PADULA, Vincenzo
PADULA, Vincenzo. – Nacque a Padula, allora nel Principato Citeriore del Regno delle Due Sicilie (oggi provincia di Salerno), il 16 ottobre 1831, terzogenito di Maurizio, commerciante, e di Luisa Falotico.
La famiglia Padula si era trasferita nell’omonimo paese dalla natia Montemurro, in Lucania, dove vari suoi esponenti erano stati coinvolti nelle lotte a sostegno dei principi costituzionali e liberali. Padula era allora il principale centro abitato del Vallo di Diano, con una popolazione comparabile a quella del capoluogo Salerno. Il suo sviluppo demografico era legato alla vicina certosa di S. Lorenzo, non solo importante luogo di vita monastica e di studio, ma anche centro economico, propulsore e gestore di attività artigianali e agricole all’intero come all’esterno del suo circondario.
Il giovane Vincenzo si avviò alla carriera ecclesiastica, frequentando il seminario di Diano. Al termine del periodo di studio e dopo l’ammissione ai gradi iniziali, venne ordinato sacerdote il 23 dicembre 1854 e, dopo il ritorno a Padula, fu nominato procuratore della ‘chiesa madre’ di S. Michele Arcangelo. Qui si legò ben presto all’attivo movimento liberale, costituito da piccoli commercianti, artigiani, e da qualche notabile, continuatori di una tradizione di fedeltà agli ideali costituzionali risalente all’epoca della Repubblica napoletana del 1799, che aveva potuto contare nel circondario su entusiastici sostenitori, e confermata dalla grande partecipazione registrata alla rivoluzione del 1820-21 e, seppure in misura minore, a quella del 1848.
Diretto da Vincenzo, il comitato liberale di Padula era in contatto con altri comitati nei paesi vicini e nella confinante Lucania, a Montemurro in particolare. Tutta la rete faceva poi capo a Napoli, dove era retta da Giuseppe Fanelli e Luigi Dragone, e, tramite loro, ai circoli costituzionali ai quali era legato Carlo Pisacane, ex ufficiale borbonico in quegli anni in esilio a Genova. Nel corso del 1856 si andò formando in quel gruppo il progetto di un’insurrezione, da suscitare attraverso lo sbarco sulle coste del Regno di una spedizione di armati guidata da un esperto comandante militare. Il progetto fu incoraggiato da Giuseppe Mazzini che vi intravedeva uno strumento per far riprendere l’iniziativa alla corrente democratica del movimento unitario, sopravanzata dai liberali moderati dopo le sconfitte del biennio 1848-49 e l’ascesa del Piemonte cavouriano. Nel lavoro di preparazione che si sviluppò durante il 1856, Padula fu a capo di uno dei comitati più attivi, che si candidava ad assumere un ruolo primario nella strategia insurrezionale, secondo la quale il movimento doveva partire dalle province più inquiete (Principato Citra, Lucania, Calabria) e quindi convergere sulla capitale Napoli.
Alcune lettere scritte in quel periodo da Vincenzo ai membri del comitato napoletano riflettono la sua adesione agli ideali mazziniani, ma anche una limitata comprensione del contesto politico-sociale locale. In una, in particolare, del febbraio 1857, dopo aver affermato che «Padula offre pel nazionale riscatto duecento militi dei quali un terzo incirca è munito di schioppi, pel rimanente poi a me non sembra difficile poterli armare, offerendo questo paese da cento a più fucili», egli scriveva: «i bracciali, ai quali per delicatezza niente si è fatto sapere, quantunque tutto hanno capito, sono tutti a nostro pro, e a ragione perché più degli altri sentono il peso della schiavitù» (Roma, Museo centrale del Risorgimento, Fondo Dragone Morici, b. 346, c. 27). Il passo mostra un limite generale del movimento, che si sarebbe rivelato tragicamente da lì a pochi mesi: l’incapacità di comprendere e di conseguenza di coinvolgere le classi contadine, che rappresentavano all’epoca la stragrande maggioranza della popolazione del Mezzogiorno e che rimasero, infatti, inerti, quando non apertamente ostili, in occasione della spedizione guidata da Pisacane. Tuttavia esso rappresenta anche, e in tal senso è stato richiamato dalla storiografia risorgimentale più critica, un passaggio rivelatore di una sensibilità verso le masse rurali poco frequente all’epoca nei fautori dell’unificazione nazionale e delle riforme liberali.
Alla vera e propria ‘fede mazziniana’, rispondente a una visione in cui l’afflato religioso si coniugava con l’aspirazione politica e il rigore morale, Vincenzo affiancò notevoli capacità organizzative, grazie alle quali diresse efficacemente il comitato della sua ‘piccola patria’ e tenne i contatti con quelli vicini. A Padula, la fitta rete di relazioni e di proselitismo politico che seppe intessere ebbe un carattere spiccatamente intreclassista: si estendeva da alcuni notabili fino a persone di più umile condizione, coinvolgendo anche artigiani, religiosi, negozianti. Restava, comunque, prioritario nella riflessione politica di Vincenzo il ruolo guida di un’organizzazione di insorti, chiamata a sconfiggere con decisione e rapidità un sistema ritenuto privo di reale consenso fra i suoi sudditi.
Annotando che «ostacoli forti a sormontare non ne avremo quante volte si sapranno sorprendere, e sacrificare i pochi corifei del partito opposto» (ibid.), Padula si collocava nel solco dei teorizzatori dell’azione decisiva di un gruppo organizzato, in grado di appiccare la scintilla risolutiva in una situazione di malcontento generalizzato e consolidato: un’opinione molto diffusa nei circoli patriottici e liberali meridionali, che tuttavia tendevano ad aspettare dall’esterno tale azione risolutiva, sempre incerti sull’individuazione del momento più opportuno e adatto all’insurrezione.
L’intensa opera preparatoria di Vincenzo e della sua rete politica fu bruscamente interrotta dal suo arresto, avvenuto il 16 aprile 1857 su mandato del giudice circondariale di Padula. In realtà, già da qualche tempo la gendarmeria borbonica era stata allertata circa l’azione cospirativa del locale comitato insurrezionale, anche grazie ad alcune delazioni di affiliati della vicina Sala. D’altra parte, il comitato, pur operando in clandestinità, per le sue stesse dimensioni e ramificazioni era riuscito con sempre maggiore difficoltà a mantenere un livello di segretezza totale sulle sue attività, tanto più difficile quanto più si moltiplicavano gli apprestamenti in vista del supposto prossimo sbarco di una spedizione militare, annunciata ma non ancora fissata, secondo le notizie provenienti da Genova e trasmesse dal comitato napoletano alle province.
L’arresto di Padula contribuì al fallimento della spedizione che Pisacane intraprese dopo poche settimane, privando l’insurrezione nascente di uno dei suoi principali organizzatori nel luogo della sua prima prova del fuoco. Pisacane stimava Padula, e in risposta al comitato di Napoli che lo aveva definito «prete attivissimo» (De Monte, 1877, p. 116), scrisse il 28 aprile 1857: «Io mi affiderei ad una sola [persona]: al prete Padula; con esso prenderei gli accordi finali pel di sbarco; da esso chiederei le notizie; agli altri non parlerei di nulla, meno che speranza di prossima iniziativa» (ibid., p. 131). Per questi motivi, Pisacane decise di puntare proprio su Padula dopo lo sbarco a Sapri, a conferma dell’importanza attribuita a quel comitato. Ma, priva del proprio capo, l’organizzazione si dissolse, né l’arrivo del Pisacane con il suo contingente di 300 volontari, che mostrava la debolezza di una spedizione militarmente improvvisata e numericamente limitata, poté superare la sfiducia che ormai condizionava e paralizzava i patrioti liberali. Il massacro di gran parte della colonna guidata da Pisacane nei vicoli di Padula, il 1° luglio 1857, per opera del battaglione dei Cacciatori borbonici comandato dal colonnello Giuseppe Ghio, aiutati dalla locale guardia urbana e da quella di Sala, segnò la fine del tentativo insurrezionale.
Nelle prigioni di Salerno dove era rinchiuso, Padula vide arrivare i superstiti sfuggiti alla fucileria e ai forconi, catturati dalle forze regolari. Il procedimento giudiziario a suo carico, come degli altri arrestati prima dello sbarco di Sapri, fu tuttavia tenuto separato da quello dei partecipanti diretti alla spedizione. Dopo vari rinvii, la magistratura borbonica, d’accordo con le alte autorità che volevano evitare un nuovo processo con risonanza internazionale come quello intentato ai superstiti di Sapri, decise di esiliare discretamente gli ultimi detenuti.
Padula partì per Genova il 10 dicembre 1859. La città ligure era in piena effervescenza dopo la conclusione della seconda guerra d’indipendenza e a fronte della possibilità di un’azione verso la Sicilia, per cui era mobilitato l’intero universo democratico. Coinvolto da subito nell’organizzazione dell’impresa guidata da Giuseppe Garibaldi, Vincenzo s’imbarcò con i Mille il 5 maggio 1860 dallo scoglio di Quarto. Come altri volontari, esiliati e provenienti come lui dal Regno delle Due Sicilie, fu inquadrato nella 3ª compagnia, comandata dal colonnello Francesco Stocco.
Lo sbarco a Marsala dell’11 maggio 1860, la marcia fino a Calatafimi, la prima vittoriosa battaglia con le forze regolari borboniche, l’arrivo sulle montagne sovrastanti Palermo: Padula partecipò sempre in prima linea alla campagna che portò in breve tempo i garibaldini alle porte della capitale siciliana. Ma il suo fisico cominciò a risentire delle lunghe marce e a mostrare i primi segni di cedimento. Dopo la battaglia di Palermo, combattuta strada per strada insieme alla popolazione insorta, Padula cadde malato per diversi giorni, stremato, mentre la città festeggiava la liberazione dalla signoria borbonica. Ciononostante, quando la spedizione, rafforzata dall’arrivo di nuovi volontari, riprese la sua marcia alla metà di luglio, Padula volle farne parte, anche se si era appena ripreso ed era ancora debole. Si unì perciò alle colonne che partirono il 16 luglio 1860 da Palermo per investire, quattro giorni più tardi, la munita piazzaforte di Milazzo. Nel corso della sanguinosa battaglia, mentre avanzava nel terreno esposto al fuoco nemico, Padula fu gravemente ferito a un ginocchio e, trasportato nella vicina Barcellona, dovette subire l’amputazione della gamba. Anche dopo l’operazione, condotta senza anestesia, le sue condizioni non migliorarono.
Mentre giaceva in fin di vita, lo raggiunse in Sicilia dalla natia Padula, dopo un viaggio avventuroso, il fratello Filomeno, tra le cui braccia Vincenzo morì il 29 agosto 1860.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Salerno, Gran Corte Criminale - I, b. 202, f. 16; b. 206, f. 5; Gabinetto Intendenza, b. 55, f. 11; Roma, Museo centrale del Risorgimento, Fondo Dragone Morici, bb. 346, f. 27; 348, ff. 16, 17; Fondo Giacinto Albini, ms. 1024; Fondo Francesco Sprovieri, b. 508, f. 1; Sezione iconografica, cass. 1.B; necr., Giornale ufficiale di Napoli, 28 settembre 1860. Inoltre: L. De Monte, Cronaca del comitato segreto di Napolisulla spedizione di Sapri, Napoli 1877, pp. 68, 92 s., 104, 109, 116, 131, 212; A. Ricci, Tre sacerdoti salernitani garibaldini dei Mille, in Rass. stor. del Risorgimento, XLIII (1956), 3, pp. 533-538; L. Cassese, La spedizione di Sapri, Bari 1969, ad ind.; G. Greco, Le carte del comitato segreto di Napoli (1853-1857), Napoli 1979, ad ind.; E. Padula, V. P.: sacerdote, cospiratore, garibaldino, in Garibaldi e i garibaldini in provincia di Salerno, a cura di L. Rossi, Salerno 2005, pp. 183-202; Id., V. e Filomeno P. Due fratelli nel Risorgimento italiano, Soveria Mannelli 2006.