 luglio di quell'anno, e probabilmente rinviato per problemi di carattere amministrativo. Ciò non impedì che gli venissero affidati alcuni importanti incarichi all'estero: il 26 giugno 1898 fu destinato, con funzioni di primo segretario, alla legazione di Buenos Aires, dove dall'8 maggio al 20 ag. 1901 svolse funzioni di incaricato d'affari e firmò il protocollo commerciale con l'Uruguay. Durante la sua permanenza nella capitale argentina sposò Dolores Josefa Cobo Salas (1901), appartenente a una importante famiglia patrizia, da cui ebbe due figli, Agnese, che divenne una grande imprenditrice agraria in Argentina, e Stefano, ufficiale di cavalleria dell'Esercito italiano, morto nel 1940 in Francia. Dolores Cobo fu una presenza importante anche nella vita professionale del M.: durante il secondo incarico del M. negli Stati Uniti strinse ottimi rapporti con Edith Bolling Wilson, con i coniugi Mc Adoo e, soprattutto, con il segretario di Stato R. Lansing, con il quale condivise, insieme con il marito, un profondo sentimento religioso.
Destinato da Prinetti a Washington (giugno 1902), il M. vi restò per breve tempo e, a causa dell'assenza del titolare E. Mayor des Planches, si trovò a governare l'ambasciata di cui lamentò una non impeccabile organizzazione, soprattutto per quanto riguardava il personale. Al suo rientro in Italia, T. Tittoni, nuovo ministro degli Esteri e suo amico, conoscendo quanto il M. ambisse a una sede europea, lo destinò a San Pietroburgo. Tuttavia, non poté raggiungere la Russia essendo trattenuto a Roma, dove svolse funzioni di segretario particolare del ministro, incarico che mantenne anche con A. Paternò Castello marchese di San Giuliano e con F. Guicciardini. Con il ritorno di Tittoni alla Consulta il M. fu destinato di nuovo a Buenos Aires, con credenziali di inviato straordinario e ministro plenipotenziario (5 ott. 1906).
Alla legazione di Buenos Aires, città cui rimase sempre legato anche per i vincoli familiari, il M. si adoperò in aiuto della colonia italiana, avversata da un clima poco favorevole: consigliò di accrescere il numero dei consoli, che al tempo erano soltanto quattro, e intraprese iniziative a tutela dei connazionali. Lamentò a Tittoni le condizioni di ristrettezza economica in cui versavano le scuole italiane e la locale "Dante Alighieri" e si prodigò per la costituzione di una sezione della Società geografica italiana. La sua azione si fece più energica con il ritorno al ministero di San Giuliano. Quando il governo argentino, tra il 1910 e il 1911, alle prime notizie di un'epidemia colerica adottò nei confronti dell'emigrazione italiana alcune misure restrittive sproporzionate alla natura del morbo e alle misure già adottate in Italia, protestò fortemente contro disposizioni che violavano le norme della Convenzione sanitaria internazionale e risultavano lesive degli interessi e del decoro nazionale. San Giuliano ne recepì i suggerimenti, sino a giungere al decreto del 30 luglio 1911 con il quale veniva sospeso il flusso migratorio, così da costringere il governo argentino a valutare appieno il contributo dell'emigrazione italiana alla ricchezza dell'Argentina (Rosoli, pp. 295-297).
Già consigliere di legazione di 1a classe dal 1907, il M. nel giugno del 1911 fu promosso inviato straordinario e ministro plenipotenziario di 2a classe e il 2 ott. 1913 fu destinato a Washington con credenziali di ambasciatore straordinario e plenipotenziario, sede che raggiunse soltanto a fine settembre 1914, a conflitto mondiale già in corso.
Durante il periodo della neutralità italiana, attraverso un "vigilante contatto" con il dipartimento di Stato, agì in funzione della volontà del suo governo per una "eventuale azione di pace" da attuare in comune con il governo degli Stati Uniti. L'azione fu peraltro disturbata, a partire dai primi di dicembre 1914, dalle voci provenienti da Roma su un sempre più probabile intervento italiano nel conflitto, alle quali S. Sonnino replicava: "Nessun fatto nuovo è intervenuto per cui R. Governo abbia modificato suo atteggiamento circa neutralità" (Documenti diplomatici italiani, s. 5, II, p. 278). Dalla documentazione disponibile sembra che l'azione del M. fosse ascrivibile più a disciplina nei confronti delle disposizioni ministeriali, che al filotriplicismo neutralista presente soprattutto tra i quadri più anziani della diplomazia. Ne è prova l'impegno profuso dal M. nel contrastare la propaganda tedesca agitata dall'ambasciatore J.H. Bernstorff e dall'ex ministro delle colonie B. Dernburg, che era riuscita a conquistare parte della grande stampa statunitense. Egli fu subito cosciente della condizione di svantaggio in cui si trovava l'Italia in terra americana in quanto a prestigio, situazione determinata da una diffusa ignoranza sulle "cose italiane", soprattutto perché il principale veicolo di conoscenza era costituito da un'emigrazione "essenzialmente lavoratrice, non integrata da emigrazione di carattere intellettuale, industriale, commerciale, professionale" (Justus, p. 174). Di qui una costante attività di contropropaganda che impegnò il M. per tutto il periodo bellico, e per la quale attinse anche a risorse personali, in parte ostacolato da un governo a lungo sordo alle richieste in tal senso, e che doveva necessariamente legarsi a un'azione finalizzata a risollevare le sorti materiali e morali degli emigrati italiani per un recupero dell'immagine nazionale. Fu per iniziativa del M. che fu promossa un'inchiesta sulla condizione degli emigrati italiani ed è in questa prospettiva che va inquadrata anche l'opposizione da lui manifestata a quei provvedimenti di legge, emanati in conseguenza della crisi industriale americana, discriminatori nei confronti della forza lavoro straniera, come il Burnett Bill.
Dopo il 24 maggio 1915, il M. si impegnò nello spiegare le cause dell'intervento italiano, intorno al quale si parlava di "immoralità", facendo ricorso a categorie quali "l'imperialismo barbarico", anche in giornali usualmente vicini a W. Wilson, come il New York World. A tale attività il M. accompagnò l'impegno per il reperimento degli approvvigionamenti. Puntuale nell'informare Sonnino sul desiderio di Wilson di imporsi come arbitro della pace sia durante la neutralità statunitense sia da presidente di una potenza belligerante, il M. esprimeva il suo apprezzamento per le dimissioni del "pacifista" W.J. Bryan dalla carica di segretario di Stato e la nomina al suo posto di Lansing, rispetto al quale egli prevedeva una svolta più "decisa" della politica estera americana e, soprattutto, maggiormente filoitaliana (Documenti diplomatici italiani, s. 5, IV, p. 72: M. a Sonnino, 9 giugno 1915). Continue furono le informazioni del M. alla Consulta circa le "titubanze" di Wilson e l'ostinazione con la quale perseguiva il suo piano di pace anche di fronte alle ripetute provocazioni tedesche a grave danno delle navi statunitensi.
Grazie alle confidenze di Lansing, con il quale era in ottimi rapporti, il M. poté informare Sonnino dell'atteggiamento degli Stati Uniti verso l'Austria-Ungheria, diverso almeno sino al dicembre 1917 da quello nei confronti della Germania: una politica del "doppio binario" per creare dissidio tra gli imperi centrali e che avrebbe potuto avere "comunque ripercussioni alla conferenza della pace" (ibid., VII, p. 306). All'indomani della dichiarazione di guerra alla Germania votata dal Senato statunitense (6 apr. 1917), Sonnino invitò il M. a vigilare sull'eventualità che gli accordi del Patto di Londra potessero essere oggetto di discussione separata tra Wilson e le altre potenze dell'Intesa, rimarcando che "circa l'Adriatico, l'Italia ha concluso patti precisi cogli alleati, e pertanto tale questione, nei riguardi fra noi e gli alleati, è fuori discussione" (Sonnino, 1916-1922, pp. 198-200). Il M., pur promettendo "la più diligente vigilanza", sottolineava la "difficoltà" in cui si trovava a operare. A parte una non completa conoscenza delle clausole del Patto di Londra, come scrisse alcuni anni più tardi, la difficoltà di cui si lamentava riguardava probabilmente l'esiguità dei finanziamenti per potenziare l'azione informativa e propagandistica (Saiu, pp. 99 s.). Il M., inoltre, sottolineava che il contributo degli Stati Uniti al conflitto, per quanto "fatalmente utile alla causa degli alleati", fosse "un'ipoteca usuraria sulle condizioni della pace": a suo avviso Wilson avrebbe infatti portato con sé tutto "il bagaglio delle sue teorie e delle sue prevenzioni", diventando "il fattore più forte" (Documenti diplomatici italiani, s. 5, VII, pp. 571 s., 590).
Convinto che fosse necessario accrescere il peso dell'influenza italiana, il M. caldeggiò l'invio di una missione ufficiale italiana, come stavano già facendo Gran Bretagna e Francia. Il consiglio fu fatto proprio dalla Consulta, che inviò una delegazione guidata da Ferdinando di Savoia-Genova, principe di Udine, giunta negli Stati Uniti alla fine di maggio, di cui facevano parte il sottosegretario agli Esteri L. Borsarelli, il ministro dei Trasporti E. Arlotta, G. Marconi e i deputati A. Ciuffelli e F.S. Nitti.
Per cultura e formazione insofferente a quanto andava oltre la diplomazia ufficiale, il M. riteneva, in piena sintonia con il ministro, che la missione avesse compiti esclusivamente informativi: pertanto criticò aspramente il comportamento di alcuni componenti, in particolare di Nitti, per le richieste esagerate di aiuti che potevano far supporre condizioni dell'Italia al limite del collasso. A sua volta Nitti aveva espresso giudizi negativi sull'operato dell'ambasciata italiana, ribaditi in una conversazione con O. Malagodi nel settembre 1918, accusata di non aver fatto abbastanza a sostegno della causa italiana, e sul M., considerato "un semplice uomo di mondo, già invecchiato" (Malagodi, p. 393). Il clima poco favorevole all'azione diplomatica, sulla quale si riflettevano i veleni politici di Roma, peggiorò in occasione del viaggio di Nitti, quando trapelarono anche notizie circa una sua "azione sotterranea" per diventare presidente del Consiglio dei ministri con conseguente discredito nei confronti di Sonnino e del personale del ministero degli Esteri; la cosa creò non poco imbarazzo allo State Department, e Lansing ne informò prontamente il M. (ibid., p. 430). I dissidi avvenuti in terra americana arrivarono a tal punto, che il M., pur riconoscendo i buoni effetti del "compito politico" svolto dalla delegazione, stigmatizzò ufficialmente "il tentativo di alcuni membri della missione di condurre le trattative per le questioni pendenti di interesse nazionale" (Documenti diplomatici italiani, s. 5, VIII, pp. 337 s.: telegramma a Sonnino del 2 luglio 1917); dal canto suo la delegazione propose al governo di nominare un alto commissario negli Stati Uniti che si occupasse degli acquisti e degli approvvigionamenti (Barbagallo, p. 226), ruolo affidato allo stesso Macchi.
All'indomani di Caporetto (24 ott. 1917), il M. reagì con sdegno alla pubblicazione del bollettino di guerra n. 887, nel quale R. Cadorna imputava la sconfitta alla mancata resistenza di alcuni reparti: il giorno dopo la nomina di V.E. Orlando a presidente del Consiglio egli inviò un telegramma a Sonnino in cui denunciava l'"impressione disastrosa" che aveva provocato la pubblicazione del documento, promettendo di adoperarsi per "paralizzare l'effetto delle notizie" e scongiurando di fare in modo che gli uffici preposti non lasciassero "compromettere in momenti così gravi il prestigio e i supremi interessi del paese" (Saiu, p. 152). Con il governo Orlando, che tra i suoi primi provvedimenti istituì un sottosegretariato per la Propaganda all'estero e per la stampa affidato a R. Gallenga Stuart, le annose richieste del M. venivano in parte esaudite.
Egli infatti si era impegnato con ogni risorsa - anche attraverso la stampa, che sapeva quanto contasse per il presidente americano - a osteggiare la politica di Wilson nei confronti dell'Austria. Dopo il discorso al Congresso del 4 dic. 1917, in cui Wilson propose che gli Stati Uniti dichiarassero "immediately" lo stato di guerra con l'Austria-Ungheria, ma ricorrendo nello stesso tempo ad alcune dichiarazioni sui Balcani che avrebbero potuto essere interpretate in contrasto con le rivendicazioni italiane, il M. propose una duplice azione: potenziare la propaganda "per un lavoro costante di penetrazione e di convincimento"; giungere al componimento dei dissidi con la Serbia, obiettivo che, a suo dire, avrebbe giovato "presso gli Stati Uniti più di ogni altra cosa" (ibid., p. 151). È da sottolineare che il suo suggerimento sulla Serbia fu condiviso sia da G. Imperiali a Londra sia da L. Bonin Longare a Parigi, il suo vecchio "capo" dei tempi di Visconti Venosta; e, con un'azione parallela a quella di Imperiali, il M. pressò gli ambienti governativi di Washington, sottolineando il valore morale dell'intervento americano a sostegno della resistenza italiana.
Dopo l'enunciazione dei "14 punti", ai primi di gennaio del 1918, Sonnino raccomandò al M. di agire affinché insieme con il criterio etnico fossero riconosciute anche le ragioni della sicurezza, sulle quali si basavano le rivendicazioni italiane. Dopo un colloquio con Wilson, il M. comunicò a Roma la disponibilità del presidente a riconoscere all'Italia il diritto a essere garantita nella sua sicurezza, ma anche l'"incorreggibile tendenza utopistica" del presidente, ritenendo "puerile insistere nella credenza che il compito di siffatta garanzia possa essere devoluto ad una ipotetica Lega delle Nazioni", alla quale Wilson aveva rimandato le rivendicazioni italiane (Sonnino, pp. 365-367, 376-378).
La paziente azione del M. sortì qualche effetto e, tra la primavera e l'estate del 1918, si registrò un netto miglioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Italia: crebbe la considerazione dell'Italia, così come cambiò la percezione del suo ruolo militare. Tra alti e bassi, questa tendenza ebbe il suo culmine nell'autunno, quando il M. ravvisò nel discorso tenuto da Wilson il 27 sett. 1918 alla Metropolitan Opera House di New York, un implicito monito ad alcuni Paesi dell'Intesa e un'assonanza tra la "pace democratica" del presidente statunitense e i propositi di cautela più volte espressi da Sonnino circa eventuali misure economiche restrittive e punitive da prendersi dopo la fine delle ostilità. Tale lettura era suffragata da quanto lo stesso Wilson comunicò al M. il 2 ottobre successivo, quando espresse soddisfazione per il "pensiero moderato ed equilibrato del barone Sonnino", pronunciando inoltre le testuali parole: "l'Italia si comporta nelle presenti contingenze in modo rimarchevole che apprezzo assai [(]. Spero di poter dimostrare loro il mio pregio e il mio riconoscimento al momento opportuno" (ibid., pp. 492 s.). E ancora, il 5 novembre successivo, il M. comunicò con soddisfazione che la vittoria italiana trovava "credito illimitato nella stampa americana"; che il governo di Washington "con prontezza amichevole" aveva impedito la diffusione di notizie tendenziose e che alcuni organi di stampa, notoriamente vicini al dipartimento di Stato, si compiacevano "non soltanto del successo militare italiano bensì pure del conseguimento ormai assodato nostre aspirazioni territoriali" (Documenti diplomatici italiani, s. 6, I, p. 9).
Invitato personalmente da Wilson sul piroscafo che ai primi di dicembre del 1918 lo portò in Europa, il M., nell'imminenza della partenza, ribadiva che l'atteggiamento del presidente era ancora favorevole all'Italia, sebbene avvertisse con preoccupazione della "indeterminatezza" della sua permanenza in Europa e del programma di pace che avrebbe cercato di far trionfare.
Già soggetto a critiche da parte di L. Albertini e del Corriere della sera, che a fine ottobre, riprendendo una proposta del Times, aveva suggerito la costituzione di "una fronte diplomatica unica", cioè un Consiglio diplomatico interalleato, per evitare che Wilson fosse "arbitro dei nostri destini" (Albertini, Da Caporetto, p. 408), il M. mantenne salde le sue posizioni in qualità di delegato e consigliere tecnico alla conferenza della pace di Parigi, alla quale partecipò insieme con Imperiali, De Martino e Bonin Longare. Dopo la rottura delle trattative da parte della delegazione italiana e il successivo ritorno di Orlando a Parigi - ai primi di maggio del 1919 - egli partecipò ai negoziati sulla questione adriatica.
A seguito di colloqui intercorsi fra le autorità italiane e americane fu convenuto che egli collaborasse con D. Miller per una formula di compromesso: porre Fiume e la Dalmazia sotto la protezione della Società delle nazioni, in attesa che "le passioni non si fossero calmate". Il progetto Miller - Macchi fu nella sostanza accettato da Orlando, a patto che lo si fosse inteso come base di discussione, ritenendolo ancora "difettoso" riguardo alla non assegnazione di Fiume all'Italia. Si trattò comunque di un punto importante nello svolgimento delle trattative, sebbene nel contempo avvenissero discussioni parallele, ma che Orlando lasciò cadere optando per un accordo diretto italo-iugoslavo, dopo aver ottenuto il benestare di Wilson. Il M. presenziò all'incontro tra italiani e iugoslavi del 16 maggio all'hôtel Crillon, che non portò ad alcun risultato: rimanevano infatti insolute le questioni dell'Istria orientale, di Zara e Sebenico e delle isole incluse nella "linea di Londra". Su Fiume, tuttavia, l'accordo fu raggiunto sulla base di quanto pattuito nel piano Miller - Macchi (Curato, pp. 294-311; Crespi, pp. 555, 559, 671).
Anche dopo questo ennesimo blocco delle trattative, il M. continuò a impegnarsi con i colleghi statunitensi per una soluzione della questione adriatica e il 23 maggio 1919, mentre già ventilava aria di crisi sul gabinetto Orlando, annotava sul suo diario: "Delle trattative in corso per la questione adriatica, nulla. Ormai Orlando e Sonnino sembrano d'accordo nel non fare. Ma è col non fare che arrivammo alla crisi cui si cerca oggi di rimediare" (Justus, p. 206). Il giorno successivo confessò a Malagodi che sino ai primi di aprile la delegazione americana a Parigi e i circoli statunitensi più influenti si erano pronunciati a favore dell'Italia, "tutti all'infuori di Wilson".
Criticando il "personalismo" del presidente americano, capace di lasciarsi andare "con indifferenza ad atti di sfida contro tutti", il M. esaminava la genesi di questo mutamento di atteggiamento nei confronti delle aspirazioni italiane, adducendo come cause la propaganda iugoslava negli Stati Uniti e il comportamento non troppo cordiale degli alleati, che avevano "ripetutamente fatto intendere a Wilson che mentre si sentivano legati dal trattato [di Londra], non avrebbero visto malvolentieri che fosse repudiato per causa sua"; oltre al ritardo con il quale la delegazione italiana era ritornata a Parigi, dopo la rottura avvenuta nell'aprile precedente (Malagodi, pp. 672-675). Va sottolineato che in occasione della partenza della delegazione italiana, a suo avviso "inevitabile", il M. si era affrettato a inviare all'ambasciata a Washington istruzioni per intensificare l'attività informativa a sostegno della causa italiana, perché occorreva "che l'opinione pubblica specialmente quella americana [fosse] compenetrata dell'ingiustizia delle diminuzioni" che si volevano imporre, suggerendo di rivolgere appelli direttamente al popolo americano e di sottolineare l'amicizia che legava i due popoli, altrimenti le conseguenze sarebbero state "disastrose per tutti" (Roma, Arch. stor. diplomatico del Ministero degli Affari esteri, Ambasciata Italiana a Washington, b. 128, f. 443: telegramma dell'aprile 1919).
Trattenutosi a Parigi sino alla fine di giugno, il M. ebbe il tempo di salutare Tittoni, di nuovo agli Esteri, che gli rinnovò la sua personale fiducia. Tuttavia, i dissapori verificatisi con Nitti in occasione del suo viaggio americano, nonché il clima di condanna nei confronti dell'operato di Sonnino e di tutta la diplomazia di guerra ebbero pesanti conseguenze sulla sua carriera.
Il M. era appena tornato a Washington quando, a fine luglio, Il Popolo romano pubblicava un articolo di dura critica nei suoi confronti, anticipando la notizia del suo richiamo a Roma. In un telegramma confidenziale (1( ag. 1919) Tittoni gli confermava che le voci trapelate sulla stampa provenivano da "indiscrezioni del gabinetto del presidente del Consiglio" e, comunicandogli la sua "posizione imbarazzantissima" e le "insistenze vivissime" di Nitti, lo pregava di prendere egli stesso l'iniziativa di mettersi a disposizione. Nella risposta il M., più che stupore per un provvedimento forse atteso, esprimeva un sentimento di offesa per l'operato del "vecchio amico" Tittoni: se gli avesse comunicato per tempo che il presidente del Consiglio "reclamava la sua testa", evitando la campagna "vituperosa e mendace" del Popolo romano, avrebbe senz'altro accettato l'invito. Ora, con la reputazione in ogni caso ferita, preferiva "attendere serenamente il collocamento a disposizione di autorità" che, infatti, arrivò il 12 ottobre successivo (Justus, pp. 232-236).
Il caso del M. fu anticipatore del generale discredito che colpì la diplomazia italiana, divenuta il capro espiatorio per nazionalisti, interventisti democratici, neutralisti anche perché, sulla scia dei postulati di Wilson, si consolidarono posizioni critiche nei confronti dei metodi tradizionali della "diplomazia segreta". Si può dire che la diplomazia pagò anche per le colpe del governo: ne è prova quanto scrisse Orlando sul M., una "brava persona ma assolutamente inferiore al suo compito e a cui si deve se noi italiani andammo alla Conferenza del tutto ignari dei veri sentimenti di Wilson" (Orlando, p. 388): parole ingenerose e smentite dalla documentazione oggi disponibile.
Il M. morì il 20 ott. 1919 a Washington, ancora in servizio e pochi giorni dopo il suo richiamo.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. stor. diplomatico del Ministero degli Affari esteri, Personale, f. M.18: V. M. di Cellere; Ambasciata d'Italia a Washington, bb. 4, 63, 64, 66, 71, 73-77, 128; Arch. politico ordinario e di Gabinetto, 1915-1918, Stati Uniti, bb. 190-192; Conferenza della pace, bb. 14, 67, 68, 70; Documenti diplomatici italiani, s. 5: (1914-1918), II-XI, Roma 1973-86, ad indices; s. 6 (1918-1922), I-II, ibid. 1966-80, ad indices; La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915). Repertorio bio-bibliografico dei funzionari del ministero degli Affari esteri, Roma 1987, ad vocem; Justus (G. Casalini), V. M. di Cellere all'ambasciata a Washington. Memorie e testimonianze, Firenze 1920; F.S. Nitti, L'Europa senza pace, Firenze 1921, passim; R. Lansing, The peace negotiations. A personal narrative, Boston-New York 1921, passim; G. Salvemini, Dal Patto di Londra alla Pace di Roma, Torino 1925, passim; M. Toscano, Il Patto di Londra. Storia diplomatica dell'intervento italiano (1914-1915), Bologna 1934, passim; L. Aldrovandi Marescotti, Guerra diplomatica. Ricordi e frammenti di diario (1914-1919), Milano 1936, passim; S. Crespi, Alla difesa d'Italia in guerra e a Versailles. Diario 1917-1919, Milano 1940, passim; F. Curato, La Conferenza della pace (1919-1920), II, I problemi italiani, Milano 1942, passim; V.E. Orlando, Memorie (1915-1919), a cura di R. Mosca, Milano 1960, ad ind.; A. Monticone, Nitti e la Grande Guerra (1914-1918), Milano 1961, ad ind.; L. Albertini, Venti anni di vita politica, II, L'Italia nella guerra mondiale, 2, Dalla dichiarazione di guerra alla vigilia di Caporetto (maggio 1915 - ottobre 1917); 3, Da Caporetto a Vittorio Veneto (ottobre 1917 - novembre 1918), Bologna 1951-53, ad indices; Id., Epistolario 1911-1926, a cura di O. Bariè, II, La Grande Guerra, Milano 1968, ad ind.; Id., I giorni di un liberale. Diari 1907-1923, a cura di L. Monzali, Bologna 2000, ad ind.; O. Malagodi, Conversazioni della guerra 1914-1919, a cura di B. Vigezzi, II, Dal Piave a Versailles, Milano-Napoli 1960, ad ind.; S. Sonnino, Carteggio, a cura di P. Pastorelli, 1914-1916, Bari-Roma 1974; 1916-1922, ibid. 1975, ad indices; F. Barbagallo, Nitti, Torino 1984, ad ind.; G. Rosoli, Il "conflitto sanitario" tra Italia e Argentina del 1911, in L'Italia nella società argentina, a cura di F.J. Devoto - G. Rosoli, Roma 1988, pp. 288-310; D. Rossini, Wilson e il Patto di Londra, in Storia contemporanea, XXII (1991), pp. 473-512; F. Grassi Orsini, La diplomazia, in Il regime fascista. Storia e storiografia, a cura di A. Del Boca - M. Legnani - M.G. Rossi, Roma-Bari, 1995, pp. 277-328; L. Saiu, Stati Uniti e Italia nella Grande Guerra. 1914-1918, Firenze 2003, ad ind.; F. Grassi Orsini, La diplomazia italiana agli inizi del secolo XX, in Verso la svolta delle alleanze(, a cura di M. Petricioli, Venezia 2004, pp. 97-152.