SCARAMUZZA, Vincenzo
SCARAMUZZA, Vincenzo. – Nacque a Crotone il 19 giugno 1885 da Francesco, insegnante, e da Carolina Macrì.
Allievo del padre, modesto musicista che sbarcava il lunario dando lezioni di vari strumenti, Scaramuzza esordì a sei anni nella sua città, prendendo parte a un concerto, e si esibì poi di frequente in Calabria. A dodici anni superò l’esame d’ammissione al conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli e venne destinato alla classe di pianoforte di Florestano Rossomandi.
La scuola pianistica napoletana era allora la più prestigiosa d’Italia: l’aveva fondata Beniamino Cesi, che, pur senza esserne stato l’allievo, aveva frequentato Sigismond Thalberg, il rivale di Franz Liszt celebre in tutto il mondo, che, ritiratosi dal concertismo attivo, si era stabilito a Posillipo. Rossomandi era stato allievo di Cesi, ma ne aveva sviluppato la didattica aggiornandola sulla base delle nuove teorie che si andavano affermando verso fine secolo.
Scaramuzza si diplomò a pieni voti nel 1905, e l’anno dopo tenne vari concerti in diverse città. Non sono pervenuti i programmi, ma da alcune recensioni apparse su quotidiani si ricava che le sue scelte evidenziavano un indirizzo culturale allora insolito in Italia, e non solo in Italia. Ad esempio, la recensione apparsa il 6 marzo 1906 su L’Ora di Palermo, riguardante un concerto tenuto per i professori e gli allievi del locale conservatorio, menziona le sonate op. 53 e 111 di Ludwig van Beethoven e le Variazioni su un tema di Händel di Johannes Brahms. Il 18 dicembre dello stesso anno Il Popolo romano cita le sonate op. 57 e 109 di Beethoven e la sonata di Liszt; il giornale parla in questo caso di un concerto nel Salone Umberto, ma non risulta chi l’avesse promosso né se fosse a pagamento o per inviti. Di concerti tenuti a Milano, Venezia e altrove restano notizie indirette e vaghe. Se le scelte programmatiche documentate nelle recensioni citate furono proposte anche in concerti pubblici a pagamento, se ne dovrebbe concludere che l’indirizzo culturale di Scaramuzza era sorprendentemente simile a quello del quasi coetaneo Artur Schnabel, che in Germania stava presentando programmi innovativi rispetto alla consuetudine.
Nel 1906 Scaramuzza soggiornò a Roma, probabilmente per conoscere e farsi conoscere nell’ambiente, in vista del concorso a cattedre nei conservatori che si sarebbe svolto presso l’Accademia di S. Cecilia. Il concorso fu celebrato all’inizio di dicembre. Ventitré i partecipanti, due gli idonei: Attilio Brugnoli e Scaramuzza, classificati in quest’ordine. Anche Brugnoli era stato allievo di Rossomandi (sarebbe poi diventato il maggior teorico italiano di tecnica e avrebbe pubblicato nel 1926 il grande trattato Dinamica pianistica): a seguito del concorso ebbe assegnata una cattedra di pianoforte principale nel conservatorio di Parma; Scaramuzza ebbe invece una cattedra di pianoforte complementare nel conservatorio di Napoli. Prese servizio il 1° febbraio 1907. Ma l’8 aprile, avendo firmato un contratto quinquennale per la filiale di Buenos Aires del liceo musicale di S. Cecilia, si imbarcò per l’Argentina, che divenne poi la sua seconda patria, sebbene non ne prendesse mai la cittadinanza.
Dell’insegnamento svolto nei primi cinque anni del soggiorno bonaerense, e dell’attività concertistica di cui parlano i biografi, non vi è notizia certa. Scaramuzza dovette però aver successo, tanto che allo scadere del contratto, nel 1912, aprì la propria scuola, denominata Accademia di musica Scaramuzza. Esisteva a Buenos Aires un conservatorio nazionale, ma chiunque se la sentisse di correre il rischio poteva aprire una sua scuola, che in genere consisteva logisticamente in alcune stanze dell’appartamento di residenza. Scaramuzza cominciò a insegnare intensamente, senza però abbandonare l’attività concertistica. Suonò nelle due Americhe e in Europa. Questa attività continuò, non intensamente ma regolarmente, fino al 1919, poi diradò e cessò del tutto nel 1923 (si ricorda un concerto tenuto a Berlino, dedicato a Beethoven, presente Ferruccio Busoni, che si congratulò con il pianista). Dopo di allora nessuno, tranne i familiari, sentì più Scaramuzza suonare. Nemmeno gli allievi, perché il maestro non esemplificava al pianoforte. La ragione ufficiale dell’abbandono dell’attività concertistica fu il cosiddetto trac, o ‘patologia del palcoscenico’, che provoca in chi ne è vittima ansia, nervosismo, sudorazione delle mani, perdita intermittente della memoria. Ne patiscono molti concertisti, e in genere ne mantengono il controllo con vari sistemi psicologici e farmacologici. Scaramuzza preferì rinunciare. Resta tuttavia il dubbio che il successo ottenuto come concertista non fosse tale da soddisfarlo, e che il trac, almeno in via di ipotesi, potesse avere origine psicosomatica.
Nel 1920 sposò Sara Bagnati (nata nel 1896), ex allieva: dal matrimonio nacquero quattro figli (due morirono giovani).
Dal 1923 alla morte Scaramuzza fu un insegnante di pianoforte che molto saltuariamente prese in mano la bacchetta per dirigere i concerti con orchestra eseguiti dai suoi allievi; e fu un compositore che solo molto in là con gli anni, nel 1961, fece eseguire a Buenos Aires una sua composizione sinfonico-corale ispirata all’Amleto di William Shakespeare.
Morì a Buenos Aires il 24 marzo 1968, al termine di una vecchiaia non felice, afflitto da una grave forma di asma.
Nel 1955 aveva perduto un’altra figlia, Conchita (nata nel 1918), che collaborava con lui, morta in un incidente alla vigilia del matrimonio. Nel 1964 era rimasto vedovo. L’unico figlio sopravvissuto, Riccardo (nato nel 1923), intraprese la carriera di medico.
La sua fama di didatta fu molto alta e molto salda in Argentina. Ebbe una legione di allievi e si valse come assistenti della sorella Antonietta, da lui chiamata a Buenos Aires, e della moglie. Non tenne altri corsi all’estero. Si guadagnò la stima di concertisti di giro che sostavano per qualche settimana a Buenos Aires, ma non scrisse alcun trattato che potesse farlo conoscere fuori dall’Argentina. La sua fama internazionale di didatta arrivò soltanto negli anni Cinquanta, quando la sua allieva Martha Argerich, giovanissima, vinse in poche settimane i titolatissimi concorsi di Bolzano e di Ginevra (1957), e fu confermata dal terzo premio conquistato da un altro suo allievo, Bruno Leonardo Gelber, nell’altrettanto importante Concorso Long-Thibaud di Parigi (1961). La pur tardiva fama internazionale suscitò interesse per la didattica di Scaramuzza. Ma i tentativi di ricostruirla poterono basarsi soltanto sulle dichiarazioni degli allievi, nessuno dei quali possedeva una specifica competenza di teorico e di storico dell’esecuzione pianistica.
Nella didattica di Scaramuzza quale viene delineata dagli allievi ci sono aspetti pittoreschi che del resto si riscontrano nella maggioranza dei didatti nati nell’Ottocento. Severità estrema, controllo implacabile, dogmatismo artistico, scoppi d’ira irrefrenabili, insulti. Tutto ciò era ritenuto necessario per ‘domare’ i ghiribizzi degli allievi e per formarli alle esigenze di un gusto raffinato e dell’eleganza aristocratica nel porgere. Il docente era cioè un padre-padrone. Ma tutti gli allievi, dopo aver evocato il cattivo carattere di Scaramuzza, si affrettano ad aggiungere che la sua bontà d’animo e la sua pazienza erano infinite e che infinita era la sua devozione per l’arte. Non sembra che Scaramuzza cadesse nella trappola che era (ed è ancora) così frequente nella didattica pianistica: l’apprendimento della tecnica separato dall’apprendimento della musica. Tutti gli allievi si trovano concordi nell’affermare che Scaramuzza non faceva fare esercizi di tecnica pura, e che semmai li ricavava, gli esercizi, dalla letteratura. Questo principio è stato introdotto nella didattica da Alfred Cortot, il quale però lo sviluppò senza rinunciare alla bardatura delle astrazioni tecniche. A quanto si può capire, Scaramuzza agiva invece in modo pragmatico e senza impartire regole generali, bensì adattando alle caratteristiche e alle necessità contingenti del singolo allievo i principi che lo guidavano. Possedeva conoscenze di anatomia e di fisica che poteva forse aver appreso dal trattato del suo compagno di studi Brugnoli; ma al contrario di questi non era un ideologo né un mistico della tecnica. Da quanto dicono gli allievi si deduce anche che Scaramuzza non faceva ‘lavorare’ sistematicamente gli Studi di Fryderyk Chopin, ritenuti ai suoi tempi una tappa imprescindibile dell’apprendimento tecnico; era invece implacabile, fino alla pignoleria, nella ricerca del suono, e di un suono differenziato autore per autore. I pezzi venivano studiati molto lentamente, per mesi e mesi.
L’impressione, non positiva, che si ricava dai ricordi degli allievi è che Scaramuzza intendesse perseguire un ideale e renderne automatica l’esecuzione quando fosse stato raggiunto. Ma nessuno degli allievi che hanno lasciato ricordi del suo insegnamento ha saputo uscire dal generico e dall’aneddotico, e nessuno ha argomentato sulla base di esempi specifici e su particolari tratti dalla letteratura. La conclusione che se ne trae è che Scaramuzza dovette essere un abile didatta, fortemente intuitivo, capace di formare e indirizzare gli allievi, ma poco o niente interessato a prendere parte al dibattito sull’insegnamento del pianoforte che, iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento, toccò il culmine nel terzo decennio del Novecento.
Fonti e Bibl.: M.R. Uobiña de Castro, Enseñanza de un gran maestro, Vicente S., Buenos Aires 1973; A. Lavoratore, L’arte pianistica di V. S., Roma 1990; P.I.E. Panzica, V. S., il maestro dei grandi pianisti, Monza 2012; S. Colombo, Vicente S. La vigencia de una escuela pianística, El Ejido 2015.