MONTI, Vincenzo
Da Fedele e Domenica Maria Mazzarri nacque alle Alfonsine (Ravenna) il 19 febbraio 1754; morì a Milano il 13 ottobre 1828. I suoi vecchi erano castaldi dei marchesi Calcagnini. Suo padre, che fu perito agrimensore, raggiunse una modesta agiatezza di possidente campagnolo. Il piccolo Vincenzo cominciò i suoi studî presso un prete di Fusignano, Pietro Santoni, buon rimatore vernacolo, e li continuò nel seminario di Faenza, dove imparò bene il latino e dove fu educato al senso della poesia di Virgilio, di cui un'aura, checché si dica, spira nei suoi versi migliori, ma dove prese anche il gusto, sull'esempio del suo maestro Francesco Contoli, di quella pomposa sonorità frugoniana da cui non riuscì mai a liberarsi del tutto. Nel 1771 parve per un momento che si volesse fare religioso di san Francesco e poi prete secolare, ma infine si risolse a intraprendere a Ferrara gli studî di giurisprudenza, che poi lasciò per quelli di medicina: a Ferrara, in realtà, seguì la sua vocazione di poeta dalla facile vena, compiacendosi nei motivi e nelle forme messe di moda dall'ultima Arcadia. In Arcadia fu ammesso, col nome pastorale di Antonide Saturniano, nel 1775. L'anno seguente compose e diede alle stampe un poemetto in terza rima, La visione d'Ezechiello, che fu il principio della sua fortuna, sul gusto di quelli applauditissimi del Varano, cari alla sensibilità preromantica del tardo Settecento per quel tanto di meraviglioso dantesco che vi si riflette. Il poemetto piacque al cardinale Scipione Borghese, legato di Ferrara, che invitò il M. a Roma, dove infatti egli si stabilì nel 1778.
Una sua ode in metro di canzonetta, Prosopopea di Pericle, recitata in Arcadia nell'estate del 1779, ebbe così felice successo, che la si volle appendere, appositamente stampata e incorniciata, nella sala delle Muse del Museo Vaticano, presso l'erma di Pericle per il cui ritrovamento era stata composta, e ivi, ristampata, si vede tuttora. Lo stesso felice impeto oratorio della Prosopopea, la stessa maniera grande che fa pensare ai più nobili e più vivaci pittori accademici del Settecento italiano, la stessa squisita finitezza nella trattazione di certi particolari, si ammirano nelle terzine La bellezza dell'universo, recitate due anni dopo in Arcadia per l'acclamazione dei novelli sposi Luigi Braschi Onesti, nipote di Pio VI, e Costanza Falconieri.
Fu così che il M. entrò segretario in casa Braschi, e i favori papali cominciarono a piovere su lui, anche se non così fitti com'egli avrebbe desiderato, sotto forma di pensioni e di altrettali benefizî. Bello, esuberante di vita, facondo, fidente nel proprio genio, declamatore ispirato dei proprî versi, pareva che quella Roma, in cui Pio VI si atteggiava a novello Augusto e novello Leone X, fosse il campo d'azione fatto apposta per lui. Questo periodo, che durò un quindicennio, il periodo che fu detto del M. abate, è in verità uno dei più belli e fecondi della sua attività poetica.
Se la copiosa vena è alquanto impedita dagli schemi e dai modi del componimento d'occasione nel Pellegrino apostolico, poemetto in due canti scritto per il viaggio di Pio VI a Vienna del 1782 e così intitolato dal motto con cui quel pontefice sarebbe designato nella pseudoprofezia di san Malachia, una felice ispirazione virgiliana, grandiosa e patetica, e un virgiliano lavoro di cesello nei particolari fanno una cosa bellissima della Feroniade, poemetto in versi sciolti in tre canti, la cui azione si svolge in quella regione pontina che Pio VI aveva cominciato a bonificare: il M. in più riprese continuò a lavorarvi attorno negli anni senili (e non poté dettarne gli ultimi versi), ma il più e il meglio della stesura risale a quelli della vigorosa giovinezza. Bella di slancio oratorio e di generosa commozione è l'ode Al signor di Montgolfier, composta per l'ascensione di I.-M. e I.-É. Montgolfier nel primo pallone aerostatico e rimasta una delle più famose poesie del M. (1784). Di diversa, ma di non meno viva ispirazione, sono due componimenti dell'anno precedente: gli elegiaci endecasillabi sciolti Al principe Don Sigismondo Chigi e i wertheriani Pensieri d'amore, in lasse di sciolti.
Gli uni e gli altri gli furono ispirati, come tutto lascia credere, dall'amore per una giovinetta diciassettenne, ch'egli aveva conosciuta nel 1782 a Firenze e che nel carteggio con la confidente della sua forte passione, la poetessa estemporanea Fortunata Sulgher Fantastici, chiama col nome di Carlotta (Stewart?): il progettato matrimonio con la bionda e ricca fanciulla andò a monte per ostacoli insorti dalle due parti, ma i versi restano e per patetico slancio e malinconico abbandono sono dei più belli che il M. abbia scritti. Negli anni che seguono egli rivolse la sua ambizione più volentieri al teatro, indottovi senza dubbio dal favore con cui le tragedie dell'Alfieri erano state accolte dall'alta società romana.
Prima in privato nel 1786, poi pubblicamente nel 1787, fece rappresentare l'Aristodemo, che riscosse strepitosi applausi e suscitò per converso invidie e gelosie. Seguì nel 1788 una tragedia d'argomento attinto alla storia italiana dell'estremo Medioevo, Galeotto Manfredi, in cui sono palesi le derivazioni dal teatro di Shakespeare tradotto in francese da P. Letourneur: sotto il nome di Zambrino una specie di Iago vi agisce, personaggio chiaramente allusivo a Giuseppe Lattanzi, uno dei nemici romani del M., ch'egli ritroverà in Lombardia demagogo, giornalista e, se la voce pubblica non mentiva, confidente di polizia presso i successivi governi. Una terza tragedia, Caio Gracco, di cui il primo atto fu scritto a Roma nel 1788, non fu finita se non dodici anni più tardi. Ma il M. non era nato per il teatro: le sue tragedie si raccomandano soltanto per i pregi letterarî e oratorî (nel senso migliore dei due aggettivi) che distinguono gli altri suoi scritti. Tra quelli di questo tempo, sempre d'ispirazione eclettica, come voleva la mobile musa del poeta letterato, giova ricordare i quattro sonetti accademicamente drammatici Sulla morte di Giuda (1788), che gli procurarono la biliosa inimicizia dell'improvvisatore Francesco Gianni (anche questi ritrovato più tardi a Firenze e a Milano); gli sciolti Alla marchesa Anna Malaspina della Bastia (1788) per l'edizione bodoniana dell'Aminta, pieni del senso della grande tradizione poetica italiana; e quell'idillico Invito d'un solitario ad un cittadino (1792) nelle cui strofe spira, filtrata attraverso la settecentesca traduzione di Letourneur, un'aura del teatro fiabesco di Shakespeare.
Il 3 luglio 1791 aveva sposato una giovinetta romana di meravigliosa bellezza, che cinque anni prima, sedicenne, aveva rappresentato la parte di Cesira nell'Aristodemo, Teresa Pikler (1769-1834), figliola dell'oriundo tirolese Giovanni, famoso incisore di pietre dure, dalla quale ebbe due figli, Costanza (v. appresso; v. anche perticari) e Giovan Francesco (1794-1796).
A compiere il quadro della vita romana del M. prima della procella rivoluzionaria è indispensabile la lettura dell'epistolario, in cui l'uomo loquace o almeno facile allo scrivere, sincero in fin dei conti, anzi a volte impulsivo, si scopre tutto al lettore curioso: accanto alle lettere tempestose, degne della Nouvelle Héloïse, che si riferiscono alla passione per la bionda Carlotta, vi sono quelle del corteggiatore di patrizî e prelati e quelle di carattere borghese, familiare e perfino gastronomico, in cui parla di cioccolata sorbita in casa di questo o quell'ecclesiastico, ovvero di coteghini e formaggi da inviare dalle tenute paterne in omaggio ai suoi protettori; e un posto a parte meritano certe lettere tra gli anni 1782 e 1787 che ci aprono curiosi spiragli sulla tresca pot-au feu con la sua bella padrona di casa, la veneziana Clementina Fantini maritata al romano Paolo Ferretti, lettere in cui non mancano le parole grasse e i particolari casalinghi meno poetici, ma che offrono a volte, improvvisati currenti calamo, pezzi di bravura d'inaspettata freschezza.
Allo scatenarsi della tempesta politica che sconvolse e rinnovò l'Europa, il M. aveva ormai tutte le corde alla sua lira. Lira, come s'è detto, di poeta letterato, di quelli cioè da cui la vita e la storia non traggono accenti di profonda umanità, ma che dinnanzi agli avvenimenti hanno pure una loro commozione tutta umanistica, bisognosa di riversarsi e plasmarsi subito in forme e modi tradizionali di bellezza che vengano, per dire così, a consacrare la vita e la storia.
Giova a questo punto mettere in chiaro due cose. La prima è che il suo tipo di bellezza formale il M. lo vagheggia ormai intero negli anni maturi del suo soggiorno romano: ideale arcadico, senza dubbio, ma che forse meglio s'intenderebbe mediante un confronto con le arti belle, segnatamente con la pittura, come già abbiamo accennato, e non con quella severa e statuaria del Mengs e del David, ma con la settecentesca italiana, che veramente nella sua gloriosa teatralità appare conclusiva d'un'era, ma poi in certe aspirazioni realistiche e in certi effetti felicemente raggiunti sembra ricollegarsi, di qua dal neoclassicismo, alla nuova pittura romantica. Chi ben guardi, il M. non progredirà più dopo il periodo romano, neppure nel senso del neoclassicismo: ben più neoclassico al confronto (non diciamo empire) è il misurato e oraziano Parini: neoclassico e empire il M. sarà tutt'al più in alcune poesie d'occasione, di carattere ufficiale. Né deve fare illusione la novità degli argomenti proposti via via alla sua impetuosa immaginazione dall'incalzante storia contemporanea: la novità è appunto negli argomenti, non già nello stile, che ormai resterà tale quale sino alla fine. Né coscienza nuova né arte nuova, ma (questa è l'altra cosa da mettere in chiaro) una sincerità della mobile immaginazione, che trae il cuore al consenso, anche se la dignità del carattere vi scapiti e l'egoismo vi trovi più o meno inconsciamente il suo tornaconto. Detto questo, appaiono alquanto rigoristici, anche se non del tutto gratuiti, i biasimi di quanti hanno rinfacciato al M. la fiacca coscienza civile e la scarsa coerenza politica.
Sincero egli era (e il suo carteggio lo prova), quando scrisse la cantica in terzine In morte di Ugo Bassville (1793), comunemente nota sotto il nome di Bassvilliana, nella quale immaginò una visione, come allora si diceva, dantesca, e cioè il pellegrinaggio espiatorio dell'anima di quell'agente del governo rivoluzionario francese (Nicolas-Jean Hugon, detto Bassville), trucidato in Roma a furore di popolo pochi giorni prima della decapitazione di Luigi XVI.
L'anima penitente di Bassville, scortata da un angelo, assiste ai malì in cui la filosofia empia e la conseguente rivoluzione hanno immerso la. Francia e da ultimo all'uccisione del re martire. Il poema, di cui uscirono via via quattro canti, levò alto grido e fu subito caro alla reazione antifrancese.
Numerose edizioni ne furono fatte nel corso di pochi mesi e il M. fu salutato col nome di "Dante ingentilito". Il dantesco della Bassvilliana è in realtà tutto esteriore, cioè in gran parte della macchina, malamente nascosta dall'uniforme magnificenza e sublimità dei versi, nei quali la patina dantesca è troppo visibile, perché non appaia di maniera.
Comunque, la fortuna, che volgeva favorevole alle armi francesi, consigliò al M. di non andare oltre nella stesura della cantica, che restò per sempre interrotta. Dall'epistolario appare che egli, impaurito, avrebbe preferito non averla mai scritta. Si diede allora alla composizione d'un poemetto mitologico, La Musogonia, che poi ripubblicò più volte, mutandone il testo qua e là secondo le differenti opportunità politiche. Tra il 1793 e il 1797 si andò via via liberando dai legami che lo tenevano stretto a Roma, mosso a questo dalla coscienza ancora non bene chiara che la faccia del mondo si sarebbe presto trasformata e dal timore, di rimbalzo, ch'egli dovesse apparire ai fautori dell'ordine nuovo come il poeta della reazione, ma anche dal potere che avevano sulla sua immaginazione quelle idee e parole di libertà, di repubblica, di rinato civismo romano: il suo stato d'animo in quegli anni è documentato particolarmente dalle lettere all'amico G. B. Costabili Containi, nobile ferrarese di principî liberali. Nel marzo 1797, dato uno strappo alla catena, la rompe col suo "padrone" Braschi e fugge da Roma nella carrozza del colonnello Marmont, inviato di Bonaparte al pontefice dopo il trattato di Tolentino, e da Bologna, ormai al sicuro, può dichiarare altamente che ha scosso dalla sua veste "la polvere della corte romana".
La nuova poesia del M., nuova quanto agli argomenti e al colorito politico, incomincia col Prometeo, poemetto rimasto incompiuto, in cui è vaticinata la gloria di Napoleone, coi canti in terzine Il fanatismo, La superstizione e Il pericolo, nei quali, per evidente ammenda della Bassvilliana continuamente rinfacciatagli da vecchi e nuovi nemici e bruciata sotto l'albero della libertà in Milano, la nota giacobina è spasmodicamente sforzata, e con l'inno cantato alla Scala in Milano per l'anniversario del supplizio di Luigi XVI (21 gennaio 1799), nel quale l'ostentato giacobinismo assume nel ritmo travolgente aspetti di truce bellezza. Animata da più vero calore è nella sua raccolta energia la canzone Per il congresso d' Udine (1797), con quel Bonaparte dal gracile corpo e dal cuore eroico in cui il M. vorrebbe salutare il liberatore d'Italia ("men di te stesso che di noi pensoso").
Denigrato e forse sospetto, il poeta si vide per altro contesa la via delle cariche politiche e degli onori e a ogni modo posposto a omiciattoli che altro merito non avevano se non la sfacciata esibizione dello zelo patriottico presso i nuovi governanti. Le vittorie degli Austro-Russi e il conseguente crollo della repubblica cisalpina lo indussero a una nuova fuga, prima in Savoia e poi a Parigi, e oltralpe egli visse un anno aspettando gli eventi. Intanto il colpo di stato di brumaio lo assicurava che quella tregenda giacobina, di cui i suoi malevoli s'eran prevalsi per opprimerlo, era finita per sempre. Marengo venne poi a dilatare il suo cuore di italiano, che s'era avvilito e si avvilirà ancora nei destreggiamenti e nelle adulazioni, ma che ebbe pure i suoi palpiti generosi.
Se la cantica In morte di Lorenzo Mascheroni, ossia la Mascheroniana, in quattro canti e in terza rima, e la tragedia Caio Gracco ripresa e compiuta (tutt'e due pubblicate a Milano nel 1802, ma composte a Parigi nel 1800) s'ispirano nobilmente all'idea civile di una ordinata libertà vittoriosa della licenza demagogica e questa vi è particolarmente bollata nelle risentite allusioni ai nemici del poeta, il palpito del cuore si sente anche più vivo nelle strofette Per la liberazione d'Italia, scritte dopo Marengo, in cui l'ala del canto si leva pura e leggiera e non è facilmente dimenticabile quel "franco Marte" che brandisce fiero l'asta, neoclassico sì, ma pieno di slancio.
Padrone ormai da un pezzo di quella disinvoltura nella maniera grande ch'è la sua qualità più bella, il M. trova nell'assetto napoleonico l'agiata e onorata tranquillità a cui aspirava come uomo e come poeta. Non più le briciole raccolte alla mensa nepotista dei Braschi, ma cariche cospicue e dignità e laute pensioni e donativi imperiali che vengono a ricompensare le offerte della sua musa sull'altare del nuovo nume. Napoleone, da cui aveva sperato invano l'indipendenza d'Italia, e comunque il suo sovrano ideale. Professore dell'eloquenza e poesia (1802-804) all'università di Pavia, dove ogni sua lezione è un avvenimento (se ne hanno dieci pubblicate postume), membro dell'Istituto italiano, storiografo del regno d'Italia, il M. ha in Milano una posizione di prim'ordine, quasi di oracolo delle lettere italiane.
Notevole, a questo proposito, il carteggio ch'egli ebbe in quel tempo con Madame de Staël, non tanto per il platonismo ch'egli oppone ai mal celati allettamenti dell'appassionata corrispondente, quanto per il calore con cui difende i diritti dell'immaginazione nella poesia contro la romantica preminenza del sentimento. Ricorderemo appena, del periodo napoleonico, il polimetro ossianesco Il bardo della Selva Nera celebrante la gloria dell'imperatore 1806), il poemetto in ottave La spada di Federico II (1806), le odi In occasione del parto della viceregina d'Italia (1807), La ierogamia di Creta (per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa), Le api panacridi in Alvisopoli (per la nascita del re di Roma), il melodramma I Pittagorici (1808). Il suo capolavoro di questi anni è la traduzione in sciolti dell'Iliade, per la quale, digiuno com'era di greco, si servì di traduzioni italiane e latine, ma che gli riuscì stupenda per calore e splendore.
Caduto Napoleone e insediatosi in Lombardia il governo austriaco, il M. si piegò, umiliato, a celebrare la restaurazione nelle mediocri cantate Il mistico omaggio (1815) e Il ritorno d'Astrea (1816). Ma il poeta ormai declinante ha ancora accenti schietti nell'idillio Le nozze di Cadmo e d'Ermione (1825), nell'antiromantico Sermone sulla mitologia (1825), che è un'eloquente difesa della sua poetica e della sua poesia, e soprattutto in alcuni sonetti di carattere intimo e in un'affettuosa e dolorosa canzone libera alla moglie. Caratteristica per animosa e briosa polemica è la Proposta di correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, contro il Cesari e i puristi (1817-1826), nella quale gli fu collaboratore il genero Giulio Perticari, marito della bellissima Costanza. La difesa della comune lingua letteraria italiana, del "volgare illustre", e la guerra contro il purismo regionalista e municipalista dei cruscanti movevano in lui, chi ben guardi, dal bisogno di difendere la maniera grande che gli era cara contro quella nuova maniera casalinga e fiamminga.
Ridotto dalla restaurazione in ristrettezze economiche, addolorato per l'immatura morte del genero, via via quasi cieco e paralitico, il M. ritornò vecchio ai sentimenti religiosi della sua giovinezza, ma non gradì che se ne parlasse come d'una conversione. Volle bensì che si bruciasse la sua traduzione inedita della Pucelle d'Orléans di Voltaire (che risale al soggiorno parigino del 1800), ma quelle floride ottave erano state trascritte da altri e furono così salvate. È noto che il Manzoni, parafrasando evidentemente il nome di "Dante ingentilito", ch'era stato dato al M. fin dai tempi della Bassvilliana, ne salutò la memoria con una quartina in cui gli attribuì "il cor di Dante e del suo duca il canto". I posteri ammettono solamente, e in misura molto ridotta, la seconda parte della lode.
Opere: Opere, Milano 1839-1842, voll. 6; Prose e poesie, Firenze 1857, volumi 5 con un discorso di G. Carcano sulla vita e le opere del M. A cura di G. Carducci: Poesie liriche, Firenze 1858; Canti e poemi, ivi 1862, voll. 2; Tragedie, drammi e cantate, ivi 1865; Versioni poetiche, ivi 1869. La Pulcella, che non è compresa in nessuna di queste raccolte, e di cui si fecero edizioni mutile a Bastia (1846) e a Firenze (1869), fu pubblicata integralmente a Livorno nel 1878, a cura di E. Toci, e poi ripubblicata nel 1880, sempre a Livorno, da A. Monti, pronipote del poeta: una nuova edizione ne procurò G. Natali (Roma 1926); ma se ne desidera ancora una esemplata sui fogli autografi e apografi che si conservano nella Biblioteca civica di Bergamo. L'Epistolario si ha in magnifica edizione a cura di A. Bertoldi (Firenze 1928-1931, voll. 6), con tutte le lettere sin qui note del M. e moltissime dei suoi corrispondenti o, comunque, riferentisi a lui: le ricche note biografiche e bibliografiche offrono un materiale preziosissimo agli studiosi. Lo stesso Bertoldi ha curato un'ottima scelta di poesie del M. con illustrazioni e commento, che supera i fini scolastici per cui fu pubblieata (Firenze 1907, 2ª ediz., più volte ristampata).
Bibl.: U. Foscolo, Saggio sullo stato della letteratura italiana nel primo ventennio del sec. XIX, in Opere edite e postume di U. F., XI, Firenze 1862; G. Mazzini, in Indicatore genovese, 18 ottobre 1828 (l'art. è raccolto nel vol. I degli Scritti editi ed inediti, Roma 1877); P. Zajotti, Notizie sulla vita e l'ingegno di V. M., in Biblioteca italiana, ottobre 1828 (riprod. innanzi al vol. I delle Opere ined. e rare di V. M., Milano 1832); K. X. Y. (N. Tommaseo), V. M., in Antologia, ottobre 1828 (riprod. nel Dizionario estetico, 4ª ristampa, Firenze 1867); . Giordani, Ritratto di V. M., in Opere di P. G., XI; G. Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Firenze 1898-1900, I, pp. 92-93, 131-32; II, pp. 139-40 e 152; V, pp. 411-12; A. Monti, V. M., ricerche storiche e letterarie, Roma 1873; C. Cantù, Monti e l'età che fu sua, Milano 1879; L. Vicchi, V. M., le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830, Faenza-Roma 1879-1887, voll. 4; B. Zumbini, Sulle poesie di V. M., Firenze 1894; A. Scrocca, Studi sul M. e sul Manzoni, Napoli 1905; B. Croce, M., in Poesia e non poesia, Bari 1923.
Rassegna montiana, nove numeri pubbl. dal comune delle Alfonsine per le onoranze al M. nel centenario del 1928; E. Bevilacqua, V. M., Firenze 1928; A. Pompeati, V. M., Bologna 1928; E. Allodoli, M., Milano 1929; G. Reichenbach, V. M., Roma 1930.
Per notizie particolareggiate, si veda, oltre l'ed. cit. dell'Epistolario, G. Bustico, Bibliografia di V. M., Firenze 1924, e per le pubblicazioin del centenario del 1928, E. Carrara, Rassegna montiana, in Giornale storico della letterat. ital., XCVII, fasc. 289-290.