Vincenzo Monti, Opere – Introduzione
I
In una lunga lettera del Monti diciannovenne all’abate Girolamo Ferri, suo maestro di eloquenza a Ferrara, si legge un energico appello che ci lascia intravedere le malinconiche prospettive future, se il giovane non fosse riuscito a fuggire dalla natia Fusignano:
Io... mi trovo intricato; o risuscitare ed accrescere il disgusto della madre col seguitar medicina, o tradir me stesso e sacrificarmi per studiar legge. Se mio padre fosse capace d’intendimento, non avrei paura; ma la dittatura è passata in mano e potestà dei fratelli, che hanno intenzione risoluta (avverta bene questa prepotenza) di levarmi da Ferrara dove non ho più la compagnia del fratello, e forse e senza forse lasciarmi e confinarmi in casa ad attendere al vantaggio delle cose domestiche, con dar bando ai libri (i quali hanno minacciato di abbruciare, capacissimi di eseguirne il disegno) e girare continuamente su e giù sulla schiena di un cavallo. Non mica per bisogno, perché, lode a Dio, la mia casa ha quanto basta per sguazzare in charitate Domini, ma a castigarmi per non voler io fare a modo loro. Insomma, sono una massa di matti, ed io matto più di tutti se non mi liberassi a qualunque costo dalle loro soperchierie. Signor Maestro, adesso parlo sul sodo, e dopo averci pensato sopra un poco. Se ella scopre per accidente un nicchio, io sono in caso d’entrarvi dentro a piè pari, e in qualità di quel che si vuole, e presso chiunque. In un baleno non posso esser preparato neppur io, ma metterò per impegno alle strette tutto il debole mio spirito per farla in barba ai miei tiranni. Del resto poi, non vi sarà più giustizia in questo mondo?
Nella sua famiglia patriarcale di contadini ricchi e, altro che matti, tutti intesi ad amministrare ed accrescere la loro roba, il Monti non sembrava dunque disposto a campare una sua vita di cadetto, specie dopo che aveva respirato l’aria cittadina. La letteratura, per nulla apprezzata dai suoi, poteva essere l’unico mezzo per conquistarsi una certa indipendenza, che egli concepiva con occhio positivo e che trattava, parlando «sul sodo», con una risolutezza di paesano deciso ad inurbarsi ad ogni costo. Ferrara però doveva essere la meta immediata, non definitiva. Ma qui intanto riusciva subito a conquistarsi rinomanza e simpatie. Le glorie ferraresi erano allora Alfonso Varano e Onofrio Minzoni, sopravvivenze di un gusto retrivo e controriformistico, nonostante le pretese di novità. Questi pii letterati sembravano volersi ricordare soprattutto del padre Segneri, di Savonarola e di Dante, e le loro prediche in endecasillabi erano assai celebrate e contrapposte alla letteratura moderna, pericolosa di galanterie e filosofemi. A questo gusto particolarmente diffuso nello stato della Chiesa il giovane Monti pagò il suo tributo con parafrasi bibliche e con una elegia De Christo nato, che mandò in visibilio il Tommaseo, ma che in verità non si solleva dalle zuccherose maniere del seminario:
Ah! saltem liceat frigenti in stramine nudum
pectoris afflatu te refovere meo.
Et sexcenta tuis me figere basia labris,
atque oculis dulces dicere blanditias.
Donec victa levi declinans lumina somno
materno recubes molliter in gremio.
Tra questi versi giovanili (quasi tutti poi rifiutati), di gran lunga i più scolastici sembrano quelli su temi storici, mitologici, evangelici. Ma l’attenzione del Monti era concentrata ad assimilarsi certe frasi ad effetto che avevano costituito il successo del Minzoni, certa bravura figurativa del Cassiani. Molto lo attraevano le grazie rococò del Savioli, anzi, qui metteva più brio nell’imitazione, e consenso di spirito. Così, tra il profano e il sacro, faceva il suo ingresso in Arcadia: Autonide Saturniano. I versi di genere anacreontico e scherzoso predominavano durante gli anni trascorsi nella venerea città estense. Nel capitolo Ad un amico che prendeva moglie c’è un significativo omaggio a Boiardo lirico (del quale il Monti dimostra una conoscenza allora non comune). Lo imitava inneggiando all’Amore, dio supremo dell’universo, e uscendo nella invocazione: «Datemi a piena man rose e viole». Ma subito dopo non esitava a riportar di peso, da un capitolo del Minzoni, alcune scipitaggini sui figli nascituri, burlescamente messe in bocca al mago Merlino che oracoleggia nel fondo di una caverna. La caverna serviva per dare un certo colorito fosco da «visione» varanesca. E il tutto si concludeva in un:
Sai che dirò? che nella man di Dio
stan le vite, e se il pugno ei non rallenti,
trarle quaggiù non speri il tuo desìo.
Un pasticcio. Ma nel suo gusto più adulto l’umanesimo del Monti non si mostrerà incline a uno sconcertante eclettismo?
Intanto certi scherzi da salotto e il suo fascino personale dovettero ingraziarlo presso le sue prime protettrici, la vecchia marchesa Trotti Bevilacqua e la contessa Cicognini. C’è una canzonetta, Nuovo amore, in cui fa le prime prove, sia pure con prolissità e qualche sguaiataggine, il suo linguaggio destinato ad essere più di narratore e di oratore, che di lirico:
Là ’ve d’acque onusto e grosso
il Lamon col corno incalza
il bel ponte che sul dosso
le due torri al cielo innalza,
entro un chiostro di ciarliere
solitarie monachelle,
ch’ognor stan su l’uscio a bere
del bel mondo le novelle,
cheto cheto Amor celosse
meditando un tradimento.
Né stupir che ardito ei fosse
d’appiattarsi colà dentro.
Anche in mezzo a sacre mura
ei di freccia a trar si pone,
né si piglia più paura
di salteri e di corone.
Veli e bende spesso assetta
alle vergini romite,
ché non son moda e toletta
or dai chiostri più sbandite.
Sta lontan dalle vegliarde
che lo guardano in cagnesco;
ma nel fianco investe ed arde
quelle poi c’han volto fresco.
Ad ognuna egli provvede
qualche amabile profano:
mette lor, se l’uopo il chiede,
penna e carta nella mano.
Di piacer con lor favella,
di diletti e vanità,
invocando invan la bella
già perduta libertà.
Fra li salmi e le novene
temerario il naso ficca,
ed a tutte su le schiene
la tristezza e il tedio appicca.
Va con esse al letto, e dorme
dolci sogni lusinghieri;
poi scompiglia in varie forme
i pudichi lor pensieri,
che languenti e smorti in faccia
fuggon via, quai calabroni
che il villan col foco scaccia
dagli antichi covaccioni.
Innamoratosi di una «bella toscanella» compagna di sua sorella nel convento di Santa Trinita a Firenze, il Monti, come si vede, si divertiva su questa passioncella per l’educanda, non senza spregiudicatezza e distacco, per far figura di uomo di spirito. Ma il primo componimento che stampò, sia pure a costo di dare un dispiacere al padre e all’avaro consesso familiare, fu La visione d’Ezechiello (1776), per Francesco Filippo Giannotti celebre predicatore di Ferrara. Egli mirava sempre «al sodo», e forse già pensava di fare il salto più grosso e andare a Roma. Ci voleva un tema sacro, che facesse apparire l’autore degno di considerazione ufficiale. Un tema biblico, e terzine alla maniera più applaudita. Tuttavia le Visioni del Varano, aride e concettose, gli offrono solo un pretesto di imitazione, in questo o quel particolare: l’insieme è tutto diverso. Affatto indifferente ad ogni problema religioso e morale, il giovane puntava sulle descrizioni, sugli effetti pittoreschi, alternando il sereno e il tempestoso, il macabro e il piacevole, gli «algenti scheletri» e la «fresca erbetta», con una abilità ignota all’austero e un po’ catastrofico modello. Del resto egli si proponeva di celebrare un predicatore: la Bibbia e il Varano, Dante e Petrarca gli offrivano le reminiscenze per una ben variata orchestrazione. Tutta la visione era un pretesto per simulare un’ispirazione inesistente:
ed io da tergo intanto
voce sentii, che mi chiamò per nome.
– Scrivi (gridò) quel che tu vedi. – ...
In un campo d’insepolte inaridite ossa appare un vecchio a cui un portentoso angelo infonde celeste eloquenza. Ma il giovane ci risparmia la predica che il buon Varano ci avrebbe invece coscienziosamente verseggiato. Monti scorcia, anzi abolisce la predica nei commenti laudativi, che erano il fine adulatorio da cui era mosso. Anzi, di questo fine il lettore quasi non si avvede, distratto da quella successione di turbini, tra nuvolosi paesaggi squarciati da lampi che illuminano cherubini e croci. «E quel che vidi, io scrissi». A ventitré anni il visivo, l’immaginoso, il sonoro erano già per lui un patrimonio tecnico che valeva più d’una porzioncella di terra a Fusignano e a Maiano. Conscio di queste virtù, divorato dall’ambizione, ormai aspirava a successi sempre maggiori. E nelle ultime vacanze di Capodanno passate in campagna (1778) scriveva alla marchesa Bevilacqua (in Arcadia Climene Teutonica) certe terzine ariostesche e libertineggianti, dove si rivela la sua insofferenza, la sua irrequietezza, il suo vero animo che non era certo di un bigotto, come poteva sembrare dalla Visione di Ezechiello e dalle altre due che scrisse subito dopo, con tutta l’ipocrisia richiesta e conveniente:
Passo i giorni illibati, e come giglio
la coscienza ho bianca, e se il volessi,
non saprei come porla in iscompiglio.
Lunghe le orazion, devoti e spessi
i digiuni: e così fo che s’emende
ogni grave peccato ch’io commessi.
Sto sempre in casa; e intanto o che s’imprende
a dir dei salmi, o che della Madonna
la coroncina dalle man mi pende.
Ma scherzava troppo per non esser ben sicuro di sé. Ormai sapeva che ce l’avrebbe fatta. Il padre si era piegato. Lo mandava a Roma e per tre anni gli passava un assegno di duecento scudi: dopo di che poteva tornare a casa, senza pretendere la divisione e rassegnandosi a fare il figlio di famiglia, se la prova fosse fallita. Ci si può figurare con quale spirito il Monti, partendo per Roma il 16 maggio 1778, si disponesse alla sua prima, decisiva avventura.
II
Eccolo nella capitale del mondo cattolico, dove la gloriuzza conquistata a Ferrara appariva ben povera cosa, e c’erano più poeti in Arcadia che ranocchie a Fusignano. Pure, non passa un anno che già questo ignoto pubblica un suo Saggio di poesie, edito a Livorno sotto i torchi dell’Enciclopedia: un volume ben stampato, senza la minima aria di timidezza, anzi con una certa ostentazione di modernità, di letterato à la page. Colpisce innanzi tutto la serie delle prose: su trentasei componimenti in verso, sette dedicatorie. L’autore ci teneva a sfoggiare le sue protezioni, le sue amicizie non solo provinciali, ma anche romane e perfino parigine. Si pensa per contrasto al noviziato di Ripano Eupilino, alla presentazione con la quale il Parini offriva il suo libro al lettore, chiudendo il rude commiato con uno «state sani». Ma l’Arcadia di Roma era alquanto diversa da quella milanese. E Autonide Saturniano, fin dalla prima volta che si era presentato in pubblico, non pensò affatto a nascondere tutti i titoli che poteva ostentare: egli era l’Affidato di Pavia, il Filopone di Faenza, l’Accademico imperiale di Rovereto e (nota bene) l’Intrepido di Ferrara. E i suoi protettori? La vecchia Climene, ma subito accanto a lei il grande archeologo e dittatore della cultura romana Ennio Quirino Visconti, il patrizio ferrarese Francesco Marescalchi (che poi fu il suo maggior protettore durante il periodo napoleonico), e Monsieur Jean Ferry, alias il cosmopolita Giovanni Ferri di Fano, residente a Parigi e ormai più infranciosato che italiano. Queste prose, vero capolavoro di diplomazia letteraria, sono anche da studiare come la prima poetica del Monti. Intanto egli ci fa sapere subito che Climene l’ha prescelto a successore del gran Comante, cioè d’Innocenzo Frugoni. E qui una professione di modestia, altrettanto sincera quanto gli incensi turibolati ai contemporanei più conosciuti e in preferenza ai provinciali: come il grande Odinto, l’autore delle «portentose Visioni», e l’abate Minzoni a cui è riservata una dedica apposta dove, tra un elogio e l’altro, gli si confessa con la miglior buona grazia del mondo il furto poetico dei versi burleschi, di cui si è già detto. Per colmo di civetteria si leggeva in fondo al volume questo Avviso finale:
Tutti questi errori di ortografia vanno a conto dello stampatore. Uno solo se ne ascriva a conto mio, quello cioè di aver per inavvertenza lasciato correre la stampa della Canzonetta posta alla p. 94 [Alla fanciulla inferma], la quale non doveva aver luogo nella presente Raccolta, perché frutto d’una età assai giovanile, in cui troppo facilmente si usurpano gli altrui versi e le altrui idee per mancanza delle proprie. Vizio per altro di cui molti non guariscono mai.
Intrepido, veramente! Ma potete dirgli quel che volete, egli è così transigente, così accomodante che saprà sempre far di tutto per non riuscire antipatico a nessuno. La sua forza era tutta lì: sempre disposto al compromesso e alle più difficili conciliazioni. Stampa all’insegna dell’Enciclopedia, ma ad ogni buon fine ha messo nella raccolta quell’elegia del seminario e altre cose di argomento sacro. «Nemico delle fantasie malinconiche», non esita a compiacere il gusto di umanista attardato dell’abate Vannetti di Rovereto, «giovane di mirabili talenti». A sua richiesta scriveva elegie e gli riservava una dedicatoria tutta per lui, anche perché i giovani vanno coltivati. Non trascurava l’opinione né degli ignoti né degli illustri. Minzoniano col Minzoni, si protestava sviscerato metastasiano in una dedica all’«inimitabile» poeta cesareo (che era proprio agli antipodi del suo gusto, ma piaceva tanto a sua Santità, il comprovinciale Pio VI Braschi...).
E che cosa erano i versi ? Non saremo più indulgenti del poeta, che qualche tempo dopo ne rifiutò la maggior parte. Anche nel genere che poteva sembrare più nuovo (e che, con la divulgazione di Young, cominciò a diventare di moda), quello elegiaco, è da osservare che il nostro Saturniano caricava troppo le tinte per poter ingannare il lettore. E poi si trattava di cavoli riscaldati, versi già composti a Ferrara e ora rimanipolati. Ma era bello l’attacco di alcune terzine intitolate Entusiasmo malinconico:
Dolce de’ mali obblìo, dolce dell’alma
conforto se le cure egre talvolta
van de’ pensieri a intorbidar la calma,
o cara Solitudine, una volta
a sollevar, deh! vieni i miei tormenti,
tutta nel velo della notte avvolta.
Ma chi può mai credere al finale fosco e tragediante? Gli unici versi dove lo possiamo prender sul serio è quando scherza: la deliziosa Canzonetta A Fille (Il consiglio), che insieme con la lettera dedicatoria al Ferri esprime uno degli aspetti più autentici del giovane Monti. Nella prosa dichiara le sue preferenze per l’amore alla francese, tanto più comodo dell’amore all’italiana. E svolge una sua teoria, piaciuta probabilmente a Stendhal che, non a caso, proprio su di un esemplare di Monti ha abbozzato il De l’amour, dando la sua preferenza romantica all’amore all’italiana, l’amour-passion. I versi del Monti s’ispiravano invece al più settecentesco amour-goût. «Quel volteggiare» ha scritto con grande finezza il Flora «destramente sulle scabrose proposte; e quella non so se ingenua o scaltra onestà, con la quale il poeta insinua di che natura è il suo amore, disposto a tante concessioni: tutto è bene accordato al motivo generatore della canzonetta». Ma non solo la strofa in cui accenna al suo viso fosco pallido e infelice, l’intera lirica è detta con un tono di «declamazione ironica». L’ironia era comune al genere e al secolo: tutto di Monti era il declamato, la volubilità del canto sopra un fondo di prosaica fermezza. Cantava Fille e cantava se stesso contemporaneamente: le immagini dei due amabili e disponibili personaggi fanno tutt’uno:
Quel vivace tuo talento,
qualche volta un po' incostante,
che ti fa con bel portento
presto irata e presto amante.
Al volume non mancò il successo. Faceva colpo tanta varietà d’interessi e tanta pieghevolezza d’ingegno, piaceva quell’intrepidezza mista a tanta prudenza. Le «Effemeridi letterarie» di Roma lodarono specialmente (e naturalmente) la Visione d’Ezechiello. Il «Giornale dei letterati» di Modena, il giornale del Tiraboschi, dedicò al libro sessanta pagine, lodandolo soprattutto perché si «opponeva alla corrente impetuosa di uno scrivere pestilenziale che inondava l’Italia» e prometteva di difendere il Monti con energia, se qualcuno avesse osato «per avventura dargli la taccia d’essere arido e vuoto di filosofia». La recensione era stata ispirata dal Monti stesso attraverso il Vannetti amico del Tiraboschi, ma tutt’altro che amico di novità in letteratura. Il Monti sapeva bene quel che voleva e quel che faceva. Ognuno di quei nomi che aveva citato nelle prose era stato messo, nonostante il tono scanzonato ed estemporaneo, con l’abilità calcolatrice di un giocatore di scacchi. Citava Montesquieu, Voltaire epico, accennava in un verso alla Julie rousseauiana, ma non mancava di scagliarsi contro la «filosofaglia d’oltre monti» che guardava con disprezzo al Vangelo. E quando sfoggiava la sua predilezione per gli «anacreonti della Senna» (in particolare quelli che, libertini in giovinezza, erano finiti bigotti in vecchiaia), non scriveva a caso, anche se scriveva ad orecchio. Era tutta una indiretta e perciò tanto meglio diretta adulazione al ministro di Luigi XVI a Roma, quel cardinale De Bernis che si pseudonominava Bernard, futuro coordinatore di tutti gli intrighi controrivoluzionari. Il Monti lo salutava come «nuovo ma più fortunato precettore dell’arte di amare». Quale aura di beato ancien régime spirava in quella Roma di Pio VI, dove il papa romagnolo, cosi gioviale e così amante della sua bella persona, era considerato dai viaggiatori stranieri (e forse non solo da loro) un «commediante»! Non è da escludere che il Monti sognasse già un viaggio a Parigi su le orme di quel cavalier Marino le cui « lucciole » tanto affettava di aborrire, ma che, col Metastasio, rappresentava per lui un esemplare modello di poeta augusto e cesareo, a cui ambiva profondamente di somigliare. In apparenza sembrava e si dichiarava soddisfatto:
Io d’Elicona abitator tranquillo,
solo del rezzo d’un allôr contento,
e d’un fonte che dolce abbia il zampillo,
non mi rattristo se per me non sento
muggir mille giovenche, e la campagna
rotta non va da cento aratri e cento.
Non mi cal che di Francia o di Brettagna
sul lido American prevaglia il fato,
e che tutta di guerre arda Lamagna.
Tuttavia il pacifico pastorello non nascondeva la sua energia: ben capace di menar la penna (e la menò sempre con vigore) contro chiunque volesse sbarrare il passo alla sua carriera, lottatore mai disposto a darsi per vinto quando si trattava di difendere il partito di se stesso e la bandiera della sua gloria:
Corbi di Pindo, che d’invidia macri,
disonor del santissimo Elicona,
mordete i cigni con rostri empi ed acri,
come il villan desìo vi punge e sprona,
tentate indarno di strapparmi i sacri
lauri che al crin mi fanno ombra e corona.
So che inerme mi dite, e sol dell’arco,
sol della lira altrui sonante e carco.
Ma se inferma è l’etade ed il consiglio,
il tergo è armato di robuste penne,
né fia ch’indi le svella il vostro artiglio,
che temerario a minacciar mi venne...
Era questo l’intrepido ferrarese venuto a Roma (come ha detto argutamente un biografo) «non per vedere, ma per mostrarsi». E che le sue non fossero millanterie, lo provarono i versi che gli decretarono subito il trionfo e gli assicurarono la permanenza nell’urbe per circa vent’anni. Capitava in un momento che la vita e la cultura romana sembravano in succhio e in ripresa: rinnovamento edilizio, scavi archeologici, bonifiche delle paludi pontine. Ma che cos’era questa vita e questa cultura se la paragoniamo a quella di Milano e di Napoli, dove il Terzo stato italiano, rispetto alle vecchie classi feudali dimostrava, pur infrenato dal riformismo dei principi, un autentico vigore? Lasciamo stare quel superbo scatto di bile del conte Alfieri, dovuto a disillusioni letterarie: «Vasta insalubre region, che Stato – ti vai nomando...». Leggiamo le impressioni di uno che era venuto a Roma per vedere e non per mostrarsi, «per vedere la Roma che resta, non quella che passa», epperò sapeva comprenderla con l’occhio aquilino del genio. In questa città cosmopolitica la cosa che più colpì il Goethe, proprio dopo la rappresentazione dell’Aristodemo di Monti, fu la meschinità dell’ambiente letterario: «I molti piccoli circoli ai piedi di questa regina del mondo mi hanno un po’ l’aria del provinciale». Innumerevoli i valentuomini, ma si tenevano «l’uno dall’altro in disparte, per non so qual diffidenza pretesca». «Anche il movimento letterario non agevolava alcuna relazione e le novità letterarie di solito non avevano importanza». Si avvertiva un’atmosfera stagnante in modo particolare dopo i giorni agitati del Carnevale, dopo un’artificiosa allegria: «È spiacevole aver la sensazione che a tutta questa gente la gioia vera sia estranea e che le manchi il denaro per dar la stura a quel po’ di divertimento che ancora potrebbe procurarsi. I gran signori vivono economicamente e si tengono indietro, la borghesia è povera, il popolo indolente. In questi ultimi giorni c’è stato un baccano inverosimile, ma di letizia sincera nemmen l’idea. Il cielo, inesprimibilmente sereno, guardava queste stravaganze sempre pieno di nobiltà e di purezza».
Queste righe di Goethe s’incidono con lapidaria eleganza settecentesca su questa società romana alla fine del secolo, su questo vecchio regime senza Terzo stato cosciente e combattivo. Eppure tutti avevano l’impressione che fosse una società piena di vita. Papa Braschi, continuando la politica dei suoi predecessori, dava un certo impulso superficiale e si circondava di fasto, sicché tutti parlavano di un nuovo Rinascimento. Da un punto di vista culturale, questo preteso Rinascimento si sviluppava sotto l’insegna platonica del bello ideale che conciliava un’esanime forma antica a un generico ed esausto contenuto cattolico. Non erano più i tempi in cui fu fondata l’Arcadia, quando per l’ultima volta la Chiesa riuscì a dare un indirizzo unitario alla cultura italiana. Ora si trattava di organizzare la resistenza all’avanzata della cultura moderna: e la linea era stata scelta sui ruderi antichi, in nome di una tradizione rinascimentale epurata e corretta. Winckelmann e Mengs, l’abate Zanotti e l’abate Milizia furono i teorici di questo classicismo o piuttosto controclassicismo, archeologico e platonizzante, destinato a edulcorare il neoclassicismo di contenuto illuministico e a ostacolare il progresso verso l’arte moderna che fuori d’Italia era guidato da Lessing e da Diderot, mentre i minori illuministi italiani partecipavano con tutto l’impegno di cui erano capaci. A confondere le idee, non mancavano i gesuiti di sinistra come il Bettinelli, che auspicava Roma come centro di cultura italiana, con blande riforme e illuminato mecenatismo. Ma l’indirizzo cosmopolitico era predominante. Si contrapponeva opera ad opera, autore ad autore, nazione a nazione. Rolli era celebrato come traduttore di Milton, e si applaudiva all’ex frate Aurelio Bertòla che traduceva Gessner e Klopstock e si faceva propagandista della letteratura alemanna. L’irlandese Sherlock amico del Monti, come gli fu amico l’abate Bertòla, correva la penisola esaltando Shakespeare. Inglesi e Tedeschi erano contrapposti ai Francesi. Il deista Rousseau era preferito ai materialisti. Al gusto epicureo e libertino si voleva sostituire il gusto idillico, elegiaco e sepolcrale, che andò prevalendo quando Alessandro Verri, strappato dall’ambiente illuministico di Milano, cominciò a scrivere le sue Notti romane, ispirate dalla scoperta della tomba degli Scipioni sulla via Appia. Non era un caso se la festa dei morti (come notò il Goethe) «era nel tempo stesso la festa di tutti gli artisti di Roma».
Tutto ciò che interessava i vari circoletti accademici della capitale trova un’eco nella dedicatoria del Monti a monsignor Visconti. In queste pagine si parla più del passato e della letteratura europea che del presente e dell’Italia. L’unico avvenimento romano contemporaneo a cui il Monti può attaccarsi, riguarda l’archeologia e la scoperta dell’erma di Pericle. E se ne serve per terminare con un accorto passaggio oratorio la sua lettera. Anzi, per suggerimento di Monsignore, appena è uscito il volume, scrive la Prosopopea, quasi a riparare una grossa dimenticanza di aspirante cortigiano. Pericle non era venuto a trovare e a farsi conoscere di persona solo da un monsignore ellenizzante, ma dal papa e dal suo secolo, diamine! Visconti traduceva Pindaro: non ci voleva un’ode pindarica per celebrare i fasti di papa Braschi? Spettava anzi a Pericle stesso, come se fosse stato redivivo, di parlare e di ammettere che la sua «bella età» era «ignobile e mesta» al paragone di questa che aveva in fronte l’augusto nome di Pio. La Prosopopea fu improvvisata in due giorni. Pur nella forma misera della prima stesura, abbondante di epiteti banali e ancor pigramente ricalcata sulle parole della dedicatoria, non ci fu cosa che destasse «maggior strepito» di tutti i versi letti dal Monti fino allora in Arcadia. Roma poteva vantare il suo poeta come Milano aveva il suo Parini. Ma quest’ode su metro di canzonetta non aveva nulla a che fare col gusto pariniano. Ricca di un moto d’eloquenza tutto suo, non era una lirica che chiudeva il periodo preparatorio, l’epoca dei «saggi» poetici. Non erano i soliti versi di circostanza: Monti riusciva per la prima volta a farsi interprete di tutta l’opinione colta romana. Poi su quell’ode ritornò amorosamente, la corresse, la lucidò, la rivestì di nuovi esornativi, di sonanti nomi propri. Gli «eroi di Grecia» divennero i «forti Cecropidi», la «campagna tiburtina» divenne «il suol di Catilo», il Tevere da «biondo» fu nobilitato in «sacro». Uno dei maligni avversari di Monti disse che aveva volato sulle ali del Minzoni. Pura calunnia. Non aveva ben scritto lui quelle famose quartine dove aveva imitato Virgilio in modo affatto portentoso?: «Per me nitenti e morbidi – sotto la man dei fabbri ...». Certo dovettero sciogliersi di estetica dolcezza i cuori degli abati e dei prelati, se un secolo e mezzo dopo ancora se ne compiacque Benedetto Croce. «Mirabile di virile parchezza» giudicò il Carducci la Prosopopea. Questo proprio no: è un giudizio che mi resterà sempre un impenetrabile mistero della rettorica. Nella Prosopopea c’è, sì, l’entusiasmo per quella polverosa archeologia romana. Analizzate i particolari: invano cercherete la purezza del gusto neo-classico, l’amore per il disegno netto della strofa, dove ogni verso e ogni parola ha il suo misurato rilievo. L’argomento non ci tragga in inganno: la perorante immaginazione dello scrittore lo vede attraverso una serie di metafore e di figure, parallelismi e contrasti, personificazioni e colpi di scena. Le famose strofe rileggetele senza lasciarvi distrarre dall’onda sonora: nitenti e morbidi, volto e vigor, informi e scabri. C’è la pigrizia di una cadenza orecchiabile, ripetuta poi nella strofa successiva. Non descrive il lavoro dei fabbri, ha fretta di sorprendervi col portentoso dei risultati. E appena Virgilio non lo soccorre più con la finezza degli epiteti, si spalancano le montagne parie ed escono le gran colonne dalle rotte viscere, vuote e lievi come cartapesta pronta per uno scenario. In ciò la sfarzosa Prosopopea era davvero mirabile. Nasceva la prima delle macchine encomiastiche inventate dal Monti.
Quale coscienza aveva egli di questo suo lavoro d’artista? La poetica espressa dalla dedicatoria al Visconti riuscirebbe una povera cosa se la volessimo paragonare ai trattati letterari di Parini e di Alfieri, che sono di quegli anni. E nemmeno può esser considerata nella storia della critica settecentesca. Monti non fa che imboccare un parallelo dopo l’altro, per arrivare ai più trionfanti luoghi comuni della cultura romana, sia pure sbandierati con piglio di grande novità, da uomo che ostenta un gusto spregiudicato. Egli ci fa apparire per contrabbando ciò che era stato importato per precisa volontà e con regolare licenza dei superiori. Direi che l’importanza della dedicatoria consista nel documentare tutto l’equivoco che era a base di quel classicismo cattolico, sfibrato, edonistico, idealizzante ed estetizzante. In nome di un sublime che apparteneva alla tradizione barocca (ma veniva messo sotto l’autorità di Longino) Monti voleva conciliato Pindaro con Isaia, Omero con David. «Chi trovar vuole i difetti di un poeta, deve cercarli nell’eccesso delle qualità che ne costituiscono il carattere... Una immaginazione delicata e gentile diverrà viziosa per troppa sottigliezza e raffinamento: all’incontro una immaginazione calda e profonda eccederà nella grandezza e nel disordine delle idee». Monti sentiva che la sua immaginazione era del secondo tipo: «un fiume reale, che torbide sì qualche volta, ma sonanti e maestose porta al mare le sue onde». E se poneva la poesia biblica al di sopra di ogni altra, e gli «inni sacri» di David al di sopra dell’Iliade, non era solo per opportunismo di cortigiano papale. Era il suo gusto di neo-barocco, la sua inclinazione al maraviglioso e al portentoso che gli suggeriva nella lettera quello squarcio di eloquenza dove già maturavano gli endecasillabi della Bellezza dell'universo: «Dio, dice David, si affaccia sul caos, apre la bocca per crear l’universo, e l’universo si slancia da sé medesimo dal fondo dell’abisso; il cielo si distende come un padiglione, e risplende seminato di stelle e di pianeti... ». Il suo gusto lo faceva avvertito che bisognava ritornare a David il quale «valeva assai più di Klopstock e Milton». «Fa d’uopo esser senz’anima per non restar commosso da tante e sì belle immagini, e non comprendere la superiorità che donano a David a confronto di Omero». Lasciamo stare le giustificazioni ideologiche e pseudo-religiose di queste sue preferenze (in David, «soffia immediatamente lo spirito di Dio», mentre nell’Iliade è solo «l’uomo che scrive ed inventa»). Il maraviglioso della Bibbia lo seduce, gli suggerisce un impeto e un movimento, uno splendore di clausole, un fare maestoso che anche quando imita un classico gli fanno inventare non so quale sonorità rapita fuor del suono, oltre la parola-immagine e la parola-cosa.
Da questa poetica nasce il primo capolavoro del Monti, La bellezza dell’universo, grandioso epitalamio composto per le nozze del nipote di Pio VI. Anche qui la concezione è oratoria.
Com’è stato dimostrato, Monti impiantò la sua cantica su di un discorso accademico di Francesco Maria Zanotti, dove il platonismo classicista era conciliato con la tradizione biblica. Ma non si fermò all’abate Zanotti, risalì a Milton e a David, a Tasso e alla Genesi, ad Ariosto e a Ovidio, dovunque potesse trovare colori e forme per vestire lo schema compositivo. A un certo punto esso scompare sotto tutto quel panneggio decorativo. Un critico, lo Zumbini, osserva che «non occorre molto acume» per intendere che il Monti ha smarrito la via, e spreca una pagina di acume per sottolineare le incongruenze, senza accorgersi che l’architettura di questa, come di ogni macchina poetica del Monti, non pretendeva a nessuna solidità d’impianto ma era illusoria e provvisoria. Bisogna accettare quella precarietà in se stessa perfettamente funzionale. Certo, dove spuntano gli schemi didascalici, il canto scade subito di tono e scopri le travi che reggono la cartapesta. Il rigore razionale del gusto neo-classico che infrenava e pacava il discorso, qui è escluso dal bel principio, con quel melodioso attacco:
Vuoi tu, diva Bellezza, un risonante
udir inno di lode, e nel mio petto
un raggio tramandar del tuo sembiante?
Ed ecco: subito divinizza il suo stesso afflato, e identifica il do di petto col fiat creatore, e tu non hai nulla da obiettare, preso dal canto e dallo spettacolo. La Bellezza è ministra di luce e di portenti, e intorno a lei il mare, le selve, le campagne, i fonti divengono il «teatro» della sua grandezza. Un perpetuo commento canoro accompagna queste scenografie che si succedono senza posa. Non vi sembrano mirabili? Il cantore si maraviglierà lui per voi:
Dalle gravide glebe, oh maraviglia!
fuori allor si lanciò scherzante e presta
la vaga delle belve ampia famiglia.
Varia lo spettacolo, ma il canto, pur variando è sempre pari a sé, «numeroso» nella grandezza e nella grazia, nel grave e nell’acuto. Tutto si muove a ritmo di dignitosa coreografia: le tenebre del Caos che «s’odon le mura flagellar del mondo», le comete che «invìan fiamme innocenti e porporine». Figure di balletto, quella bianca luna e quel biondo imperator della foresta. Più teatrale di tutte, preannunziato dalla più barocca enumerazione delle sue bellezze, con un crescendo di lodi che si interrompe, all’improvviso, in un ben calcolato silenzio, appare l’Uomo, nudo e trionfante come l’Apollo di Mengs, in tutto lo splendore della sua persona femmineamente modellata e lambita a parte a parte:
Taccion d’amor rapiti intorno ad ella
la terra, il cielo; ed: – Io, son io, – v’è sculto,
– delle create cose la più bella. –
In un’atmosfera di arcadica leggerezza, in cui Mengs veniva scambiato per Raffaello, Monti non poteva non strappare applausi universali. Il canto piacque perfino al papa che, come accade spesso agli uomini politici, era rimasto ai suoi gusti di gioventù e riluttava ad aggiornarsi. Il poeta fu assunto come segretario da don Luigi Braschi, e questo fu il più lauto compenso che egli mai potesse attendersi. Così cominciava la sua carriera poetica, in perfetto, brillante accordo, allora come in seguito, con la sua carriera ufficiale. Pio VI pensò subito di adoperare i talenti del giovane comprovinciale in occasione del suo viaggio a Vienna, dove si recava con l’ingenuo programma di dissuadere Giuseppe II dalle riforme laiciste. Politicamente fu un fiasco, e ci rimise anche la poesia. Metastasio, per fare la sua genuflessioncella a S.S., si prese un raffreddore e morì. Monti scrisse il più brutto e il più dimenticato dei suoi poemi, Il pellegrino apostolico. In premio fu ricevuto dal papa e ne uscì con le lacrime agli occhi. Meno male che, di lì a poco, il Cardinal de Bernis gli commise due cantate per la nascita del Delfino: cinquanta zecchini e un orologio di pari valore consolarono il poeta delle prime amarezze che gli dava la politica, sopraggiunta così presto a turbare la tranquillità del suo Elicona.
Ma non crediate che egli fosse un conformista volgare. Conformista di talento, con un occhio adulava mentre strizzava l’altro a ogni accenno di fronda. Se in pubblico l’ormai abate Monti era platonico alla Zanotti, in privato si compiaceva di scandalizzare i suoi fedeli corrispondenti provinciali:
«Ecco le mie novelle passioni» scriveva il 12 dicembre 1779 al Vannetti. «Vi lascio, perché Locke mi si raccomanda, che io non interrompa le mie meditazioni. Questo sta in mezzo del tavolino. Quelli che lo circondano sono Leibnitzio, Wolfio, Bonnet, Condillac, Elvezio e il Sistema della natura. Senato piccolo, ma composto di galantuomini e di baroni fotuti (sic).»
L’elogio della bellezza universale andava bene per don Luigi Braschi, ma a un uomo d’idee libere e spregiudicate, come aveva fama di essere il principe don Sigismondo Chigi, erano da riservare versi più nuovi, ispirati da un’occasione intima a cui del resto il Chigi non era rimasto estraneo (anzi, diede al Monti una prova di amicizia più che signorile). Capitato a Firenze del 1783 in casa della improvvisatrice Fortunata Sulgher Fantastici, Monti s’innamorò di un’altra bionda educanda, la giovane Carlotta Stewart. Anche questo, amore più di testa che di cuore; e quando al vietato matrimonio venne a mancare il principale ostacolo, quello finanziario, il Monti cambiò capricciosamente parere: inutilmente il principe Chigi per aiutarlo gli aveva assegnato sessanta scudi all’anno. L’immaginazione del Monti, in verità, aveva preso due cotte in una: per la Carlotta Stewart e per quella del Werther, una novità letteraria che allora allora aveva scoperto e leggeva, sembra, in traduzione francese. Grazie alla docile memoria assimilatrice, quelle pagine gli rimasero impresse a tal segno, che perfino nelle lettere alla Sulgher Fantastici, sua confidente, ne riecheggiava le frasi più patetiche. Così nacquero gli sciolti al Chigi e i Pensieri d’amore: un’appassionata imitazione di Goethe che fu scambiata per poesia «intima» da quei critici che hanno tentato di esplorare in profondità Monti, alla ricerca di un contenuto suo. Versi proto-romantici? Al contrario, i motivi supremi del romanticismo goethiano, quell’ardore di confusione panteistica nella natura che approda al suicidio finale, è la prima cosa che scompare nei versi del conciliatore Monti. Ma ciò premesso, lo stesso Kerbaker, che primo ha avvertito questa scomparsa, con grande acutezza critica, ha opportunamente richiamato l’attenzione sulla genialità di questa imitazione, tanto più bella dove è più fedele all’originale. Gli sciolti nella loro andatura di epistola, i Pensieri nella loro dichiarata episodicità mostrano la finezza dell’ingegno seguace di Monti, che abbandona la terzina e la rima per evitar di cadere nella maniera elegiaca e nelle tentazioni dei riecheggiamenti dotti, meno evitabili quando il discorso poetico deve obbedire alle esigenze metriche. In questi versi è più facile trovare le molte suggestioni che essi hanno esercitato (in particolare, sul Leopardi; ma – e ciò non è stato notato – su certi versi d’amore del Tommaseo), anziché le reminiscenze del Monti. Egli imparava così il primo segreto del traduttore, l’arte di obliarsi nell’originale. E più diventò grande in quest’arte, più diretto e meno composito e intarsiato troveremo il suo linguaggio. Ma se questi sciolti e questi pensieri sono storicamente importanti come mediazione tra Goethe e Foscolo, tra Goethe e Leopardi, quale fu il significato storico di questa mediazione? In che cosa interveniva la personalità del mediatore? È stato già da molti osservato che dove il Monti non si attiene all’originale, quel che ci mette di proprio è pura arcadia. Semel abbas, semper abbas, Monti l’arcadia l’aveva nel sangue. Tutta la passione che egli pose nell’imitare il Werther si esaurì nell’esercizio formale. L’Ortis sarà percorso da un tale fremito di vita, che, pur nei suoi forti limiti rispetto al capolavoro goethiano, aprirà un avvenire nuovo a un certo tipo di prosa italiana la quale darà i suoi frutti più maturi con Verga. Monti arcadizzava il contenuto del Werther, ne stemprava gli squarci lirici isolandoli da tutto il mirabile contesto narrativo, senza aver poi la forza di ricomporre una nuova sintesi creativa. È il contrario di ciò che avvenne in Leopardi a cui e Monti e Goethe furono di nutrimento, non d’impedimento, a una poesia che nasceva da un nuovo contenuto e da situazioni reali. Quando cogliamo questo o quel riecheggiamento nei canti leopardiani, non facciamo l’errore di rovesciare il processo storico. Come ogni fatto rivoluzionario, è soltanto la poesia che dai suoi vertici dà luce e significato al travaglio culturale precedente, del quale lo storico può prendere coscienza appunto perché è avvenuta quella esplosione illuminatrice. E ciò sia detto, di passata, a coloro che credono di fare della storia letteraria fabbricando dei «precursori» e prescindendo dai grandi fatti poetici «precorsi».
A Roma intanto il liberale principe Chigi era caduto in disgrazia e i nemici del Monti ne approfittarono per scatenare un’aspra lotta contro di lui, e non doveva essere l’ultima. Da Fusignano i fratelli, in cambio dell’assegno che gli pagavano ancora, cercavano di sfruttare la posizione del poeta per rendere più prosperi i loro affari. Il Monti faceva del suo meglio. E in seguito riuscì a diventare bravo anche in questo. Per ora era pieno di debiti, perché galanteggiava con la moglie del suo padrone di casa e, pare, anche con la moglie del suo maggior padrone, la contessa Braschi. Se la cavò con la consueta abilita. All’intraprendente abate non mancarono le occasioni per difendere il suo prestigio e per consolidarlo. Una nuova raccolta di versi, con nuove adulazioni ai Braschi, Papa e nipoti, fruttò un altro beneficio annuo di trenta scudi. Poco dopo, nei primi del 1784, uno strepitoso successo fece dileguare ogni nube. Tutti applaudivano ai palloni di Montgolfier, celebrati dal Monti. Quella che poi fu detta «arcadia della scienza» aveva generato un’enormità di versi, ma nulla faceva tanto delirare come la notizia dei globi aerostatici. A Roma la notizia era arrivata sei buoni mesi dopo la famosa ascensione di Robert e Charles. Ma era una notizia sempre fresca; e del resto, quale argomento più adatto per un poeta così innamorato del portentoso come il Monti ? Anche qui si nota un atteggiamento affatto opposto rispetto al Parini per il quale il rapporto tra la scienza, la società e la poesia trovava il suo sigillo nella forma neoclassica, accordo di valori umanistici e illuministici. Per il Monti l’impresa di Giasone e quella dei moderni argonauti sono spettacoli coreografici a cui è bello applaudire attonitamente. Riduce la scienza a «gran prodigio». I chimici e gli astronomi non sono degli uomini che hanno imparato a conoscere le leggi della natura, ma dei maghi, degli illusionisti che sanno il segreto di sospendere queste leggi. Il maraviglioso biblico viene applicato allo stesso schema sintattico, nel quale avevamo riconosciuto i barocchismi leggendo la Prosopopea e la Bellezza dell’universo. Non mancano gli accenni ai valori umanistici della scienza: ma non è lì l’essenziale. Il cantore è tutto preso dallo spettacolo che provoca l’idrogeno, l’«igneo terribil aere» immesso nel pallone:
Per lui del pondo immemore,
mirabil cosa! in alto
va la materia, e insolito
porta alle nubi assalto.
Il diletto e l’estasi misti allo spavento fanciullesco di questo spettacolo sono la parte viva dell’ode, dove trovi un sincero afflato di poesia. Toltane la scienza d’accatto e le reminiscenze mitologiche, Pascoli coglierà la bellezza di una situazione analoga e scriverà uno dei suoi capolavori, L’aquilone.
Il Monti sfiora un motivo nuovo e vero accompagnando in aria il «Dedalo di Francia»:
Fosco di là profondasi
il suol fuggente ai lumi,
e come larve appaiono
città, foreste e fiumi.
Ma, come all’inizio dell’ode, si lascia poi distrarre dalla mitologia, non sa resistere alla tentazione dell’oratoria, e scioglie una lode all’«umano ardire» che è facile scambiare per un caloroso consenso alla scienza. Invece proprio qui viene fuori con la sua superficialità e banalità il cantore arcadico. La conclusione, con quel fittizio entusiasmo di apoteosi letteraria, doveva suonare affatto ironica se pensiamo all’uditorio: quel nèttare da libare con Giove in cielo era un gelato per signore e monsignori. «Pacifica filosofia sicura»! Si trattava di canzonette e di mitologia, di palloni e di astronomia. Anche Benedetto Croce, così severo con la filosofia leopardiana, così poco tenero verso la vera scienza, rileggendo la strofa in cui le stelle svelano le loro fiammelle al telescopio, confesserà di sentirsi «rapito».
Ma a scanso di equivoci il nostro abate progressista, per ristabilire l’equilibrio si affrettava a recitare in Arcadia i sonetti Sopra la morte, dove affettava un tono meditativo e cristiano. Inter utrumque vola, era il suo motto dedaleo. Parini diceva: costui minaccia sempre di cadere e non cade mai. Infatti aveva imparato a navigare in mongolfiera, tra cielo e terra, in mezzo agli applausi degli ammiratori e all’invidia di chi lo voleva precipitato e morto. Scrisse un sonetto per la contessa Braschi incinta, «in onore di san Nicolò da Tolentino», patrono delle partorienti. E i suoi nemici gli fecero subito una pasquinata innocentemente atroce, stampando i versi col titolo: «Sonetto di Vincenzo Monti ad onore della duchessa Braschi, dedicato a san Nicolò da Tolentino». Ma il Monti sapeva combattere con la canaglia letteraria meglio di un paladino, e sorprendeva gli avversari con le mosse più impreviste. Mentre nei versi alla marchesa Malaspina sembrava avviato definitivamente al carme umanistico (il genere in cui di lì a poco cominciò la Feroniade e scrisse i suoi capolavori), un venerdì santo, all’improvviso, eccolo che tornava a baroccheggiare con i sonetti sulla Morte di Giuda, che, splendidi di abilità stilistica, gettarono un barbaglio sui rimatori precedenti e su quelli concorrenti, i Cassiani, i Minzoni, i Gianni. Poi dal Bosco Parrasio passò al teatro vero e proprio. Voleva essere non solo il Parini ma l’Alfieri di Roma: o meglio, come diceva il De Sanctis, qualcosa «di mezzo tra la durezza dell’Alfieri e la cantilena del Metastasio», compiacendo ai gusti del pubblico per il quale, «quando fu rappresentato l’Aristodemo, il problema parve risolto».
Questa nuova attività del Monti nasceva soprattutto da una ambizione letteraria. C’era la voglia di dare una lezione di stile ad Alfieri, contro il quale aveva già scagliato una risposta per le rime, in difesa dello Stato Pontificio. Dieci anni prima il Saul era stato applaudito in Arcadia. Ma gli umori del Vaticano erano ormai mutati, e non solo per intrighi privati, contro il conte piemontese che s’atteggiava a ribelle e a transfuga della sua classe. Monti compose l’Aristodemo (1787) con aperte preoccupazioni di originalità, rispetto al modello letterario seicentesco, a cui ricorse per gareggiare col Saul e con l’Antigone, lavori entrambi noti al pubblico romano. Vorrei osservare che il risultato più importante dell’Aristodemo è stato quello di aver richiamato l’attenzione sulla tragedia omonima di Carlo de’ Dottori. Ciò prova ancora una volta il talento del Monti e il suo profondo amore di poesia. Ma, se leggendo il seicentista, dobbiamo dimenticare il suo imitatore (come giustamente ci ha ammonito il Croce, guidandoci a una felice scoperta critica), leggendo il Monti non si può non sentire la nostalgia della sua «fonte». La tragedia di Monti finisce dove dovrebbe cominciare: tutta la materia è accessoria, variata di meccanici intrighi rispetto ai profondi motivi che dovrebbero indurre il protagonista a darsi la morte per rimorso delle sue crudeltà di tiranno alfieriano cattolicizzato. Questi motivi non vengono fuori, sommersi dalle declamazioni. Al successo trionfale (1788) che il Goethe lascia comprendere già assicurato in precedenza (benché il Monti affettasse incertezza e preoccupazioni) non fu estranea la generale animosità contro l’Alfieri. Ma furono certe qualità di Monti (oggi le diremmo da grande regista) ad imporsi genialmente nel IV atto, quando appare lo spettro di Dirce al padre che l’aveva sacrificata alle sue ambizioni politiche. Il maraviglioso, come altre volte, veniva a surrogare la poesia; e il Monti salvava il successo di una tragedia inesistente ricorrendo alle ombre, alle visioni e al gusto sepolcrale. Quando tentò di mettere in iscena «un fatto domestico», secondo le preferenze e i suggerimenti della contessa Braschi, e volle in qualche modo rappresentare una esperienza reale, sia pure allontanata nella vita del Rinascimento, non ci riuscì. Il Galeotto Manfredi in cui avrebbero dovuto campeggiare i contrasti tra un cortigiano fedele e un cortigiano ribaldo fu un fallimento. Invasato da Melpomene, il Monti non si diede per vinto e mise mano al Caio Gracco (1788), dove affrontava con la sua disinvoltura improvvisatrice un argomento lontanissimo dalle prime due tragedie, ma un po’ pericoloso: gli avvenimenti francesi gli consigliarono di rimandarne il compimento a miglior tempo e luogo.
In Francia cominciava a crollare l’ancien régime, a Roma si disputava sul padre Omero, sulla recente traduzione dell’Iliade che il Cesarotti aveva pubblicata a Padova. Ignaro di greco, il Monti si attaccò alla versione latina del padre Cunich, il valente gesuita dalmata, e volle smentire quanti sostenevano l’impossibilità di un Omero italiano, e lesse in Arcadia i suoi primi saggi di versione in ottave del I e dell’VIII libro dell’Iliade. Intanto, mentre cominciava a vestire delle «care itale note» l’ira di Achille, si era fidanzato con Teresa Pikler, che sposò il 3 luglio del 1791. I due più grandi amori della sua vita fiorivano mentre la tempesta rivoluzionaria cominciava ad allarmare l’Europa intera e in particolare la capitale del mondo cattolico, presto divenuta uno dei centri di resistenza reazionaria più attivi e più importanti. Vincenzo Monti, natagli la figlia Costanza, così battezzata in onore della madrina, contessa Braschi, era ormai felice padre di famiglia. In quell’anno stesso (1792) scriveva l’Invito d’un solitario ad un cittadino, un’ode saffica nella quale non mancavano tratti di sincera spontaneità idillica:
Qui né di spose né di madri il pianto,
né di belliche trombe udrai lo squillo;
ma sol dell’aure il mormorar tranquillo
e degli augelli il canto...
Sono accenti che ritroveremo in altri versi della vecchiaia. Ma il letterato prevaleva, e il poeta si distraeva dai suoi motivi più veri. Gran parte dell’ode diventò una imitazione dal Come vi piace di Shakespeare. Il centro della lirica doveva essere in quelle sue sincere aspirazioni al vivere quieto e riposato, che le nuove della Rivoluzione turbavano profondamente. Ma l’ode non è unitaria, non è fusa, e termina con certe strofe dove l’autore ti sembra preoccupato di correggere opinioni già espresse in precedenza. Melodrammaticamente il nostro ottimo padre di famiglia se la prende con «l’iniqua stirpe» di Giapeto, col «diro secol di Pirra», vedendo che « insanguinata e rea – insanisce la terra». Con le stesse rime «cielo» e «telo», con le quali aveva decretato l’apoteosi ai novelli argonauti, si affrettava a scrivere la prima delle sue palinodie:
Enceladi novelli, anco del cielo
assalgono le torri; a Giove il trono
tentano rovesciar, rapirgli il tuono,
e il non trattabil telo.
Questo stato d’animo non era soltanto il suo. Pochissimi erano in Italia i giacobini, e in gran parte ancora oscuri e congiuranti. Gli intellettuali di grido che erano apparsi i più avanzati, ora arretravano di fronte a un processo storico che aveva le sue necessità inesorabili e non poteva fabbricare una rivoluzione anestetizzata per la nostra borghesia così sensibile, così disposta al compromesso. Se c’era uno scrittore che per carattere, per educazione, per ambiente storico poteva riuscire a rappresentare con maggior compiutezza l’orrore per la Rivoluzione e il panico della vecchia Italia, questi era il contadino inurbato, con livrea gentilizia e papale, Vincenzo Monti. La Bassvilliana fu il poema della reazione italiana. La classe dirigente dello Stato Pontificio e dell’orbe cattolico aveva saputo coltivarsi uno dei suoi più geniali propagandisti. Mentre nasceva la nuova pubblicistica dei cahiers e dei pamphlets e dei giornali, la vecchia letteratura si rivelava ancora un mezzo formidabile per agitare i sentimenti di quei ristretti gruppi dell’opinione pubblica italiana la cui cultura era in grande prevalenza di tipo umanistico. Se vogliamo comprendere e apprezzare il carattere e l’importanza della Bassvilliana, non dobbiamo leggerla come opera di poesia, altrimenti ci apparirà misera cosa e non ci spiegheremo mai perché fu l’opera più ristampata e più diffusa di Monti. Un critico, il Citanna, ha avuto il coraggio di far notare che ciò è accaduto per motivi politici e non per i particolari pregi letterari di quella cantica, la quale, del resto, come soddisfaceva al gusto sepolcrale fin di secolo, così nella restaurazione romantica aveva tutte le qualità, formali e di contenuto, per apparire valida ancora. Per la prima volta nella storia moderna, la propaganda reazionaria, per combattere l’avanzata di una classe nuova, mobilitava le ombre e l’aldilà, dietro cui nascondeva la difesa dei propri ben saldi interessi. Si opponeva la mozione degli affetti al movimento delle idee, il terrorismo psicologico, fatto di fredda astuzia senile, alla violenza a caldo della Rivoluzione, violenza maieutica onde nasceva una nuova storia.
Monti era sinceramente partecipe di ciò che rappresentava. Il suo eroe, teologo, letterato e pubblicista (tra l’altro aveva scritto i Mémoires de M.me de Varennes, continuazione dell’autobiografia di Rousseau), nei primi anni della Rivoluzione era stato cattolico e fautore della monarchia, poi, divenuto ardente repubblicano, era stato mandato come diplomatico a Napoli. In missione politica a Roma, fu accoltellato dalla plebaglia sanfedista, ma morì con tutti i conforti. Anzi il papa prese cura della sua famiglia e gli fece rendere a sue spese solenni onoranze, quasi ad ostentare la superiore capacità di perdono del mondo cattolico e contrapporla alle violenze giacobine. Il Monti frequentava gli ambienti liberaleggianti e pare che lo avesse conosciuto di persona. Si diceva (e lo ripeté anche il poeta in certi suoi versi scritti in atmosfera repubblicana) che il delitto era stato organizzato. La Convenzione protestò con una energica nota alla Segreteria di Stato. Quel sangue così vicino colpì il Monti come un ammonimento, lo commosse quel perdono papale. E si identificò a tal segno col suo eroe che, poco dopo il delitto, nel giro di pochi mesi scrisse quattro canti uno dopo l’altro. Benché dopo li abbia ritoccati (e arricchiti di interessanti note) son rimasti così come furono scritti di getto. Il Monti concepì il poema come l’espiazione di Bassville, strappato all’inferno da un angelo che prima di accompagnarlo in purgatorio gli mostra l’inferno rivoluzionario della Francia da cui è stato provvidenzialmente salvato. Questa concezione lo portava a scegliersi Dante per modello. Venne fuori un Dante «ingentilito», come fu detto dal primo entusiasta critico della Bassvilliana. «Un Dante passato attraverso l’Arcadia», replicò il De Sanctis e, possiamo precisare, attraverso il Varano. A una cultura storica d’occasione, che il Monti s’era fatta valendosi dei libelli controrivoluzionari in circolazione a Roma, aggiungeva i ricordi delle sue letture giovanili. Dalla famosa descrizione della peste di Messina del Varano (Visione v) trasse il motivo essenziale, come non mi sembra sia stato notato. Ma che differenza tra lo squallido modello e il suo magnifico imitatore! Ecco il Varano:
Ogni tempio era infaustamente chiuso;
immoti i sacri bronzi, e alle notturne
lampade tolto di risplender l’uso;
le armoniose canne taciturne;
e senza l’immortal Vittima, l’are,
e senza nenie pie le squallide urne...
E leggete Monti:
Muto de’ bronzi il sacro squillo, e mute
l’opre del giorno, e muto lo stridore
dell’aspre incudi e delle seghe argute;
sol per tutto un bisbiglio ed un terrore,
un domandare, un sogguardar sospetto,
una mestizia che ti piomba al core...!
Giustamente l’Angelini osserva che questi versi fanno pensare alla prosa manzoniana. E in verità se i poemi (e in genere tutti i versi del Monti) li leggiamo con umanistica attenzione a certe squisitezze formali, ci rendiamo conto del fascino che questo artista ha lungamente esercitato, e ci spieghiamo il coro di riconoscenza profonda che scrittori e poeti non hanno esitato a manifestare, confessandosi discepoli di tanta maestria. «Il cor di Dante e di Virgilio il canto»: questa del Manzoni non pare una frase di circostanza, dovuta alla conversione finale del Monti, ma un giudizio ben preciso e cosciente (e ne vedremo la vitale autorità nella storia della critica montiana). Vero è che il Manzoni aveva una disistima alquanto voltairiana per Dante. E il dantesco di Monti era pura sonorità. «Aveva Dante nell’orecchio, Virgilio nell’immaginazione», replicò il De Sanctis. Ecco un particolare. Osservate gli angeli della Bassvilliana quando scendono a salvare l’anima di Luigi dalle larve infernali degli scrittori «regicidi» dell’Enciclopedia, e confrontateli con quelli del Purgatorio (canto VIII) da cui sono imitati. In Dante il rapporto del colore e del disegno è immediatamente plastico: l’immagine fa corpo con l’oggetto. In Monti tutto l’ondeggiare delle chiome e del panneggio è così fragoroso e abbondante che non riesci neppure a cogliere l’immagine: tutto è impreciso, confuso, rabbuffato. Quello sfoggio di imitazione in parte era dovuto alla fretta e al bisogno di ricorrere a frasi fatte e a luoghi comuni, in parte era un facile mezzo per garantirsi col ricordo letterario un effetto sicuro. Queste esigenze da improvvisatore e da propagandista divengono sfacciate, se si pensa al modo con cui insiste sulla morte di Luigi XVI, dipingendola con i colori del Vangelo e della Passione di Gesù. Monti racconta con una vigile attenzione a ogni artificio che possa colpire meglio l’immaginazione e inculcare in chi legge l’orrore per quella morte. Questo lo scopo della «pietosa visione» e ben dichiarato: «Sì ch’ogni ciglio a lacrimar costringa». Ecco come descrive la ghigliottina:
Cadean le teste, e dalle gole uscia
parole e sangue; per la polve il nome
di Gesù gorgogliando e di Maria.
Nel momento più drammatico, quando egli avrebbe dovuto rappresentare con parole sue quel fatto nuovo, l’inopportuna reminiscenza rivela di colpo la nullità del contenuto e il falso di quella pittura truculenta e agitatoria. Ciò che lascia più diffidenti (è stato detto benissimo dal Pompeati) è quell’«accanito contrapporre di qua tutta la luce, di là le tenebre della barbarie», «il lato, insomma, ingenuo e fazioso del poema». Ingenuo non direi però il nostro scenografo dell’aldilà, che trasfigurava Luigi XVI in Gesù Cristo, e che deformava un Voltaire e un Diderot in assassini, appena salvando il Rousseau come il buon ladrone della «filosofaglia d’oltremonti». Il poema si chiudeva con un interrogativo: «Su chi propizie volgeran le sorti?». In Francia il nuovo regime si consolidava, e il Monti si preoccupava di avere scritto la Bassvilliana: egli, in fondo, si sentiva sempre un liberale. E confidandosi a Francesco Torti già si raccomandava di non esagerare troppo con le sue lodi del poema.
Erano i primi del 1794. Il giacobinismo era in liquidazione. Il Monti riprese prudentemente, e con una certa serenità, a coltivare le inalterabili favole antiche e terminò la Musogonia, mero centone di miti. Ma in taccia di giacobino era venuto lui, adesso. Un po’ si difendeva dalle accuse, un po’ le lasciava credere verosimili. In Arcadia, in un sonetto per monaca, tirò fuori certi versi che dovettero fare allibire i presenti:
Libertà, santa dea madre d’eroi,
e primo di natura eterno dritto...
Ma con elegante manovra, nella chiusa del sonetto trovava modo di rassicurare gli ascoltatori. Del resto non era stato il Papa a commettere allo Spedalieri, cattolico di sinistra del tempo, un saggio sui diritti dell’uomo bene intesi? Il Monti però quando scriveva «d’eroi» pensava già a Bonaparte vittorioso in Italia. Nelle lettere agli amici francofili sospirava alle «quattro fronde di quel santo albero della libertà» che sole potevano guarirlo da tante paure. Intanto doveva guardarsi e scagionarsi dei sospetti, e scriveva a sua Eminenza il Segretario di Stato che egli era «seguace di Virgilio e di Dante, non amico di Catilina». Più si sentiva «alla vigilia della redenzione», e più era terrorizzato a causa del «fanatismo romano sanguinario e crudele». Aveva sempre dinanzi agli occhi l’ombra del suo Bassville. Almeno fosse venuta una «santa pace»! Il suo profondo desiderio era che «non grondasse più sangue l’alloro dei re e dei poeti». Venne la pace di Tolentino, e già il Monti in un sonetto clandestino faceva il repubblicano e l’anticlericale, e mandava i suoi versi a Bologna perché li stampassero senza firma: «Costei che muta fra il giumento e il bue»... Con l’immaginazione aveva varcato già il suo Rubicone incontro al «redentore». Il 3 marzo 1797 abbandonava Roma nella carrozza del plenipotenziario francese, lasciando Teresina e Costanza che poi l’avrebbero raggiunto. Quando fu bene al sicuro, scosse dalla sua veste «la polvere della Corte romana». Interprete della bile pontificia lo inseguiva un violento sonetto satirico, degno della città di Pasquino:
Or fugge il nembo che gli sta sugli occhi,
lo seguono le furie, il livor muto,
l’ira di Dio, le cabale, e gli stocchi;
e superando in corna Amone e Pluto,
va in traccia d’un che gliele indori e infiocchi,
all’ombra della còppola di Bruto.
Chi legge l’epistolario montiano di questo periodo si fa una idea esatta dell’uomo. Ogni biasimo può apparire inutilmente moralistico, e, per eccesso o per difetto, riuscire lontano dal vero. Non solo in verso e in pubblico, ma in prosa e in privato vediamo il Monti assumere lo stile del cittadino, e parlare il linguaggio infranciosato e plateale della Cispadana e della Cisalpina, e via via, con pari indifferenza, assumere il dignitoso stile impero del Regno italico e quello un po’ umiliato di suddito fedele della Restaurazione. Proteone, Camaleonte, lo dissero i contemporanei, ma non mancarono gli indulgenti a compatire e a scusare un uomo del resto così rappresentativo. Dice Shelley, che il camaleonte si pasce di luce e d’aria, i poeti si cibano di amore e di gloria. Ora, questa capacità mimetica del Monti solo metaforicamente può esser considerata fisiologica. Va considerata un prodotto della storia, e storicamente spiegata. Il ritratto del De Sanctis resta sempre il più equanime, il più misurato, appunto perché scevro di moralismo. L’immagine è lì vivente, immersa nell’atmosfera della storia:
L’abate Monti, nato fra tanto fermento di idee, ne ricevé l’impressione, come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda che il frutto di ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser liberale a quel tempo, quando anche i retrivi gridavano «libertà»; bene inteso la «vera libertà», come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutti i governi... Era un buon uomo, che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni, e, dovendo pur scegliere, si tenea stretto alla maggioranza, e non gli piacea di fare il martire.
Altrove, giustamente il De Sanctis protesta contro il vezzo di volerne fare «il capro espiatorio per tutti». Era un «liberale romano» (ci spiega), e voleva alludere all’ambiente cattolico della vecchia Italia, in cui quest’uomo s’era formato e aveva trascorso vent’anni di carriera letteraria dando saggio di tutti i suoi interessi, di tutta la sua versatilità stilistica.
III
Nel Viaggio in Italia Goethe osserva che a Roma perfino un mediocre può diventare maggior di se stesso, investito da quell’aria di grandezza. Questo fu vero anche per Vincenzo Monti. Ma aggiungiamo che, nonostante il travestimento cosmopolitico, a Roma egli era solo un cortigiano e un provinciale. A Milano, dove stava nascendo (difficile nascita) lo stato moderno, Monti acquistò una sia pur formale dignità di cittadino e di italiano, con tutti i limiti di moderato che furono comuni alla borghesia del tempo. Educato alla vecchia scuola, egli era fermamente convinto che le favole antiche, le belle lettere fossero qualcosa di istituzionale per la società:
Povero il senno
che in quei deliri ascoso il ver non vede!
né sa quanta dei carmi è la potenza
su la reina opinion, che a nullo
de’ viventi perdona e a tutti impera!
I regimi cambiavano, la mitologia restava. A questo celeste serbatoio si poteva attingere inesauribilmente. La letteratura poteva diventare un servizio pubblico.
Mentre una nuova estetica maturava in Europa e lo stesso neo-classicismo nel suo sviluppo dagli ideali illuministici, pervaso da romantiche nostalgie per il primitivo, poneva l’esigenza di una nuova classicità, espressione d’un contenuto nuovo, il Monti era rimasto all’inalterabile concetto dell’arte come veste, «fregi intessuti al vero». Perfino nella Roma di Winckelmann l’oscuro abate Spalletti aveva elaborato la teoria del caratteristico, che piacque poi al Goethe e a Tolstoj. Monti non se ne accorse neppure: si limitò a lanciare contro l’autore, che aveva biasimato la Bassvilliana, un suo mediocre epigramma, chiamandolo «il brutto autore del bello».
Non si può dire (ed è stato dimostrato) che il wertherismo divenisse il suo «contenuto affettivo», né che gli ideali i quali sorsero caddero e risorsero durante la lunga vita dell’autore divenissero (come ha affermato il Croce) il suo «contenuto politico». Quando il Leopardi lo definì «poeta dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo» diede una definizione critica obbiettiva fondata non solo sui fatti, cioè sui testi, ma sulla stessa coscienza che ne ebbe il Monti, il quale non concepì mai la forma se non al modo che s’è detto. E in una delle sue lezioni d’eloquenza uscì in un elogio dell’immaginazione, che egli forse non sospettava fosse destinato ad esser base del giudizio più limitativo e più esatto che mai si pronunciò sull’arte sua. Ma fu proprio il Leopardi che enumerò gli elementi positivi della sua arte e precisò le qualità che «si appartengono allo stile» del Monti e alla «pregiabilissima e si può dire originale sua propria» «volubilità armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa o dignitosa grazia del verso», ch’egli riscontrava «specie nelle Cantiche». Quelle pagine dello Zibaldone segnavano l’atto di morte di ogni equivoco giudizio sulla letteratura del Monti e insieme l’atto di nascita della maggior poesia dell’Ottocento. Il Leopardi le scriveva e le rese via via più rigorose e critiche nell’atto di distaccarsi, con la teoria e con la pratica, da uno scrittore che tanto aveva suggestionato anche lui. Se dal giudizio leopardiano passiamo a quello del De Sanctis, che pure non lo conobbe, troviamo una conferma piena e al tempo stesso una sollecitazione a sollevarci dall’ambito stilistico e a considerare storicamente le cantiche, «macchine potenti, prive d’impulso». Prive d’impulso poetico, non certo prive di efficacia politica. A Milano il Monti, nonostante i suoi versi controrivoluzionari, nonostante le lotte accanite di altri letterati, riuscì ad essere ancora il poeta ufficiale, l’uomo che trovava il discorso più splendido e persuasivo, per rivestire di retorici colori «l’opinione dominante», cioè dei dominanti. Negli studi biografici e nel suo epistolario c’imbattiamo di continuo in attestati di queste sue benemerenze di segretario permanente. Epigone di una secolare tradizione, egli riuscì ad inserire con vivacità e intelligenza i motivi politici più acconci. Col trattato di Tolentino, la parte più preziosa del bottino di guerra che si era portato via il rapace vincitore era proprio questo umanista papale. Nessuno meglio di lui assecondò la «rivoluzione passiva» del Regno italico, quando il girondismo, continuando il suo corso involutivo, sboccò nell’Impero e nel Concordato con la Chiesa. Morto il Parini e sdegnosamente in disparte il vecchio Alfieri, c’era qualcosa di meglio del neo-barocco Monti per soddisfare alle esigenze monumentali, da parvenus, del regime napoleonico? Ma in verità anche per lo scrittore non si può dire che nocesse il passaggio a un ambiente più vitale. Quel difetto di vires animi che gli rimproverò il Leopardi («muliebrità», disse il Giordani; gli «mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere», precisò il De Sanctis) trovava un certo compenso, un sostegno e un orientamento.
Certo, Monti continuò a trarre partito dal maraviglioso, mescolando quello di tipo pseudo-dantesco a quello mitologico e classico. Nel ’97, appena in salvo a Bologna, scrisse il Prometeo: imitazione di Eschilo attraverso Milton, di Lucrezio attraverso Giobbe. «Più omerico della traduzione di Omero», lo esaltò il Tommaseo con la stessa sottile tendenziosità cattolica che aveva messa nell’esaltare gli sciolti al Chigi e i Pensieri d’amore. Ma a che prò deprimere il poemetto del Monti, paragonandolo ai capolavori di Goethe e di Shelley? «Egli» ha scritto il Flora «non cercava l’umanità nel mito: cercava solo la meraviglia visiva». Benissimo. Ma non era superficiale quel gusto del «primigenio», che l’educazione dannunziana di questo critico gli fa sopravvalutare di là da ogni occasione e allusione politica? Io ricorderei piuttosto che il gusto del Carducci, «poeta della storia», ha qui (e, come del resto si sa, in tanti altri versi del Monti) le sue fonti, ha qui il suo Clitunno:
Oh, del primo maggior, secondo Annibale,
pochi sono i tuoi forti, e non si coprono
di ferro il petto, né l’aìta affidali
di Numidi elefanti, ma del gallico
valor l’usbergo portano sull’anima,
e l’arte sanno di morire, o vincere!
Oh val di Dego orrenda! oh gioghi indomiti
di Montenotte! oh re de’ fiumi Eridano!
E tu Mincio fatal...
Nessuno dei poemi del Monti offre un organismo poetico resistente a una lettura critica unitaria. Sembra difficile contraddire alla rudezza di un critico tutt’altro che rozzo, come il Citanna quando li chiama illeggibili. Resta la lettura da un punto di vista stilistico, con l’occhio ai particolari: una lettura che se ha i suoi pericoli, ha anche i suoi piaceri, a patto che il piacere dell’orecchio e dell’immaginazione non vogliamo trasferirlo dalla sfera edonistica e retorica a quella estetica. Il Croce ha fatto ricorso ad una ingegnosa «moderazione» del giudizio di Leopardi, inequivocabilmente negativo. Leopardi parlava di «ributtante freddezza e aridità» specie nelle «cose affettuose»; e in uno scorcio di storia della nostra poesia concludeva che «il Parini e il Monti... sono piuttosto letterati di finissimo giudizio, che poeti; l’Italia dal cinquecento in poi non solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente versi senza poesia. Anzi la vera poetica facoltà creatrice, sia quella del cuore o quella della immaginativa, si può dire che dal cinquecento in qua non si sia più veduta in Italia, e che un uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in Italia dopo il Tasso (27 febbraio 1821)». Del resto quella formula del Croce («poeta della letteratura») con Croce filosofo alla mano, si può dimostrare acritica e insussistente. Ma questo suo giudizio che l’Angelini e il De Robertis, il Citanna e il Valgimigli hanno svelato (o velato) nella sua contraddittorietà, era un’appassionata testimonianza del suo gusto di «carducciano impenitente». Però quando il Croce parla dell’importanza e della vastità d’influenza che la scuola del Monti ha avuto nella nostra storia letteraria (e ciò è stato confermato dal noto studio del Russo), toccava un punto tutt’altro che trascurabile, se vogliamo collocare il Monti in una prospettiva reale e nella giusta luce.
La critica cattolico-liberale, a cominciare da Ermes Visconti, che aveva spacciato per «poema romantico» la Bassvilliana, continuò col Tommaseo e col Carcano a presentare un Monti mutilato, ma diede un forte impulso alla sua fortuna nell’età romantica: si trattava di un classicismo moderato nel contenuto e abbastanza canoro ed approssimativo nella forma, per non soddisfare un gusto così accogliente, così sentimentale. Il giovane Carducci, sulle orme del Rossetti e del Maffei, del Niccolini e del Mazzini volle invece rivalutare l’oratoria giacobina e massonica del Monti: violenta e colorita nelle immagini, timida e scialba nelle idee. Non voglio qui tracciare una storia di questa scuola: dal Regaldi al Rapisardi è sempre il Monti che impera. Lo riscoprì il classicista con intenzioni di realismo Vittorio Betteioni, e si rivelò suo grande scolaro nella traduzione del Don Giovanni di Byron (così come, traducendo mirabilmente La Fontaine, il De Marchi parve ricordarsi della lezione di Monti imitatore delle Favole di Krilov). Perfino in tempi più recenti e men leggiadri lo celebrò in prosa e lo riecheggiò in verso Ardengo Soffici. Sarebbe interessante studiare il significato che ebbe questa fortuna del Monti, più nel ritardare che nel favorire la formazione di un linguaggio poetico moderno, se non premesse la necessità di accompagnarlo rapidamente nel corso turbinoso della sua vita, fino a quel suo tramonto un po’ mesto.
IV
La trasmutabile e consumata abilità dell’artista aveva accumulato in tanti anni una vera fiera di forme e di stili. Ma tra l’esperienza romana e quella milanese, bisogna mettere in rilievo l’importanza decisiva che ebbe per lui l’esilio in Francia, causato dalla per poco avversa fortuna di Bonaparte. E lasciamo stare l’amabile canzone «Bell’Italia, amate sponde» dove (come notò il Petrini) il Monti ricorse allo stesso schema della Prosopopea, pur raggiungendo una nuova, felice scioltezza di canto. Consideriamo le opere che scrisse in quella terra straniera dove fu umiliato come non mai nella sua vita, dove le «care itale note» lo confortarono a una fierezza purtroppo mai più ritrovata. Ramingo e ridotto a uno stato davvero miserabile, riprese quella tragedia che aveva iniziato a Roma oltre dieci anni prima e che ora componeva non senza un calore sincero. Venne fuori il suo miglior lavoro teatrale: non solo Niccolini, ma anche il Cossa molto imparò da questo linguaggio, più prosaico che poetico, ma anche più disteso di quello affienano. Il tema stesso, del resto, consentiva l’abbandono del Monti alle sue qualità più schiette, ed egli si espresse talora con vera eloquenza, come ad esempio nella scena del duello oratorio fra Opimio e il protagonista. Ma anche stavolta egli si era ispirato a un modello, la tragedia omonima di Giuseppe Maria Chénier, proibita dalla Convenzione durante il Terrore. Voleva presentare un Caio Gracco girondino («leggi, non sangue») e giustamente è stato osservato che «i rapporti tra il protagonista e i suoi nemici e il popolo stesso sono concepiti e rappresentati con uno spirito di liberalismo moderato». Incredibile a dirsi, cinquant’anni dopo, quell’innocua retorica faceva ancora paura e il Cavour (come ricorda il Cantù) permise la rappresentazione di questo Caio Gracco solo dopo un’interrogazione al Parlamento. Eppure quel Caio Gracco era parso «romantico» al Tommaseo, e non senza un motivo di vero se guardiamo al carattere del protagonista, curiosamente vicino (per psicologia, non certo per poesia) all’Adelchi manzoniano, e incline a subire la violenza e la feroce forza dei patrizi, piuttosto che a farsi lui promotore di rivoluzioni.
Oltre il motivo girondino che predominava nel Gracco, è stato notato anche un motivo patriottico e nazionale: il Monti si faceva interprete delle speranze in una politica italiana di Napoleone e infatti alludeva a ciò chiaramente nella terza scena del terzo atto. I due motivi diventarono uno solo nella cantica in morte dello scienziato e poeta didascalico Lorenzo Mascheroni. Voleva essere «una seconda Bassvilliana» come disse il poeta «per istruzione della patria lacerata da tanti birbanti». E forse quando il Manzoni scrisse i famosi versi, in quell’accenno al «cor di Dante» è probabile che manifestasse la riconoscenza non ancora spenta nell’animo dei liberali italiani. Benché finisse, in seguito, per cedere al suo destino di cortigiano, il Monti attraverso il Ministro degli Esteri del Regno Italico, Francesco Marescalchi, fu legato di amicizia a quanti tentavano di resistere alla politica colonizzante di Napoleone e a ridurre al minimo il costo troppo elevato per la trasformazione del nostro paese in stato moderno.
La Mascheroniana esprimeva con chiarezza e nobiltà diffuse aspirazioni che non coincidevano con l’interesse (o meglio il disinteresse) per l’Italia dei Francesi e di Napoleone, liberatori, ma dominanti. La macchina della Bassvilliana poteva soccorrere l’autore? Il Monti sentì che conveniva abbandonare l’accademia romana cattolica e baroccheggiante, per un gusto diversamente accademico, più fermo e composto nelle forme, laico e nazionale negli intenti e negli argomenti. Retore esperto, si lasciava alle spalle quella estemporanea apocalisse da propaganda, per una serena dignitosa eloquenza. Te ne accorgi da quelle parole premesse alla cantica:
Ben provvide alla dignità delle Muse quella legge del divino Licurgo, la quale vietava l’incidere, non che il cantar versi sulla tomba degli uomini volgari, non accordando questo alto onore che alle anime generose e della patria benemerite... Lettore, se altamente ami la patria, e sei verace italiano, leggi; ma getta il libro, se per tua e nostra disavventura tu non sei che un pazzo demagogo, o uno scaltro mercatante di libertà.
Ma se la «macchina» poteva diventare un monumento, poteva l’eloquenza trasformarsi in poesia? Non apparivano gli spettri, ora, ma venivano erette le statue di Beccaria e di Parini, decorosamente atteggiate intorno all’immagine di Mascheroni:
Rizzossi a tanto nome
l’accigliato Parini, e, la severa
fronte spianando balenò, siccome
raggio di Sole che, rotta la nera
nube, nel fior che già parea morisse,
desta il riso e l’amor di primavera.
Il suo labbro tacea; ma con le fisse
luci, e cogli atti dell’intento volto,
tutto, tacendo, quello spirto disse.
Nasceva così il mito del Parini; ma nessuno più del Monti che ne scolpì la statua era lontano dallo scrittore, nessuno più indifferente al suo spirito (come può vedersi in una lettera alla Staël, molto significativa al riguardo).
– Chiusa e stretta da forza prepotente
(dolce interruppe allor Lorenzo), e in forse
di maggior danno, e inerme e dependente,
che far poteva autorità? – Deporse –,
gridò fiero Parini; e steso il dito,
gli occhi e la spalla brontolando torse.
Ridotto a statua il Mascheroni, a statua il Parini, con quel sublime tutto reminiscenze tragiche sulle labbra e con quel superficiale «realismo» di gesto. La vita poetica non c’era. Non erano stati ancora scritti i Sepolcri. Illusorio ricercar qui l’afflato dei versi foscoliani. E non si capisce perché mai all’avvedutissimo Angelini sia parso di sentire nell’inizio della Mascheroniana già la musica delle Grazie:
Come face al mancar dell’alimento
lambe gli aridi stami, e di pallore
veste il suo lume ognor più scarso e lento;
e guizza irresoluta, e par che amore
di vita la richiami, infin che scioglie
l’ultimo volo, e sfavillando muore;
tal quest’alma gentil, che morte or toglie
all'italica speme...
No, non c’era (per dirla con la finezza del De Robertis) quell’«aerea tessitura dell’endecasillabo foscoliano» che nelle Grazie nasceva da «un’arte stremata» e da «quel parlar segreto (parlare non cantare)». Si avverte non so che opacità di suoni, così come altrove le forme riescono ottuse, benché (e il Croce qui ha ragione) «stupendamente lavorate»:
– Ecco la dotta fronte onde s’apriro
sì profondi pensieri, – un’altra disse:
e la fronte toccò con un sospiro.
– Ecco la destra, ohimè, che li descrisse,
– venìa sciamando un’altra; e baci ardenti
su la man fredda singhiozzando affisse.
Ciò ricorda la mortuaria accademia di Canova, quel suo marmo così levigato nella superficie, eppure così profondamente gessoso.
Il capolavoro dell’esilio in Francia fu la traduzione della Pucelle. Quest’opera, che era stato un grande omaggio di Voltaire all’Ariosto, distaccò energicamente il Monti, per quel che era possibile a un uomo di gusto già maturo, dal biblismo e dal miltonismo romano. Certo, imitare l’Ariosto era altrettanto difficile che imitar Dante, ma meno periglioso per chi avesse come il Monti una segreta vocazione a narrare e quel suo dono di cantore. Traducendo un testo come quello di Voltaire, dove il beffardo gioco intellettuale trascorreva con lubrica sottigliezza dall’erotico al satirico, Monti aveva qualità d’ingegno e risorse tecniche superiori, sovrabbondanti. Fu un incontro felice. Quei decasillabi di Voltaire, spesso aridi e monotoni, rifusi nell’ottava acquistarono una bellezza nuova, dove la malizia dei pensieri scintilla con musicale freschezza come il sole in un corso d’acqua lieto di fluire. Che cosa sono le novelle e i poemi libertini del nostro Settecento, se li paragoniamo alla Pulcella mondana? (si è chiesto giustamente un buongustaio come il Cajumi). Né il Casti, sciatto e triviale, né il Batacchi (a cui pure è da concedere un talento e una disinvoltura non volgare) possono gareggiare con l’elegantissimo poema di Monti che (giunse a dire il Camerini) sembra «aver lui composto in italiano bene e il Voltaire aver tradotto male in francese»:
Poco studio, assai grazia; ecco l’incanto
che la bocca alla critica suggella.
Puro e libero divertimento in un linguaggio così limpido, così preciso. In compagnia di Voltaire, il traduttore non solo riscopriva Ariosto ma una più sobria misura di classicità.
Nominato professore a Pavia, nelle sue lezioni di eloquenza (1802-1804) il Monti ritornò ai suoi maestri di poesia e con particolare amore agli antichi, non direi con entusiasmo e risultati di scoperte critiche, ma con animo di retore più coerente e meno eclettico rispetto al suo gusto giovanile. E con la traduzione delle Satire di Persio (1804) s’impose uno di quegli esercizi che servono ai grandi esecutori musicali per sciogliersi la mano e prepararsi a superare maggiori difficoltà. In questo rinnovato fervore umanistico, il cui frutto più elegante saranno le Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade (1807), il Bardo della Selva Nera (1806) restò a sé, composizione eccezionale, motivata da intenti adulatori per Napoleone a cui, com’è noto, piacevano i poemi ossianeschi. Il polimetro del Monti avrebbe dovuto «abbracciare tutte le imprese di questo grand’uomo», dell’Imperatore che appunto glielo aveva ordinato. Artificioso nella sua struttura non meno delle altre «macchine», e imitato dal Gray, fu già molto se arrivò all’ottavo canto. Il poeta ne ricavò una tabacchiera d’oro, duemila zecchini e il titolo d’istoriografo del Regno. Ma mentre sembrava ricominciasse la pomposa vicenda delle cantate ufficiali e delle ricompense, eccolo che, per elezione, il Monti s’impegna in una grande impresa tutta sua. Quell’amor di poesia che, come ha detto il Fubini, era stata nel Settecento l’aspirazione più profonda e più insoddisfatta, agli inizi del secolo nuovo pareva si fosse ridestato con veemenza nel cuore del Monti. Il finale omerico dei Sepolcri e i saggi di traduzione del giovane poeta zacintio che si vantava di aver respirato fanciullo il nativo aer sacro del mito e della poesia greca, dovettero infondere nel Monti la nostalgia delle sue prime prove e sollecitarlo a una nobile gara. I versi celebrativi gli erano divenuti talora più perfetti, ma sempre più abitudinari ed estranei. L’impresa di una Iliade italiana lo attraeva come un’avventura, la più appassionata della sua vita. L’epica e la lirica rimaste velleità in tanti suoi versi divennero realtà di poesia. Si potrà dire che le tracce del maraviglioso biblico rimasero in quel rivestimento sontuoso del nudo corpo dell’Iliade; che la frequenza di Davide e di Annibal Caro gli facessero inventare un Omero più troiano e latino che greco. Ma passano gli anni e su tutto il secolare esercizio di traduzioni della cultura umanistica italiana la sua Iliade sovrasta con una fascinosa presenza monumentale, da cui sapremmo liberarci solo quando nascesse un altro capolavoro. Le riserve del Foscolo e del Tommaseo (particolarmente avverso all’Iliade, mentre lodava tanto il resto) sono i sintomi di nuove esigenze di gusto che han trovato nel Viaggio sentimentale, nei Canti popolari greci e slavi o nel Moby Dick di Pavese risultati esemplari. Ma l’Omero italiano è ancora e solo quello di Monti.
V
Con la Restaurazione, con quegli anni di stanchezza e quel bisogno di pace e di raccoglimento meditativo dopo un’età avvampata e insieme bruciata come da un’ala d’incendio, il vecchio cantore sembrava senza fiato. Ma dové scrivere ancora palinodie, ancora versi «per superiore comando», questa volta austriaco: il Mistico Omaggio in onore dell’arciduca Giovanni e il Ritorno di Astrea, in onore dell’Imperatore Francesco I. Monti giovane col suo «bel portento» d’improvvisatore aveva un garbo d’avventuroso provinciale settecentesco che metteva piacere a parlarne. Cavaliere e istoriografo e senatore di Napoleone fu ancora un gran personaggio d’autorità cocchiera con quella sua sicurezza di uomo sempre partecipe del potere e sempre in ansia per un regime che si scopriva così instabile e così pieno d’impreviste difficoltà, quando uno scrittore dovesse concepire «un piano poetico» adatto alle circostanze, per fare da buon mediatore tra dominanti e dominati. Quali piccanti incontri negli ultimi anni del regime! L’epistolario di quel tempo è amenissimo. E non facilmente dimenticabile è parsa una passeggiata al chiaro di luna al Colosseo, insieme con l’ex monsignor di Talleyrand, principe di Benevento, e artista della diplomazia quanto il Monti era stato diplomatico dell’arte. Delizioso armeggio, quella sua corrispondenza tutta difensiva per proteggersi dallo «Sturm und Drang» della Staël, nell’atto stesso che pareva accoglierne le suggestioni e i consigli e l’intimità più che letteraria. Ma ora, fuori di tutto il turbine dorato dell’età napoleonica, mette tristezza a discorrere di quella vecchiaia di Monti, amareggiata e tutt’altro che agiata, mentre lo circondava solo il rispetto e la devozione di qualche amico. Pure, il poeta dominava ancora l’età non più sua. Aveva rifiutato la direzione della «Biblioteca Italiana», per non farsi strumento dell’Acerbi, arnese a sua volta della politica culturale austriaca. Non che gli mancasse l’energia necessaria alle eventuali discussioni e contese. I ritornati padroni volevano dare in qualche modo vita a un’atmosfera che in fondo ristagnava e solo sembravano rimuoverla le vecchie dispute sulla lingua, mentre le discussioni più serie avvenivano ai margini della cospirazione. La resuscitata questione della lingua fu occasione per il Monti, validamente sostenuto dal genero Giulio Perticari e da altri amici, ad un’aspra polemica con Antonio Cesari e alla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (1817). La vivacità del prosatore, già rivelatasi in giovinezza, ricompariva, non senza compiacimenti verbosi e una certa pedanteria senile. In qualche dialogo piace quella prontezza di umore bonariamente faceto, con eleganze che molto dovettero insegnare al Settembrini traduttore di Luciano. Ma la materia della controversia è spesso meschina, e ancor più immeschinita da certa oziosa insistenza. La prosa delle lettere degli ultimi anni mi pare da preferire senza esitazioni. C’è chi vanta ancora tanto le lettere del Giordani. Ma molte fra queste del Monti, scritte senza ascoltarsi, senza vedere già a stampa il proprio dettato, sorprendono, alla vigilia dei Promessi sposi, per la loro grande semplicità, e urbanità conversevole e arguta. Le prose linguistiche non vanno considerate formalmente «come modello di stile polemico». In questo caso sarebbe da ricordare piuttosto la lettera apologetica al Bettinelli. Quelle prose vanno invece rivalutate come una critica al vacuo purismo del Cesari, il cui ritorno al Trecento appariva affatto reazionario al Monti e da combattere con energia. Le predilezioni e le schifiltosità linguistiche si mescolavano a una avversione non dissimulata contro la cultura del «secolo miterino». Il Monti rispondeva facendo in blocco Papologia di tutti gli scrittori, sia pure accademici e mediocri, venuti su alla fine del Settecento. Ne mescolava i nomi con una certa acrisia. Ma voleva ricordare tutti i filologi e gli illuministi, gli storici e gli scienziati, e i poeti e i traduttori, che avevano dato un apporto nuovo alla lingua nazionale. Cos’erano quelle povere Giunte veronesi del padre Cesari e dei suoi collaboratori, che raccoglievano come «oro purissimo» le voci più strane e ridicole e in nome di una superstiziosa adorazione per la venerabile antichità medievale, trascuravano la cultura moderna così come la Crusca aveva fatto la sua guerra fiorentina al Tasso e all’Eneide del Caro e al Metastasio?
La polemica contro il Cesari, integrata con la lettera al Saurau e l’introduzione alla Proposta, ci mostra che il Monti, con grande buon senso e con piena coscienza di aver vissuto un’esperienza per molti aspetti rinnovatrice durante il periodo napoleonico, si era elevato a un concetto nazionale della lingua. Ciò era un progresso, sia rispetto all’infantile e tutta fratesca illusione dei puristi, i quali pretendevano fermare la storia agli arcaismi del Trecento, sia rispetto al municipalismo della Crusca, la cui intransigenza appariva un ostacolo all’unità linguistica d’Italia. Quali erano i limiti del Monti? È chiaro che egli, conformemente al retaggio umanistico della sua cultura, sebbene di vedute molto larghe e moderne per quel che riguardava l’impianto d’un vocabolario, si preoccupava soprattutto della lingua illustre, della lingua degli scriventi e non dei parlanti. Empirica e da letterato, la sua conoscenza della lingua si fondava su di un’esperienza che per ampiezza forse non fu superata nemmeno dallo stesso Tommaseo. Certo, nessun altro scrittore italiano ha avuto dopo di lui una padronanza così completa del linguaggio poetico tradizionale. Le sue postille alle rime degli arcadi e a Dante, i suoi spogli di Ariosto e dell’Eneide del Caro son da tener presenti, con le note della Bassvilliana e gli appunti forniti al Maggi per le note alla Feroniade, se ci si vuol render conto dell’imponente patrimonio accumulato in tanti anni di mestiere letterario dal Monti nei suoi celebri zibaldoni. Laboriosa e sonante officina, questa, in cui il maggior epigone dell’Umanesimo aveva elaborato il suo linguaggio
con parola al volgo
non conceduta e sol dal saggio intesa
(ché al volgo corruttor d’ogni favella
parlar la lingua degli Dei non lice).
Sono versi della Feroniade, il poema a cui egli lavorò con più lungo amore. Qui, meglio che in altri poemetti mitologici (come il Sermone o le Nozze di Cadmo) si possono ricercare le squisitezze più raffinate: un idillio che fiorì nella campagna romana, prima che la Rivoluzione turbasse la pace dei latifondi principeschi:
I lunghi affanni ed il perduto regno
di Feronia dirò, diva latina,
che del suo nome fe’ beata un giorno
di Saturno la terra.
Doveva sentirsi anche lui nei momenti di più abbandonata sincerità un patetico esule nel mondo moderno che voltava le spalle alla mitologia. I motivi encomiastici (dapprima per le bonifiche di Pio VI, poi per i napoleonidi, infine e di nuovo per il papa) rimasero fortunatamente ai margini di quel «bel regno», sospiro di letterato alle Georgiche virgiliane, alle favole etiologiche di Ovidio, ritorno, non già al primitivo e alle origini mitiche, ma alle origini letterarie del nostro Umanesimo, al malizioso mondo ninfale del Boccaccio (come fu osservato dallo Zumbini) e, vorremmo aggiungere, alle eleganze del Rusticus di Poliziano, ai colori fragorosi del Pontano, al latino quattrocentesco che la Ragion poetica di Gravina aveva autorevolmente collocato così in alto nella stima critica. Era un alessandrinismo mansueto e moralizzato, se si vuole, dove le favole sono accompagnate dalla baia che aveva cominciato a dar loro il querulo e controriformista Tassoni. Il racconto fluisce con una castigatezza che infrena e regola tutto, anche i cenni scabrosi alle scappatelle di Giove. Ma non si cerchi la luminosa primavera del Poliziano nelle descrizioni: qui tutto è decantato con quella inconfondibile astrazione canora del Monti, sempre beato di quel suo alto tenore celebrativo:
Tal di Feronia la beltà crescea.
Quel dotto linguaggio (si scusi l’inevitabile bisticcio) «montato un gradino più su della prosa», come disse lo scudiero di questa particolare, composita classicità, il Carducci, era il linguaggio aulico e ristretto, caro ad una borghesia umanistica: tradizionale e nazionale, non popolare. Ad altra semplicità e purezza, sia pure melodrammatica, era riuscito il Metastasio, e verità e poesia aveva congiunte il Leopardi (poeti non a caso pregiati dal De Sanctis, che avrebbero poi trovato nel carducciano Croce un giudice così coerentemente severo e maldisposto). È da dire che la Feroniade (giustamente preferita dal Foscolo a tutti gli altri versi del Monti) fu la miglior difesa ch’egli potesse scrivere della sua mitologia: tenera ed elegante allorché si svolgeva nel favoloso ambito d’una georgica pace, falsa e decorativa allorché pretendeva ornare le macchine dei poemi. L’apologetico Sermone sulla Mitologia, meno squisito delle Nozze di Cadmo, se levò gran rumore nella battaglia tra classici e romantici, oggi offre un interesse di pura curiosità. Ricco di vigore polemico nell’attaccare i romantici e nel cogliere la contraddizione tra i loro propositi di verità e il gusto dell’orrido e del leggendario, lo scrittore, a sua volta, pur nell’eloquente magnificenza del verso, non dissimulava una povertà d’idee che sarebbe stata flagrante, se avesse composto in prosa quel suo sermone. I motivi schilleriani e leopardiani da lui riecheggiati erano affatto contraddittori (proprio perché motivi romantici) con la retorica del suo originario gusto neo-barocco:
Senza portento, senza meraviglia
nulla è l’arte de’ carmi, e mal s’accorda
la meraviglia ed il portento al nudo
arido Vero che de’ vati è tomba.
Perché e come l’estetica e la poesia moderna avessero scoperto la vitale verità del mondo fantastico, il buon vecchio Monti non riusciva ad avvedersi.
Eppure, in molti suoi versi «intimi» del tramonto, sentì un desiderio di liberarsi da quel fasto verbale. Con la stessa fenomenale sensibilità grazie a cui il vecchio letterato carteggiava con Carlo Alberto, augurando alla sua casa una missione italiana, porgeva orecchio e mostrava di voler arieggiare i motivi poetici viventi nel suo tempo. L’intimità degli argomenti diveniva perciò intimità di contenuto? Aveva elogiato papi e principi, re e imperatori, ora voleva elogiare la figlia, la moglie, se stesso. Il piacere d’incastonare una reminiscenza nella cornice finiva per occuparlo più del ritratto, che restava appena accennato. La malinconia dell’uomo la ritroviamo tutta in questi versi: mai vi aleggia quella più distaccata e contemplata malinconia che si appartiene solo ai poeti:
E s’ei dimanda
come del viver mio si volga il corso,
di’ che ad umil ruscello egli è simile,
su le cui rive impetuosa e dura
i fior più cari la tempesta uccise.
Ma questi suoi cari versi «intimi» vogliono esser letti con cordialità. Il giudizio critico dev’esser sospeso, in nome di quell’affetto che i vecchi sanno reclamare con così ingenua e disarmante astuzia. Se i poemi appaiono al lettore moderno sempre più remoti, e d’interesse storico o scolastico (ad eccezione della Feroniade, che, incompiuta, si ammira nel suo equilibrio di composizione, oltre che nelle parti propriamente narrative, di gran lunga più valide), proprio tra gli ultimi versi del Monti, raccolti e idilliaci, ho creduto di dover largheggiare: non volendo perciò obbedire a un criterio tendenzioso, ma solo al rispetto per quanto di più significativo, in ogni epoca della sua vita d’artista, potesse offrire la sua varia letteratura, senza esclusioni (né dalle prose, né dalle lettere e nemmeno dal teatro) che sarebbero state mutilazioni.
« Benefico, tollerante, sincero, buon amico, cortigiano più per bisogno e per fiacchezza d’animo che per malignità o perversità d’indole, se si fosse ritratto nella verità della sua natura potea da lui uscire un poeta». Con questo rimpianto del De Sanctis ci congediamo dall’oratore quando, stanco di gesti, ci appare più sobrio e dal cantore, quando la voce affievolita par che gli tremi in una ritrovata purezza.