BREDA, Vincenzo Stefano
Nacque a Limena (Padova) il 30 apr. 1825 da Giovanni e da Angela Zanon, in una famiglia di piccoli commercianti che era imparentata ad un altro ramo dei Breda, quello di Felice Luigi, padre di Ernesto. Laureatosi a Padova in scienze matematiche (1847), prese a lavorare come dipendente della locale ditta di costruzioni ferroviarie Talachini. Partecipò alla prima guerra di indipendenza e nel 1848 combatté a Sorio e Montebello con le truppe del generale Sanfermo, guadagnandosi una medaglia al valor militare. Più tardi sarà tra i finanziatori della costruzione degli ossari di Solferino e San Martino.
Dal 1854, lasciata la Talachini, il B. si metteva in proprio, avviando la Società per le strade ferrate dell'Italia centrale. Nel 1859 a Genova, insieme con N. B. Accini e G. Bernardi, tentava l'avvio di una società per l'impianto di un'officina di gas portatile, progetto che insieme con un altro, volto a creare un'iniziativa analoga a Venezia, fu poi subito ceduto a una società francese.
Nel 1866 veniva eletto consigliere comunale a Padova e nello stesso anno deputato del 20 collegio della stessa città. L'attività del B. come uomo d'affari e quella politica e parlamentare furono strettamente connesse. Appoggiò i governi della Destra fino al 1876, quando si aggregò al gruppo di deputati toscani che determinarono la caduta dell'ultimo ministero Minghetti (Carocci, p. 49). I suoi precedenti di patriota, la sua posizione in ascesa di finanziere e uomo d'affari lo legarono alla classe dirigente politica del tempo e in particolar modo al ministro delle finanze Cambray-Digny.
Nel 1872 si costituiva a Padova la Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche di cui il B. divenne presidente estendendone l'attività in una serie di settori diversi, dalla costruzione degli acquedotti di Venezia e di Napoli, alla costruzione del ministero delle Finanze di Roma e alla costruzione e gestione di vari tronconi della rete ferroviaria veneta e lombarda, oltre alla cointeressenza e al controllo di numerose altre società, e ad operazioni quali l'appalto dei porti di Genova, di Palermo e così via (cfr. La Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche, Bassano 1881; Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche: l'acquedotto di Napoli, ibid. 1883).
L'attività della Società veneta ha dunque come uno dei suoi punti di riferimento costante la politica di opere pubbliche dello Stato unitario. Il B., grazie alla sua attività parlamentare e politica, giocò certamente un ruolo essenziale nella determinazione di questo indirizzo, ma ebbe tuttavia fin dagli inizi una visione imprenditoriale più larga. Mentre da un lato tendeva tacitamente a stabilire una intesa con gli altri potenti gruppi finanziari del tempo che facevano capo al Bastogi, al Bombrini e al Parodi attraverso i comuni interessi che li legavano alla Banca Generale, che sarà non a caso uno dei principali canali di finanziamento al momento della costruzione delle acciaierie di Terni, dall'altro, avvertendo il carattere congiunturale del boom edilizio e i limiti della espansione delle opere pubbliche statali, fin dal 1867 aveva puntato sullo sviluppo di altri settori della spesa pubblica, in particolare quello degli armamenti. In quell'anno, all'indomani dell'annessione del Veneto, con l'on. Fambri proponeva al Cambray-Digny un progetto di legge per una sottoscrizione nazionale per gli armamenti e l'industria bellica (Guaita, p. 295).
In particolare il progetto prevedeva la costruzione di fabbriche per fucili e cannoni, non nascondendosi nel contempo che tali scelte produttive comportavano un vero e proprio salto qualitativo nel settore della metallurgia con l'introduzione dei convertitori Bessemer - cui seguirono i più perfezionati forni Martin-Siemens - impianti di base di cui l'Italia non era dotata.
Il progetto del B. non ebbe seguito; i tempi non sembravano ancora maturi per un'iniziativa di tale portata, che implicava, attraverso una formula ibrida di finanziamento e gestione a metà pubblica e privata, un grosso sforzo di bilancio che mal si adeguava al vasto deficit statale del 1866.
Interprete dei disegni di sviluppo industriale di uno dei maggiori gruppi finanziari del paese, il B. venne acquistando presso la classe dirigente politica del tempo fama di uomo esperto e preparato con la qualificata sua partecipazione ai dibattiti parlamentari; nel 1867 elaborava un progetto di legge per l'alienazione dei beni ecclesiastici e interveniva nella discussione a favore dell'abolizione della vecchia tassa del 4% sull'entrata fondiaria, che interessava il Veneto, in contrasto con la posizione del governo (su questi problemi cfr. dei B., anche, Agli elettori del secondo Collegio di Padova, Firenze s.d. [ma 1867]). Il tema centrale della sua attività parlamentare e politica rimase quello dello sviluppo nazionale dei nuovi settori produttivi della siderurgia e della connessa industria bellica.
Nel 1871 tornava sull'argomento in un intervento alla Camera dei deputati con un'angolatura diversa dal progetto presentato al Cambray-Digny nel 1867. Non più un progetto isolato, ma la proposta di un piano organico di spesa pubblica a carico dei bilanci della marina e della guerra, tale da offrire delle possibilità di sviluppo a nuove imprese nazionali. Su questo terreno andò maturando il suo accordo con gli uomini della Sinistra, il Depretis, lo Zanardelli, il Brin, il Genala, ("ministri intelligenti e veramente patriottici" come li definirà lo stesso B. in una lettera al Depretis), divenendo, dopo il 1876, "il fautore ante litteram della nuova politica di armamenti del governo (Guaita, p. 300).
II B. lasciava la Camera dei deputati nel 1879; l'anno precedente era stato protagonista di uno scontro parlamentare col Depretis durante la discussione sul riscatto e la concessione di nuove licenze di tratti di ferrovia nel Veneto; pochi mesi dopo votava contro il bilancio preventivo presentato dal deputato di Stradella.
Queste ultime vicissitudini parlamentari del B. non allentarono tuttavia i suoi legami con la classe dirigente; con la nuova maggioranza parlamentare maturavano i tempi per l'avvio di una diversa politica di sviluppo industriale del paese. È in questo ambito che si colloca l'iniziativa della fondazione della Terni, che fu, anche se non l'unico, l'episodio centrale di questa svolta della politica economica nazionale. La decisione di produrre acciaio su scala industriale con tecniche non tradizionali implicava necessariamente una revisione del sistema tariffario del settore, strada sulla quale il governo si era avviato fin dal 1878 con la prima revisione organica delle tariffe doganali. Occorreva inoltre, per avviare gli impianti, un solido quadro finanziario e, dopo aver scartato l'alternativa di una gestione statale della nuova industria siderurgica, la scelta di un gruppo industriale privato che si facesse carico della costruzione e gestione degli impianti.
Nel 1883, per iniziativa dell'allora ministro della Marina Acton, si costituiva la Commissione delle industrie meccaniche e navali, al fine di indagare quali fossero le industrie italiane atte a sostenere un programma di armamenti navali, così da affidare le commesse statali ad imprese italiane piuttosto che estere, come era avvenuto nel passato. I risultati dell'inchiesta furono resi noti nel 1885, ma prima di essi Benedetto Brin, che era stato uno degli animatori dei lavori della commissione, divenuto ministro della Marina, sulla base delle indicazioni di questa, si era fatto promotore della costituzione dei nuovi impianti ternani per la fabbricazione di corazzate d'acciaio per la marina militare .
Brin mosse dalla convinzione che solo l'iniziativa della Società veneta meritava l'affidamento del governo e negli ultimi mesi del 1883 avviava col B. le prime trattative per la costituzione della nuova società. Pochi mesi dopo, nel maggio 1884, il B., in proprio e come presidente della Società veneta, dava il via all'"affare Terni". Il nucleo iniziale della nuova società venne costituito dalla vecchia società in accomandita Cassian Bon che gestiva a Terni una fonderia produttrice di tubi di ghisa, il cui capitale era stato acquistato per la maggior parte dal B., e che con delibera dell'8 apr. 1884 si trasformava in Società degli altiforni fonderie ed acciaierie di Terni.
La localizzazione degli impianti a Terni fu determinata da un concorso di ragioni, tra le quali l'esistenza degli impianti della Cassian Bon, le possibilità energetiche della zona e motivi di strategia militare.
Alla formazione del capitale sociale della società nel giro di pochi mesi contribuirono il B. in persona, la Società veneta, un gruppo di capitalisti e banchieri veneti, i maggiori istituti di credito: in pratica tutti i rappresentanti più in vista delle forze capitalistiche impegnate nel boom di investimenti che allora era in pieno svolgimento. Lo Stato aveva preso l'impegno di anticipare 12 milioni sul conto delle future forniture dell'impresa; e di assicurare l'acquisto di 8.500 tonnellate di piastre per la corazzatura delle navi, cioè, in pratica, di una quantità di prodotto che desse lavoro agli stabilimenti per il tempo sufficiente ad ammortizzare le previste spese di impianto.
La costruzione degli impianti cominciò subito. Sul momento i finanziamenti erano assicurati dai versamenti che gli azionisti si erano impegnati a fare con la sottoscrizione del capitale. Gli istituti di credito assicuravano altri mezzi e il collocamento delle azioni.
Gli immobilizzi per la costruzione degli impianti risultarono tuttavia ben presto superiori al preventivo per le implicazioni tecniche connesse alla dimensione dei nuovi stabilimenti, che non erano state adeguatamente previste. In un primo tempo il B. si orientò, per superare le difficoltà, in un programma ambizioso di ampliamento degli obiettivi di partenza, che doveva impegnare la Terni direttamente nella produzione di ghisa, e che se fosse andato in porto avrebbe anticipato di un quindicennio la completa strutturazione dell'industria siderurgica italiana.
Il B. espose i suoi progetti il 17 ott. 1886 in occasione dell'assemblea straordinaria degli azionisti convocata per autorizzare l'aumento di capitale da 12 a 16 milioni e una emissione obbligazionaria di 16 milioni di lire. All'aumento di capitale e alla nuova emissione di obbligazioni era connesso il piano di espansione che si svolgeva lungo le seguenti direttrici: acquisto delle miniere della val Trompia e costruzione in loco di altiforni e officine per produrre la ghisa; costruzioni di altiforni a Civitavecchia; acquisto delle miniere di ligniti a Terni e Spoleto; costruzione di un altoforno di riserva a Terni; sviluppo delle acciaierie di Terni. Sulla base di questo piano di immobilizzi che ammontavano a 30 milioni l'organizzazione amministrativa e industriale della Terni si sarebbe dovuta suddividere in cinque "distinte" aziende "con bilancio separato loro proprio".
Il piano del B. mirava a risolvere il "problema della ghisa"; la produzione della ghisa in Italia, assai limitata, avveniva con metodi tradizionali usando il carbone a legna; per la produzione dell'acciaio poi venivano usati in prevalenza rottami. Era stata proprio la costituzione della Terni a porre il problema di massicce importazioni di ghisa per la produzione dell'acciaio. Il B. osservava nella relazione che "in Italia non solo non fabbrichiamo ma neppure lavoriamo la ghisa, l'estero ci fornisce purtroppo il ferro e l'acciaio come li fornisce alle sue colonie". Di qui la preoccupazione che un impianto come quello ternano, che era avviato già alla produzione di 130-140 mila tonnellate di acciaio con un consumo di ghisa di 150 mila tonnellate annue, rimanesse "esposto al pericolo di trovarsi senza materie prime", onde il progetto di sfruttare il minerale dell'Elba e della val Trompia e i progettati impianti siderurgici di Civitavecchia.
Quando il programma venne reso pubblico le spese per realizzarlo erano già iniziate nelle miniere umbre di lignite, in val Trompia, e a Civitavecchia, ove il B. aveva fatto acquistare un'area di 320.000 mq per realizzarvi nuovi impianti.
Il programma industriale del B. però doveva subire quasi subito una brusca interruzione ed era destinato ad essere poi abbandonato. Anzitutto le spese per la costruzione dei nuovi impianti e per completare quelli già in fase di avviamento dell'acciaieria ternana si rivelarono quasi subito superiori a quelle preventivate, per ragioni tecniche e per un'errata impostazione dei progetti. Ad un certo punto, verso la metà del 1887, vennero addirittura a mancare i fondi per le spese correnti dell'attività produttiva, per il pagamento delle ordinazioni già effettuate, e questo avveniva proprio nel momento in cui la società non poteva contare su introiti per vendite di prodotti.
La gestione del B. fu presto oggetto di critiche e dette l'occasione per una campagna di stampa che doveva aggravare pericolosamente le difficoltà della Società Terni. Nel contempo la mutata congiuntura monetaria, consigliando le banche di contenere gli impegni di finanziamento già presi, contribuì ad aggravare le conseguenze degli errori di direzione dell'impresa. Per primo il Credito mobiliare si rifiutò di ampliare il fido concesso, sul quale, appunto, il B. contava per proseguire nel suo ambizioso progetto, ed anzi chiese alla società di cambializzare i crediti già ricevuti.
La posizione del B. si fece insostenibile, mentre la società stava per sospendere i pagamenti. L'ing. Alessandro Casalini, un dirigente della Società veneta, assunse allora, di fatto, la direzione della Società, pur mantenendo il B. la carica di presidente, ottenendo che un gruppo di banche e di banchieri consorziati accettasse di fornire una nuova sovvenzione, superando così la crisi di fiducia delle banche e degli ambienti finanziari creditori. Ma l'elemento determinante per il superamento della crisi fu l'intervento del governo che venne offrendo nuove anticipazioni per 5, 8 milioni per una grossa fornitura di 2.500 tonn. di corazzate. La Banca nazionale anche intervenne consentendo, con l'allargamento ulteriore degli sconti, la costituzione del Consorzio di banche e banchieri. Era tuttavia evidente che la Terni restava in vita solo perché se ne impediva il fallimento con la creazione di moneta da parte degli istituti di emissione in un momento congiunturale difficile che vedeva esplodere la crisi edilizia.
Le conseguenze della crisi edilizia d'altra parte, congiunte alle vicissitudini della Terni, crearono grosse difficoltà alla Società veneta e di conseguenza al B., il quale in un primo momento si vide affiancato il Casalini, come vicepresidente della Terni, alla direzione della Società, nel momento più acuto della crisi di questa (maggio 1887); aggravandosi poi la posizione della Società veneta nel 1891 dovette lasciare la presidenza e l'intera responsabilità di dirigere l'impresa al Casalini, conservandovi per altro la carica di vicepresidente.
Allontanato dalla direzione dell'azienda, il B., che nel 1890 era stato nominato senatore, dovette attendere il 1894, l'anno del secondo salvataggio della Terni, per tornare alla presidenza della Società. La gestione Casalini, malgrado l'opera di consolidamento svolta, il tentativo di aprire alla Terni la strada delle produzioni commerciali, con l'acquisto dello stabilimento di Savona (1892), non riuscì tuttavia a risolvere quello che era il problema centrale della Società, e cioè di disporre dei mezzi finanziari necessari per ridurre il cospicuo e oneroso indebitamento bancario, che impediva tra l'altro alla Società di trarre vantaggio da approvvigionamenti di materie prime contro pagamenti non dilazionati. La situazione finanziaria della Società, quindi, doveva nuovamente farsi critica al momento della crisi bancaria che provocò la chiusura degli sportelli del Credito mobiliare.
Solo allora il problema dei debiti della Terni poté trovare una definitiva soluzione. La Banca d'Italia infatti subentrò allora alla Banca nazionale e agli altri istituti sovvenitori nei crediti verso la Società veneta e la Terni; venne impostato un piano decennale di ammortamento di detti debiti; il nuovo istituto di emissione ebbe garantito il buon fine dei suoi crediti dalla Società veneta contro deposito della sua partecipazione nella Società Terni, nel quadro di una generale sistemazione dei rapporti finanziari tra la Terni, la Società veneta, i cessati istituti in liquidazione e la Banca d'Italia.
Il salvataggio del 1894, creando una nuova situazione all'interno del gruppo di controllo, permise al B. di tornare alla presidenza della Terni.
Il vecchio gruppo dei soci fondatori restava al comando della Società, ma indebolito, mentre nel contempo si imponevano mutamenti nella direzione dell'impresa e nel consiglio di amministrazione della Società. L'assemblea straordinaria degli azionisti, tenutasi nel marzo 1895, che vide il ritorno del B. alla presidenza, vide anche l'ingresso nel nuovo consiglio dei rappresentanti di nuovi gruppi finanziari, tra i quali Giuseppe Balduino, Giovanni Bombrini, Luigi Orlando, e nell'agosto veniva inoltre nominato, come nuovo direttore generale, fatto questo oltremodo significativo dei cambiamenti sopravvenuti, l'ing. Ippolito Sigismondi, che lasciava la carica di direttore generale delle costruzioni navali del ministero della Marina, ove aveva svolto tra l'altro le funzioni di controllore della fabbricazione e lavorazione di corazzate nelle officine estere.
Il B. si impegnò ad attuare quella severa politica di bilancio su cui erano d'accordo i maggiori azionisti e che era richiesta dalla necessità di rispettare il piano dei pagamenti alla Banca d'Italia. La seconda gestione del B. fu perciò parca nella distribuzione dei dividendi, diminuì puntualmente il debito con la Banca d'Italia secondo le previste scadenze e fu molto larga negli ammortamenti. Progressi vennero fatti anche da un punto di vista tecnico nella produzione dell'acciaio, conseguendo risultati tecnologici a livello internazionale, senza che tuttavia si risolvesse il problema dell'adozione di scelte definitive circa l'indirizzo industriale della Società, tra un orientamento rivolto alla produzione commerciale ed un orientamento rivolto invece alle produzioni belliche.
Per questa via fu anche possibile mantenere buone relazioni con il governo, al quale la Società incominciò a rimborsare le anticipazioni avute in precedenza; dopo le enormi spese di impianto sostenute tra il 1884 e il 1890, dopo le perdite accumulate nella fase di avviamento della produzione e in presenza di un cospicuo indebitamento, tale politica permise alle azioni Terni, nel settembre 1898, di accedere alla borsa valori senza rischio alcuno e di far registrare subito una notevole plusvalenza sul valore nominale.
Il nuovo equilibrio interno alla Società, maturatosi dopo la crisi del 1894, fondato su di una situazione di stallo che vedeva negli organi direttivi, accanto al vecchio gruppo degli azionisti fondatori, industriali deputati, come l'on. Rubini prima e l'on. Colombo poi, rappresentanti della finanza veneta e genovese, ad interpretare le esigenze di una più larga compenetrazione dell'azienda nel contesto dell'industria italiana, fu radicalmente mutato dalla decisione della Società veneta di liquidare la sua, partecipazione azionaria nella Società, una volta che la maggior parte dei debiti verso la Banca d'Italia erano stati estinti, e l'assetto patrimoniale della Terni si era consolidato.
La Società veneta affidò la vendita delle proprie azioni al banchiere Manzi-Fé, che era anch'egli azionista della Terni da molti anni, e che era legato al giro di affari del Credito italiano. Fu allora che industriali, capitalisti e speculatori di borsa genovesi, assistiti dal Credito italiano e dalla Banca commerciale, nel giro di pochi mesi vennero accaparrando un gran numero di azioni Terni, a tal punto che, nel novembre del 1898, correva già voce che gran parte del capitale della Terni aveva cambiato mano.Questi mutamenti nella composizione del gruppo di controllo costrinsero il B. a cercare nuove alleanze nell'intento di mantenere la presidenza della Società; tra l'ottobre e il dicembre 1898 tentò di evitare l'isolamento per poter ancora una volta sfruttare il suo passato di "fondatore" della Terni e i suoi 170 voti di azionista. Poiché da tempo si discuteva sul definitivo indirizzo industriale della Terni senza giungere a scelte definitive e poiché era ormai chiaro l'interesse che il gruppo di industriali e finanziatori genovesi aveva per un'integrazione dell'attività cantieristica con quella siderurgica, il B., cogliendo a pretesto un dissidio con il Sigismondi circa una proposta per l'acquisto dei cantieri Hofer-Manaira, avviò delle intese con gli Odero, proprietari di cantieri e capifila dei nuovi azionisti genovesi.
Attilio Odero venne chiamato subito a far parte del consiglio di amministrazione della Terni (novembre 1898), mentre il Sigismondi lasciava la direzione generale della Società. Il B. concordò con il nuovo gruppo di controllo delle modificazioni statutarie che rafforzavano i poteri del presidente e nel contempo anche quelli del comitato esecutivo, di cui facevano parte i rappresentanti dei maggiori azionisti: con queste innovazioni concordate egli poté affrontare l'assemblea dell'aprile 1899 e mantenere la presidenza della "sua" Società. Fu subito evidente per altro che il B. non avrebbe più potuto prendere alcuna decisione senza accordarsi preventivamente con i rappresentanti del gruppo genovese (lo speculatore di borsa Eugenio Scaterrini e gli Odero) e Giuseppe Orlando, proprietario dell'omonimo cantiere di Livorno. Tra il 1900 e il 1903 il B., ormai avanti negli anni, si oppose inutilmente alla distribuzione di elevate quote di dividendi e al distacco dello stabilimento di Savona, da vendersi ad una società appositamente costituita.
Pochi mesi prima di morire il B. sostenne inoltre la necessità di giungere ad una concentrazione dei principali cantieri navali italiani - tra i quali quelli degli Odero e degli Orlando - in un'unica società per azioni di vaste proporzioni, con la partecipazione della Terni. Odero ed Orlando invece si opposero e, morto il B., avviarono subito un programma industriale e finanziario che portò all'acquisto da parte della Terni delle loro rispettive imprese cantieristiche, sulla base di società in accomandita che venivano affidate alla loro personale gestione.
Il B. morì nella città di Padova il 4 gennaio 1903.
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