MANZINI, Vincenzo
Nacque a Udine, il 20 ag. 1872, da Giuseppe e da Angelina Corner. Compì gli studi universitari a Ferrara dove si laureò in giurisprudenza. Avvocato penalista (iscritto all'Albo fino alla morte), ottenne la libera docenza in diritto penale; divenne straordinario di diritto e procedura penale il 1° febbr. 1898 (ordinario dal 1° febbr. 1902).
Nel 1904 gli fu conferito il premio reale dell'Accademia nazionale dei Lincei per le scienze giuridiche e politiche per il Trattato del furto e delle varie sue specie (Torino 1905).
Nel corso della carriera accademica il M. insegnò nelle Università di Ferrara, Sassari, Siena, Torino, Pavia, e ottenne infine (16 dic. 1920) il ruolo stabile di 1ª classe a Padova, dove tenne per incarico anche gli insegnamenti di storia del diritto italiano e di legislazione del lavoro nella facoltà di giurisprudenza e di diritto militare presso la facoltà di scienze politiche. Iscritto dal 3 genn. 1925 al Partito nazionale fascista (PNF), fu preside di giurisprudenza per due anni, a far data dal 1° genn. 1931; nel 1938 fu chiamato a ricoprire la prima cattedra di procedura penale a Roma, ma vi rimase solo un anno, rientrando a Padova a decorrere dal 29 0tt. 1939; nell'ateneo patavino gli fu conferito, il 10 marzo 1943, il titolo di professore emerito.
Il M. fu anche membro del Consiglio superiore forense, nel 1929, e della commissione centrale per gli avvocati e i procuratori, nel 1934 e nel 1939; fu, inoltre, socio corrispondente del R. Istituto lombardo di scienze e lettere e socio residente del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti; membro dell'Accademia dei Fisiocritici di Siena e, dal 15 luglio 1935, accademico dei Lincei. Sposato con Maria Nadigh, da lei ebbe due figli, Lucio e Teresa.
Il M. morì a Venezia il 16 apr. 1957.
Figura di primo piano della scienza criminalista italiana, fornì, con la sua ampia produzione scientifica, un contributo decisivo al definitivo consolidamento di quell'indirizzo tecnico-giuridico (del quale fu "sommo sacerdote" secondo la definizione di A.A. Calvi, Ugo Spirito criminalista. Riflessioni sulla terza edizione della "Storia del diritto penale italiano", in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, III-IV [1975], p. 823), proposto quale superamento della dicotomia ottocentesca delle scuole "classica" e "positiva", sclerotica e oramai profondamente in crisi (V. Manzini, La crisi presente del diritto penale. Discorso inaugurale per l'apertura dell'a.a. 1899-1900 nell'Università di Ferrara, ora in Id., Scelta di scritti minori, Torino 1959, p. 309; vedi anche Id., La concezione giuridico-positiva del diritto penale, in Riv. penale di dottrina, legislazione e giurisprudenza, XXXIII [1907], pp. 393-407; Società italiana per gli studi di diritto penale. Programma, ibid., XLVI [1920], pp. 352-356, con A. Rocco).
L'indirizzo tecnico-giuridico propugnato dal M. si caratterizza per l'esclusione dall'orizzonte degli interessi del giurista di qualsivoglia elemento di valutazione estraneo al sistema positivo dei precetti e delle sanzioni: la dottrina dei delitti e delle pene, in quanto scienza giuridica, non può varcare i limiti di formazione e di applicazione delle norme di diritto, che debbono costituire l'unico specifico oggetto delle sue elaborazioni (V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, 3ª ed., Torino 1950, I, pp. 4 s., 13-17, 68-70). Il percorso definitorio della dogmatica tecnico-giuridica procede, nel M., attraverso una serrata disamina dei "distinguo" da doversi elevare rispetto agli approdi speculativi delle scuole tradizionali, accusate, la positiva e la classica, rispettivamente di esasperazione del materialismo la prima - sì da confondere indebitamente il giusto con l'utile e annichilire il diritto penale, in danno di ogni considerazione per il problema della giustizia, nella direzione del solo relativismo statistico -, e di eccesso di spiritualismo la seconda - sì da cedere a una deriva metafisica sino alle conseguenze di una sorta d'identificazione della giustizia col divino, quasi ad attribuire ai precetti penali una caratterizzazione di rango religioso -; con l'effetto sostanziale, in entrambi i casi, di determinare una fatale distrazione del giurista dal tema teorico di suo primario interesse, vale a dire la giustizia dell'ordinamento delle norme positive. Tuttavia, nonostante il percorso di consolidamento dell'indirizzo proceda attraverso una chiara attenzione teoretica per i limiti e le potenzialità del retroterra concettuale delle scelte dell'ordinamento positivo (al punto che larga parte della dottrina ascrive il M. fra gli inconsapevoli sostenitori dei dettami della scuola classica, in particolare per quanto attiene alla limpida adesione al dogma della libertà del volere nell'azione delittuosa, avverso ogni riconoscimento giuridico del determinismo sensista), nel M. assistiamo a un categorico, sprezzante rifiuto per ogni forma di riflessione filosofica attorno al diritto (paradigmatico il tenore dell'intestazione dei nn. 3, 4, del paragrafo 21, cap. 1, Trattato, cit., che recitano Inutilità giuridica delle indagini filosofiche e Danno della filosofia al diritto penale), la quale, lungi dall'essere d'ausilio al giurista, in realtà lo allontana da quella "base di dati certi e precisi, capaci di apprestare un sicuro e obiettivo fondamento all'indagine sulla quale deve costruirsi la scienza del diritto" (ibid., p. 8).
Tale percorso di ricusazione di ogni riflessione filosofica attorno allo studio del diritto, seppur certamente comprensibile nella temperie culturale di profonde "tendenze antifilosofiche della giurisprudenza" (F. Gentile, Il _ posto della filosofia del diritto nel corso degli studi di giurisprudenza, in Giurisprudenza italiana, CXXXXIV [1992], vol. 4, col. 430) dell'epoca - quella del dominio speculativo della filosofia idealista, che portando con sé la pretesa di contestare, con distacco, qualsivoglia tratto di scientificità in capo allo studio del diritto, aveva ingenerato nei giuristi tecnici una comprensibile diffidenza e avversione nei confronti della riflessione filosofica in genere -, non solo è stato additato di inconfutabili tratti di contraddittorietà, essendo quello del metodo il "punto più visibile d'interferenza tra giurisprudenza e filosofia" (G. Maggiore, La dottrina del metodo giuridico e la sua revisione critica, in Riv. internazionale di filosofia del diritto, VI [1926], p. 373), ma ha condotto, talvolta, ad approdi dottrinali finanche mortificanti; basti riflettere, a questo proposito, circa l'involuzione del pensiero del M., per esempio, attorno al tema della pena di morte, fieramente avversata in gioventù e poi invece sostenuta con decisione, in nome della legge positiva e delle necessità pratiche (La pena di morte nel nuovo diritto penale italiano, Padova 1930), nonché a quello della presunzione d'innocenza dell'imputato fino a condanna definitiva, anch'essa originariamente difesa, e successivamente (a far data dal Trattato di procedura penale italiana [Milano-Torino-Roma 1914] e nelle opere successive) attaccata e derisa con atteggiamento ai limiti del demolitorio.
Questa evoluzione della dogmatica penalistica del M. è fuor di dubbio ascrivibile anche al contesto storico e istituzionale di riferimento; il M. è stato certamente giurista "di regime" e come tale inevitabilmente sensibile alle esigenze di controllo sociale che la scienza giuridica doveva esprimere, rispetto alla struttura tendenzialmente autoritaria dell'ordinamento giuridico; peraltro, volendo stilare un rapporto comparatistico di interferenze e intersezioni tra l'autorità intellettuale della scienza penalistica del M. e le esigenze autoritarie del regime, appare chiara e incontestabile la prevalenza della prima sulle seconde.
Basti riflettere, a tal proposito e a mero titolo d'esempio, circa la strenua difesa degli ebrei, spesa dal M. nella sua trattatistica giuridica sugli omicidi rituali nella storia del diritto penale (La superstizione omicida e i sacrifici umani, con particolare riguardo alle accuse contro gli ebrei, Torino 1925; 2ª ed., Padova 1930), giusto negli anni nei quali si andava consolidando una corposa campagna antisemita, fondata proprio sulle cosiddette accuse "di sangue", dal M. demolite, anche polemicamente nei confronti dei silenzi del pensiero razionalista, con grande rigore storico-giuridico (cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1993, p. 38).
Ma, soprattutto, dev'essere ricordata la singolare fortuna del contributo del M. all'opera di codificazione, sia sostanziale sia processuale, che ha retto il confronto con l'avvento delle istituzioni democratiche, pur essendo maturata in una temperie istituzionalmente autoritaria. Nella redazione del codice penale del 1930 - cui il M. partecipò attivamente al fianco di altri illustri giuristi italiani e in particolare di Rocco -, infatti, il principio di legalità, caposaldo del diritto penale liberale, non è mai stato messo in discussione, e con esso il canone dell'imputabilità penale e dei suoi presupposti psichici; lo stesso dicasi per la fondazione retributiva della pena e per l'imprescindibilità del rapporto di proporzione sanzionatoria rispetto alla gravità del reato, nell'alveo del modello teorico del diritto penale del fatto; ciò nonostante in quegli anni altri chiedessero alla scienza giuridica penalista "cose diverse e pericolose" (Bettiol, 1966, p. 895).
Tali quelle contenute nel progetto Ferri, del 1921, di riforma del codice penale, che con la pretesa di negazione della libertà del volere, della colpevolezza e della retribuzione sanzionatoria, in funzione del trionfo del determinismo, della pericolosità sociale e delle misure di sicurezza, si era prospettato quale strumento normativo potenzialmente molto rischioso, nella direzione di una degenerazione totalitaria del sistema sanzionatorio criminale. Come ricorda Bettiol, fu proprio la reazione ferma e intransigente della scienza giuridica dell'epoca, della quale il M. era certamente capostipite, a costringere il potere politico a un ripensamento, nella direzione della condivisione del modello codicistico vigente.
Parimenti, il codice di procedura penale del 1930, del quale il M. fu "unico" artefice intellettuale (con il provvedimento ministeriale di nomina del 6 dic. 1926 nessuna commissione gli fu affiancata), pur nella sua - istituzionalmente e storicamente inevitabile - adesione al sistema inquisitorio, appariva certamente pregevole sotto il profilo tecnico, nonché gravido di importanti connotazioni liberali, sì da risultare per lunghi anni compatibile con la successiva Carta costituzionale repubblicana. Il contributo più alto offerto dal M. all'universo del diritto e della procedura penale, tuttavia, resta quello dei Trattati, i quali, tradotti in più lingue, costituiscono, a tutt'oggi, strumento di conoscenza scientifica di grande valore.
Fonti e Bibl.: Padova, Università degli studi, Centro per la storia dell'ateneo, V. M., stato di servizio; G. Bettiol, Il problema penale, Trieste 1945, pp. 11-70; G. Maggiore, A. Rocco e il metodo "tecnico-giuridico", in Studi in onore di A. Rocco, I, Milano 1952, pp. 11-15; G. Bettiol, Aspetti politici del diritto penale contemporaneo, Palermo 1953, pp. 1-35; R. Pannain, Dies acta. V. M., in Archivio penale, XIII (1957), pp. 292-295; A. Favino, Un grande penalista, ibid., pp. 295 s.; R. Dell'Andro, Il dibattito delle scuole penalistiche, ibid., XIV (1958), 1, pp. 173-178; A. Vardanega, Uomini che non l'hanno mai conosciuto vivono ogni giorno a colloquio con lui, in L'Avvenire d'Italia, 18 apr. 1959; S. Ranieri, V. M. e il suo "Trattato", in La Scuola positiva, n.s., XVI (1962), pp. 168-171; G. Bettiol, Dal positivismo giuridico alle nuove concezioni del diritto, in Scritti giuridici, Padova 1966, II, pp. 858-864; Id., V. M., ibid., pp. 893-895; P. Nuvolone, V. M. e la scienza del diritto penale, in L'Indice penale, XVII (1983), p. 5; G. Bettiol Sul problema della fattispecie penale, in Scritti giuridici. Le tre ultime lezioni brasiliane, Padova 1987, pp. 1-11; Id., Sul problema della colpevolezza, ibid., pp. 13-27; A. Berardi, V. M. Del metodo giuridico, Napoli 2003; Novissimo Digesto italiano, X, Torino 1964, s.v.; Enc. filosofica, V, Roma 1979, sub voce.