PACETTI, Vincenzo
PACETTI, Vincenzo. – Nacque a Roma il 3 aprile 1746, primogenito di Andrea, incisore di gemme, e della romana Lucrezia Saiocchi.
Battezzato nella parrocchia di S. Maria in Trastevere (de Mambro Santos, 2001, p. 203), visse con la famiglia in strada Felice insieme a tre fratelli: Anna Maria (n. 1757), Camillo (n. 1758), anche lui scultore, e Caterina (n. 1768).
Si formò nella bottega di Tommaso Righi e frequentando i corsi della scuola del nudo in Campidoglio. Nel 1762 vinse il primo premio nella terza classe di scultura al concorso Clementino con una copia del S. Giovanni Evangelista di Camillo Rusconi; il 24 novembre 1766 si aggiudicò il terzo premio nella prima classe di scultura all’Accademia di S. Luca con la terracotta Il Faraone riceve Giacobbe e Giuseppe (Roma, Accademia nazionale di S. Luca), dimostrando già in queste prove giovanili versatilità compositiva e notevoli abilità nella resa dei panneggi.
Dal 28 aprile 1766 (data da lui stesso in seguito più volte celebrata) andò a lavorare per Pietro Pacilli, con il quale collaborò fino alla morte di questo nel 1772, quando ne rilevò lo studio presso l’arco della Regina a Trinità dei Monti, avviando una fortunata carriera in proprio come scultore e restauratore.
Nel 1768 arrivò secondo al concorso Balestra con il gruppo Giunone, Giove e Io. Nel 1773 vinse lo stesso concorso con il gruppo Achille e Pentesilea (Roma, Accademia nazionale di S. Luca, collezioni), che coniuga la tradizione del Seicento romano con evidenti riferimenti ai modelli classici: è infatti chiaramente ispirato al Menelao e Patroclo della loggia dei Lanzi e al Gallo suicida della collezione Ludovisi, cui si aggiungono precisi richiami a una scultura antica rinvenuta l’anno precedente a villa Adriana e acquistata dal Museo Pio-Clementino (Nava Cellini, 1988, p. 60).
In questo periodo iniziò a scrivere un diario quotidiano, che testimonia nel dettaglio la sua ricca attività e le intense relazioni sociali con artisti e committenti.
Già dai primi anni Settanta eseguì alcuni restauri come quello del Poseidone per il Pio-Clementino o del busto di Arianna e del Bacco per il Museo Capitolino (1774). Si dedicò anche al disegno dall’antico, copiando numerose sculture presenti nelle collezioni romane, come testimoniano diversi fogli della raccolta di Charles Townley ora al British Museum (Grand Tour, 1997).
Nel 1774-75 realizzò il Monumento funebre di Emanuele Pinto de Fonseca, gran maestro dell’Ordine dei cavalieri di Malta per la chiesa di S. Giovanni alla Valletta, prima commissione per un’opera di grandi dimensioni. In questo periodo la sua produzione appare estremamente varia, spesso orientata anche verso opere in stucco o apparati effimeri tra i quali la macchina scenografica commissionata per il giubileo del 1775 dall’Arciconfraternita del Ss. Rosario di S. Maria sopra Minerva e la macchina pirotecnica disegnata dall’architetto Giuseppe Camporese in occasione della visita a Roma dell’arciduca Massimiliano d’Austria.
Nel 1775 tentò per la prima volta di entrare all’Accademia di S. Luca, ma venne respinto per l’opposizione dello sculture Andrea Bergondi; vi fu ammesso nel 1778 e, tra il 1786 e il 1792, ne divenne custode; dal 1796 al 1801 ne fu principe, presiedendo la seduta del 5 gennaio 1800 in occasione della quale venne ammesso Antonio Canova.
Nell’Accademia si conservano due suoi ritratti: il primo attribuito a Pietro Labruzzi che lo effigiò con in mano la stecca per modellare e, sullo sfondo, un bozzetto riconosciuto come quello della Ninfa di Imera scultura realizzata da Pacetti per villa Borghese; il secondo attribuito ad Anton von Maron e datato intorno al 1790.
Fu nominato anche tra i Virtuosi al Pantheon, di cui fu reggente per quattro volte (Honour, 1960). Il 21 novembre 1777 sposò Teresa Gonzales, sorella della moglie del pittore Laurent Pécheux, dalla quale ebbe dieci figli tra i quali Giuseppe (1782), scultore, e Michelangiolo, pittore (1793).
La seconda metà degli anni Settanta rappresentò nella sua carriera professionale un momento cruciale, in particolare grazie al coinvolgimento nel prestigioso cantiere voluto da Marcantonio IV Borghese per rinnovare completamente la villa Pinciana. Fu impiegato, con diversi altri artisti e sotto la direzione dell’architetto Antonio Asprucci e di Ennio Quirino Visconti, in una molteplicità di incarichi: nella decorazione del casino Nobile, nella realizzazione degli arredi per i giardini e anche nel restauro di numerose sculture antiche conservate nel casino Nobile o destinate al costruendo Museo Gabino, un nuovo spazio voluto dal principe Borghese per esporre gli straordinari reperti della città di Gabii rinvenuti nella tenuta di famiglia a Pantano dei Grifi.
Nelle opere per villa Borghese ebbe modo di dimostrare più apertamente l’orientamento classicista. Per il casino Nobile realizzò, in stucco, diversi rilievi nel salone d’ingresso (Apollo, Danzatrice, Ercole e Iole, Sacrificio di Polissena), due sovrapporte nella sala del Vaso ispirate a un antico rilievo della collezione Mattei (Visconti, 1796, I, p. 32), alcuni rilievi nel salone degli Imperatori, il bassorilievo con Danza di coribanti nella sala dell’Apollo, ispirato a un’opera analoga d’epoca antica conservata nel Museo Pio-Clementino (ibid., II, p. 52), quattro sovrapporte in marmo giallo antico su disegno di Gavin Hamilton (con le raffigurazioni di Apollo, Giove, Marte, Venere) nella stanza di Elena e Paride. Tra gli arredi gli furono commissionati diversi caminetti, tavolini e alcuni modelli per vasi con bassorilievi. Realizzò un nuovo piedistallo per il gruppo di Apollo e Dafne di Bernini e ne progettò la dislocazione e l’orientamento nella sala omonima (Campitelli, 2002, pp. 235, 247); intervenne anche sul basamento del letto dell’Ermafrodito dormiente (oggi al Louvre) con l’aggiunta di due mezze sfingi alate in marmo.
Tra molte sculture antiche, restaurò il Cestiario, cui integrò le braccia (oggi al Louvre ‘derestaurato’; inv. Ma. 148), il gruppo delle Tre Grazie, il gruppo di Ercole e Telefo, il Poseidone Borghese, una Cerere colossale, una statua di Discobolo. Collaborò anche con Visconti al progetto del Museo Gabino e alla realizzazione dei cataloghi a stampa della collezione di antichità (Visconti, 1796; Id., 1797).
Nei giardini della villa realizzò le sculture per il tempio di Esculapio, al centro del lago, integrando la statua colossale del dio rinvenuta negli scavi del mausoleo di Augusto ed eseguendo dieci sculture poste a coronamento del timpano; scolpì inoltre alcuni bassorilievi con soggetti tratti dal Mito di Esculapio. Tra il 1787 e il 1790 realizzò la statua colossale della Ninfa di Imera posta su una roccia a lato del tempio in pendant con un’altra scultura, anch’essa raffigurante una ninfa, opera di Agostino Penna. Sempre nei giardini, tra il 1787 e il 1793, sono attribuibili all’attività di Vincenzo le decorazioni del tempio di Diana, del tempio di Faustina, dell’arco di Settimio Severo e della fontana dei Cavalli marini, per la quale fornì il modello poi affidato per la realizzazione a Luigi Salimei e Antonio Iospi (1790-93).
Pacetti testimonia la vivacità culturale e la pluralità di orientamenti stilistici che animavano la capitale pontificia negli ultimi decenni del Settecento, riuscendo a dosare sapientemente soluzioni formali di gusto rocaille con scelte di orientamento più marcatamente classicista, dalla rigorosa semplificazione formale ed esplicite citazioni dall’antico. Con Canova, che più volte visitò il suo studio per vedere i lavori in corso e la collezione di antichità lì conservata, condivise soprattutto la passione per le sculture antiche e il restauro (Honour, 1960, pp. 176-178). Attivo e prolifico come pochi nella sua epoca, scultore, restauratore e mercante vorace di antichità, dipinti, disegni, stampe e libri, intrattenne rapporti con i principali restauratori (primi fra tutti Bartolomeo Cavaceppi e Carlo Albacini) e con la maggior parte degli artisti stranieri attivi a Roma negli stessi anni, quali gli scultori spagnoli Pascual Cortés, Manuel Olivé e Raimondo Barba, lo scultore svizzero Alexander Trippel, suo agente di collegamento con collezionisti del Nord Europa.
Seguendo la consuetudine dell’epoca, si mise in società per il commercio di antichità con alcuni artisti come Francesco Antonio Franzoni, Francesco Moglia, Lorenzo Cardelli, Giuseppe Valadier o l’incisore di gemme Gaspare Capparoni, con il quale trattò acquisti di dipinti, disegni, stampe e pietre incise. Negli anni Ottanta ampliò talmente la sua attività al punto da dover affittare diverse rimesse per ospitare i magazzini destinati al materiale e per il proprio laboratorio con i molti collaboratori, tra i quali Lorenzo Moglia, Giuseppe Girometti, Mariano Leoncilli e Giuseppe Boschi, che sposò una delle sue sorelle.
Fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta ricevette numerose commissioni religiose: scolpì diverse sculture per la chiesa di S. Francesco a Civitavecchia (1778-80), in parte andate perse nei bombardamenti della seconda guerra mondiale; realizzò la statua colossale di S. Margherita per l’omonimo santuario a Cortona, originariamente destinata a un altare con le spoglie della santa disegnato da Onofrio Boni ma mai realizzato; eseguì alcuni angeli in stucco per l’altare di S. Maria del Pianto a Roma (1784) e progettò quattro statue per la facciata della chiesa della Ss. Trinità a Viterbo in collaborazione con il fratello Camillo, che eseguì materialmente il lavoro (1786-87).
Fu anche versatile ritrattista: spicca, per capacità mimetica e vivacità nella resa dei panneggi, il busto del pittore Marco Benefial (oggi alla Protomoteca capitolina, inv. 8) realizzato per il Pantheon tra il 1781 e il 1783 su commissione di una libera associazione di ammiratori e amici del pittore. Più misurata l’effige di Pio VI scolpita nel 1783 su incarico dell’abate Franceschini di Ancona (oggi nel Museo di S. Agostino a Genova); una convinta adesione agli orientamenti classicisti dimostrano, nel decennio successivo, il busto dello scultore Pietro Bracci, commissionato dal figlio Virginio per il Pantheon (1794-95), e quello dell’ingegnere idraulico Gaetano Rappini (entrambi oggi nella Protomoteca capitolina). Tra il 1784 e il 1785, su commissione di Giovanni Maria Riminaldi (cardinale dal febbraio 1785) e progetto dell’architetto Giuseppe Pelucchi, scolpì, in marmi policromi, il Monumento funebre di Anton Raphael Mengs nella chiesa dei Ss. Michele e Magno in Borgo.
La complessa vicenda di questa commissione, riferita in dettaglio nel Giornale delle belle arti del 23 luglio 1785, fu al centro di una controversia relativa al pagamento dell’opera tra scultore e committente e la conseguente causa giudiziaria provocò la revoca di un’altra commissione, il busto di Pietro Metastasio già ordinato dallo stesso cardinale.
Agli stessi anni risalgono i contatti con Lorenzo Ginori, primogenito di Carlo, fondatore della manifattura di ceramiche di Doccia, per la fornitura di modelli destinati alla produzione. Copie e calchi in gesso d’altra parte aveva fornito già dagli anni Settanta anche ai bronzisti della famiglia Zoffoli.
Nel 1784 Pio VI visitò il suo studio e lo incaricò di eseguire numerosi restauri per le sculture del Museo Pio-Clementino in corso di allestimento: sue sono, per esempio, le integrazioni della grande tazza in porfido posta al centro della sala Rotonda, del Nettuno della galleria delle Statue e della statua di Roma sedente.
La quantità delle commissioni raggiunse proporzioni decisamente ingenti anche rispetto al fiorente mercato dell’epoca. Lavorò al restauro delle sculture in travertino poste a coronamento della facciata della chiesa dei Ss. Apostoli (1785) e fu interpellato per un intervento sulla fontana del Moro in piazza Navona (1795), incarico che però venne aggiudicato ad Alessandro D’Este, che aveva presentato un preventivo più economico. Tra il 1787 e il 1788 si occupò di acquisti e restauri per conto della famiglia Colonna, per la quale integrò il rilievo detto dell’Apoteosi di Omero traendone, come era consuetudine, una copia destinata a John Campbell futuro Lord Cawdor. Per la famiglia Giustiniani si occupò di restaurare, riordinare e riallestire le sculture della Galleria (1788) nell’omonimo palazzo; nel 1787acquisì inoltre alcune opere provenienti dalla villa d’Este di Tivoli (di proprietà di Ercole III D’Este) che rivendette restaurate al papa (fra queste, l’Igea integrata come Pace con Pluto bambino su indicazione di Ennio Quirino Visconti; Picozzi, 1988). Sempre in quegli anni realizzò, su incarico dell’architetto Giuseppe Barbieri, il fregio in marmo con Putti (1787-91) per il gabinetto Nobile di palazzo Altieri.
Anche negli anni Novanta fu molto attivo come decoratore di altari e cappelle sia nella chiesa di S. Salvatore in Lauro a Roma (1791) sia nella basilica della S. Casa di Loreto (1791-92). Fornì i modelli della decorazione che incorniciava la Deposizione di Federico Barocci conservata nella cappella di S. Bernardino nella cattedrale di Perugia (1796-97) e quelli delle sculture in stucco (S. Messalina, S. Barbara, la Beata Angela e S. Eraclio) poste nelle nicchie della cupola della cattedrale di Foligno, commissionati da Andrea Vici ma realizzati da Girometti. In collaborazione con Valadier partecipò al restauro (post 1795) della facciata del duomo di Orvieto realizzando diverse sculture (S. Giovanni Evangelista, S. Giacomo, S. Brizio, S. Costanzo eS. Barbara). Restò invece incompiuta nello studio romano la grande scultura dell’Immacolata Concezione destinata alla sommità della facciata.
Sul finire del secolo approfittò spesso della mutevole situazione politica per mettere a segno una serie di affari rilevanti: per Henry Hope restaurò un gruppo con Dioniso e la Speranza, opera già restaurata nel XVI secolo e da lui trasformata con l’aggiunta di attributi metallici (oggi al Metropolitan Museum di New York). Nel 1797 eseguì per Giovanni Torlonia la stima delle statue della villa fuori porta Pia e per il duca Luigi Lante quella delle sculture conservate nel palazzo di famiglia a Roma; comprò inoltre la Pallade di Velletri (oggi al Louvre), appena emersa dagli scavi, che gli venne però confiscata con l’arrivo dei francesi a Roma nel 1798.
Durante la Repubblica Romana, nel 1798, divenne capitano della guardia civile e fornì i modelli in stucco degli apparati per le celebrazioni della festa della Libertà. L’anno successivo acquistò e restaurò il Fauno Barberini, poi al centro di una lunga vertenza giudiziaria che lo vide in contrasto con la famiglia Barberini la quale alla fine rientrò in possesso della statua (oggi alla Glyptothek di Monaco).
Nel corso della sua lunga carriera Pacetti fece più volte ottimi affari, il più importante dei quali fu, certamente, quello legato all’eredità di Cavaceppi, morto nel 1799, del quale era stato nominato esecutore testamentario. Approfittando di questa posizione e delle contestazioni ereditarie mosse dai familiari del defunto contro l’Accademia di S. Luca, ne acquistò la collezione di disegni (circa 6000 esemplari) a un prezzo decisamente inferiore rispetto al valore stimato pochi anni prima (825 scudi contro i 20.000 previsti inizialmente), usando come prestanome Virginio Bracci. La spartizione dell’eredità Cavaceppi lo trascinò in una vicenda giudiziaria lunga e impegnativa che coinvolse la famiglia Torlonia e Valadier (Gasparri, 1993). L’insieme dei fogli passò poi in eredità al figlio Michelangelo, che li vendette a Gustav Friedrich Waagen, intermediario per gli acquisti dei Musei di Berlino, dove giunsero nel 1843 e ancora si conservano (Kupferstichkabinett).
Nel 1800 portò a termine un ritratto in bassorilievo di Pio VII, lasciato incompiuto da Giuseppe Angelini, per la villa Locatelli a Spoleto (Pietrangeli, 1976). Tra il 1803 e il 1807 realizzò il Monumento funebre del marchese Giuseppe Zagnoni nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina a Roma.
Come la maggior parte degli scultori dell’epoca, quando papa Pio VII decise di allestire il Museo Chiaramonti cercò faticosamente di vendere le sculture rimaste ancora nel suo studio per effetto dell’editto Doria Pamphili del 1802. La valutazione che ottenne dall’apposita commissione presieduta da Canova fu certamente al di sotto delle sue aspettative, ma nel complesso più generosa rispetto a molti altri colleghi nella stessa situazione.
Nel 1804 realizzò diversi restauri e dodici busti copie dall’antico per la villa Ruffinella, residenza di Luciano Bonaparte a Frascati; nel 1808 collaborò agli scavi dell’antica Tusculum, promossi dallo stesso Bonaparte, al quale fornì consulenze e valutazioni e per il quale eseguì restauri delle opere rinvenute.
Coinvolto nella vendita dalla collezione Giustiniani, restaurò la celebratissima Pallade appartenente a quella raccolta, traendone anche diverse copie in marmo.
Morì a Roma il 28 luglio 1820; i funerali furono celebrati nella chiesa di S. Andrea delle Fratte.
Recentemente è stato presentato un testamento olografo datato al 4 dicembre 1814 proveniente da una collezione privata (Guffanti, 2009).
Dei figli di Pacetti, Giuseppe nacque a Roma il 24 marzo 1782. Con ogni probabilità si formò nella bottega del padre che ne incoraggiò la carriera. Nel 1795 partecipò al concorso dell’Accademia di S. Luca per la terza classe di scultura con un copia della Zingarella Borghese e vinse un premio con un modello dal titolo Il Nostro Redentore che compare in forma d’ortolano alla Madonna. In competizione con Pietro Finelli, nel 1801 ottenne il primo premio al concorso Balestra con un gruppo in terracotta raffigurante Ercole e Deianira. Guattani (1809) gli attribuisce una statua di Iride. Nel 1812 fu coinvolto nel cantiere di aggiornamento al gusto classicista del palazzo del Quirinale, dove realizzò un fregio con Imperatori e filosofi. Nel 1814 partecipò con Bertel Thorvaldsen, Francesco Massimiliano Laboureur e Carlo Finelli alla realizzazione della macchina effimera con Il Trionfo della Costanza su progetto dell’architetto Tommaso Zappati per celebrare il ritorno di Pio VII a Roma dopo la Restaurazione. Nel 1819 scolpì il busto di monsignor Alessandro Maria Tassoni per il monumento funebre in Ss. Vincenzo e Anastasio. Tra il 1821 e il 1824 fu accolto tra i numerosi collaboratori dello studio di Thorvaldsen il quale gli affidò la realizzazione di alcune sculture, sulla base dei suoi modelli, per la chiesa di Notre-Dame di Copenaghen: scolpì un gruppo con Padre e figlio e una statua di Fariseo; la scultura dell’apostolo Giovanni, invece, lasciò insoddisfatto lo scultore danese che la modificò trasformandola in un S. Taddeo. Fu ammesso tra i Virtuosi al Pantheon nel 1824. Morì a Roma il 9 marzo 1839.
Michelangelo nacque a Roma il 26 dicembre 1793. Si formò nello studio di Martin Verstappen insieme a Massimo d’Azeglio: con entrambi condivise una duratura amicizia, tanto che il primo sposò sua sorella Arcangela e il secondo fu padrino del figlio Stefano. Visse con la famiglia in via Gregoriana, 36. Nel 1810 vinse un premio all’Accademia di S. Luca e nel 1834 divenne membro della Congregazione dei Virtuosi al Pantheon. Tra gli anni Venti e gli anni Quaranta intrattenne una fitta corrispondenza con d’Azeglio che fece da mediatore con le Gallerie milanesi e torinesi e con Roberto d’Azeglio, allora curatore della Galleria Sabauda, per la vendita di una presunta copia della Gioconda di Leonardo appartenuta al padre Vincenzo (1841). Fu impegnato nella produzione di vedute di stampo piuttosto tradizionale, con particolare attenzione agli avvenimenti e alle cerimonie religiose della Roma papale (diverse opere al Museo di Roma datate e firmate). Forse grazie al fratello Giuseppe riuscì a vendere, nel 1833, a Thorvaldsen due tele con Veduta del Tevere e Grotta di Posillipo (Copenaghen, Museo Thorvaldsen).
Morì, con ogni probabilità a Roma, il 1° aprile 1865.
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