Trust, vincoli di destinazione e fisco
Recenti ordinanze della sezione tributaria della Corte Suprema di cassazione (24.2.2015, nn. 3735 e 3737; 25.2.2015, n. 3886) hanno ravvisato nell’effetto segregativo al patrimonio il presupposto al quale l’art. 2, co. 47, d.l. 3.10.2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla l. 24.11.2006, n. 286, connette l’imposta sugli atti costitutivi di vincoli di destinazione (con riguardo agli artt. 2447 bis e 2645 ter c.c.; trust interno). Il contributo esamina le posizioni assunte dall’Amministrazione finanziaria, dalla dottrina e dalla Corte di cassazione ed evidenzia le difficoltà interpretative poste dalla normativa fiscale.
L’art. 2, co. 47 e 49, d.l. 3.10.2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla l. 24.11.2006, n. 286, disponendo la “resurrezione” dell’imposta sulle donazioni e successioni (viene richiamato espressamente il d.lgs. 31.10.1990, n. 346), assoggetta a detta imposta − oltre ai trasferimenti di beni e diritti mortis causa, alle donazioni ed agli atti di trasferimento di beni e diritti a titolo gratuito − anche la «costituzione di vincoli di destinazione di beni» e prevede una comune disciplina della determinazione della base imponibile e dell’applicazione dell’aliquota d’imposta.
La riforma è completata dall’art. 1, co. 74-79, l. 27.12.2006, n. 296, che, modificando il d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (TUIR): a) inserisce i trusts tra i soggetti passivi IRES (art. 73, co. 1, lett. da b) a d), TUIR); b) fissa i criteri di accertamento della residenza territoriale del trust (art. 73, co. 3, TUIR); c) qualifica come redditi di capitale i redditi prodotti dai beni inseriti in trust; d) prevede, «nei casi in cui i beneficiari del trust siano individuati», che i redditi conseguiti dal trust siano imputati per trasparenza direttamente ai beneficiari, indipendentemente dalla effettiva percezione, «in proporzione alla quota di partecipazione individuata nell’atto di costituzione del trust o in altri documenti successivi, ovvero, in mancanza, in parti uguali» (art. 73, co. 2, TUIR). La categoria dei vincoli di destinazione di beni e diritti idonei a costituire un patrimonio separato da quello personale del disponente (con effetto limitativo della garanzia patrimoniale apprestata in favore dei creditori dall’art. 2740 c.c.) ha trovato iniziale riconoscimento normativo nell’art. 2645 ter c.c, introdotto dall’art. 39 novies d.l. 30.12.2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla l. 23.2.2006, n. 51. Tale articolo – nell’àmbito di una norma sugli effetti della trascrizione di «atti in forma pubblica, con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela» − autorizza implicitamente a derogare al principio di responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740, secondo comma, c.c., perché prevede l’opponibilità ai terzi della trascrizione di un «vincolo di destinazione» impresso ai beni e finalizzato al soddisfacimento di un interesse riferibile «ad enti o persone fisiche»: e ciò anche se il vincolo sia costituito mediante schemi negoziali atipici, sempre che l’interesse perseguito risulti meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, c.c. Detto vincolo comporta che «i beni conferiti ed i loro frutti» non possono essere distratti dalla realizzazione del «fine di destinazione» e possono essere aggrediti dai creditori «solo per debiti contratti per tale scopo». L’indicata norma civilistica trova riflesso in altri istituti disciplinati dal codice civile (artt. 167, primo comma; 170 e 2647; 2447 quinquies, primo e terzo comma; 2447 decies, commi dal terzo al quinto; 2117; 1881) e dalla legge (art. 36, co. 6, d.lgs. 24.2.1998, n. 58, TUIF; artt. 1, co. 1, lettera b), e 3, co. 2, l. 30.4.1999, n. 130) e consente di accantonare ogni dubbio sulla ammissibilità del trust interno, che mutua dal trust internazionale (Convenzione dell’Aja del 1°.7.1989, ratificata con l. 16.10.1989, n. 364) lo schema organizzativo (art. 2 della Convenzione), ma i cui elementi soggettivi ed oggettivi sono tutti individuabili nell’ordinamento nazionale, fatto salvo soltanto il rinvio alla legge straniera regolatrice. Il trust interno realizzato dai privati nel libero esercizio della loro autonomia negoziale è riconducibile, infatti, alla struttura negoziale “aperta” prevista dall’art. 2645 ter c.c. (che subordina la costituzione del vincolo alla sola verifica di meritevolezza dell’interesse perseguito).
1.1 Pronunce della Cassazione sui vincoli di destinazione
Nel descritto quadro normativo, la Corte Suprema di cassazione, con le ordinanze del 24.2.2015, nn. 3735 e 3737 e del 25.2.2015, n. 3886, ha affrontato questioni − sorte al momento della registrazione dell’atto di costituzione del vincolo − sulla legittimità dell’imposizione fiscale attuata, ai sensi del testo unico n. 346/1990, su beni immobili conferiti in trust. Le fattispecie esaminate dalla Corte concernevano tutte trust interni (in due casi autodichiarati, nei quali, cioè, il disponente si autonominava trustee) e misti. La Corte, relativamente ai trust autodichiarati (regolati dalla legge dell’Isola di Jersey del 1994), ha ritenuto che lo schema negoziale realizzato dai disponenti non corrispondesse alla figura del trust interno, mancando l’elemento (tipico) del trasferimento dei beni costituiti in trust a soggetto diverso dal disponente, necessario «al fine del conseguimento dell’effetto con carattere reale di destinazione del bene alla soddisfazione dell’interesse programmato», in quanto non si era attuata la separazione dei patrimoni mediante la intestazione dei beni ad un trustee. Ha tuttavia affermato che il vincolo di destinazione si era egualmente e validamente prodotto, perché era derivato, in un caso, dall’atto costitutivo del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 c.c. e, in un altro caso, da un atto conforme al modello legale di cui all’art. 2645 ter c.c. In entrambi i casi (come nel terzo, in cui era ravvisabile un’ipotesi di trust interno), l’atto di costituzione del vincolo aveva determinato un effetto segregativo dei beni conferiti in patrimonio separato, idoneo a perfezionare il presupposto d’imposta contemplato dall’art. 2, co. 47, d.l. n. 262/2006, con conseguente assoggettamento all’imposta di cui al testo unico n. 346/1990 in misura proporzionale, indipendentemente dalla eventuale produzione di effetti traslativi.
1.2 Pronunce di merito sui vincoli di destinazione
In antitesi alla soluzione prospettata dai giudici di legittimità nelle suddette ordinanze del 2015, numerose pronunce dei giudici tributari di merito qualificano l’atto istitutivo del trust e l’affidamento dei beni al trustee, come carenti dello spirito di liberalità e non giustificati da una autonoma causa di scambio, trattandosi di mera attribuzione strumentale alla realizzazione di un interesse diverso, costituente il fine ultimo del trust. Tali pronunce, nell’escludere la rilevanza fiscale del mero effetto segregativo, ritengono che il presupposto impositivo dell’imposta sulle successioni e donazioni, in caso di costituzione di vincoli di destinazione, sorga «quando il trustee, cosí realizzando il programma predisposto dal disponente nell’atto istitutivo, attribuirà il trust fund ai beneficiari» terzi, in tal modo trasferendo loro ricchezza. In tal senso, tra le altre, la Commissione tributaria provinciale di Latina, sentenza 14.5.2015, n. 7161, nonché, analogamente, la Commissione tributaria provinciale di Firenze, sentenza 12.2.2009, n. 30.
L’Agenzia delle entrate ha emesso numerose circolari interpretative e note di chiarimento sul trattamento fiscale dei patrimoni separati, dalle quali si desume che, a suo avviso, l’art. 2, co. 47, d.l. n. 262/2006 ricomprende nella «costituzione di vincoli di destinazione» tutti i negozi giuridici mediante i quali determinati beni sono destinati alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, con effetti segregativi e limitativi della disponibilità dei beni medesimi e, perciò, ricomprende tanto i «vincoli di destinazione» in generale, quanto il «trust», sempre che si verifichi il presupposto impositivo del «trasferimento», in relazione alla «intrinseca natura ed agli effetti giuridici degli atti da tassare».
Per quanto riguarda i «vincoli di destinazione», sottolinea che il vincolo non è necessariamente funzionale all’arricchimento di terzi beneficiari, potendo essere perseguito lo scopo o realizzato l’affare senza che il disponente “perda la titolarità” dei beni, con la conseguenza che: a) l’imposta su detti vincoli si applica (soltanto) se l’atto di costituzione preveda il contestuale trasferimento del diritto sul bene ad un soggetto; b) si applicano le altre imposte indirette nel caso in cui l’atto di costituzione preveda, alla cessazione del vincolo di destinazione, la retrocessione al conferente (o ad altro soggetto) dei beni o di quello che ne residua; c) si applica esclusivamente l’imposta di registro in misura fissa (art. 11, Tariffa, Parte I, allegata al d.P.R. 26.4.1986, n. 131) se all’atto costitutivo del vincolo non si accompagna alcun effetto traslativo. L’amministrazione finanziaria precisa che il trasferimento di beni o diritti non esaurisce il presupposto impositivo cui è assoggettato il trust, occorrendo ulteriormente distinguere la ipotesi in cui l’atto istitutivo si limiti ad istituire il trust rinviando ad un momento successivo la dotazione dei beni, dall’ipotesi in cui con l’atto istitutivo i beni vengano conferiti in trust e si realizzi cosí la segregazione di tali beni tanto dal patrimonio personale del disponente, quanto dal patrimonio dell’intestatario di tali beni (trustee) chiamato ad amministrali e gestirli secundum vinculum.
Tale caratteristica del trust, unitamente al vincolo di utilizzazione dei beni nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico, imporrebbe di riconoscere sempre e comunque, anche nei trusts cosiddetti autodichiarati (in cui difettano formali effetti traslativi), l’integrazione del presupposto impositivo del T.U. n. 346/1990, con applicazione della relativa imposta proporzionale al momento della segregazione del patrimonio, in quanto il trust è «un rapporto giuridico complesso con un’unica causa fiduciaria che caratterizza tutte le vicende del trust», e dunque è anche un «soggetto passivo ... in quanto immediato destinatario dei beni oggetto della disposizione segregativa», con l’ulteriore corollario che la eventuale successiva devoluzione (a titolo gratuito) dei beni ai beneficiari non va assoggettata alla medesima imposta, in quanto già applicata al momento iniziale dell’operazione. L’imposta sulle successioni e donazioni si applicherebbe a qualunque tipo di trust, a prescindere dalla sua natura, liberale, gratuita od onerosa. Tale complessiva impostazione dell’amministrazione finanziaria è stata oggetto di critiche da parte della dottrina2, in parte recepite dalla giurisprudenza tributaria di merito. viene infatti obiettato che occorre aver riguardo alla causa concreta degli atti con i quali si costituisce il «vincolo di destinazione» od il «trust», cioè al complessivo programma negoziale voluto dal disponente ed al risultato finale meritevole di tutela (ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, c.c.) che si intende perseguire. Con tali atti negoziali, da un lato, il soggetto disponente autolimita l’esercizio futuro del proprio potere dispositivo sui beni vincolati e, dall’altro, viene impedito (con efficacia erga omnes: artt. 2447 quinquies, primo comma, in relazione all’art. 2448, specie secondo comma, c.c.; artt. 2645 ter, 2647, commi dal primo al terzo, c.c.; con riguardo al trust: art. 2645 c.c., salvo applicazione analogica delle norme sulla trascrizione relative ai patrimoni destinati) che siffatto assetto patrimoniale possa essere distolto dalla specifica destinazione impressa dal disponente (a qualsiasi tipo di bene o diritto, in relazione alle figure del trust e dell’atto destinatorio di cui agli artt. 2447 bis c.c. e seguenti; ai soli beni immobili e mobili registrati, in relazione al vincolo di cui all’art. 2645 ter c.c.). In questa prospettiva, l’“effetto segregativo” del patrimonio costituisce un mero schema procedimentale-organizzativo, strumentale all’attuazione dell’interesse sostanziale in concreto perseguito dal soggetto disponente, e non è idoneo ad esaurire il requisito causale del negozio di destinazione od istitutivo del trust. La separatezza del patrimonio costituisce, infatti, una utilità-mezzo e non una utilità-fine nella complessa operazione posta in essere dal disponente, con la conseguenza che gli atti negoziali dovranno puntualmente evidenziare la causa in concreto perseguita: e ciò sia nei casi in cui contestualmente ad essi il disponente provveda al trasferimento dei beni o diritti conferiti nel patrimonio separato, sia in quelli in cui non siano previsti contestuali effetti traslativi (come per gli atti costitutivi di vincoli di destinazione “puri” e del trust. “autodichiarato”, in cui la persona del disponente viene a coincidere con quella del gestore e, quindi, non sono contemplati beneficiari). Da tali premesse viene fatto derivare che la distinzione del presupposto dell’imposta in discorso (T.U. n. 346/1990) tra «vincoli di destinazione» e «trust», prospettata dall’amministrazione finanziaria, non ha logico fondamento. In particolare, con riferimento agli atti che dispongono anche il trasferimento dei beni/diritti ai beneficiari, si sottolinea che la causa fiduciaria permeante il trust giustificherebbe l’applicazione in via analogica al trust dell’art. 58, co. 1, d.lgs. n. 546/1990 (art. 2, co. 50, l. n. 286/2006), ma non anche l’anticipazione del verificarsi del presupposto d’imposta al momento dell’effetto segregativo del patrimonio, rispetto a quello del trasferimento del bene vincolato o dei suoi frutti ad un beneficiario determinato (momento preso in considerazione, invece, negli altri atti di destinazione ad effetti traslativi). Il diverso trattamento fiscale derivante da tale distinzione non sarebbe giustificato, data la sostanzialmente analoga funzione svolta, da un lato, dall’atto costitutivo del vincolo di destinazione per il perseguimento dell’interesse di un disponente che conservi la proprietà dei beni vincolati (art. 2447 bis c.c.) e, dall’altro, dall’istituzione di una trust di scopo, nel quale (difettando l’indicazione di un beneficiario) i beni ritorneranno, all’estinzione del vincolo, nella piena disponibilità del titolare-disponente.
In entrambi i casi, infatti, la gestione del bene destinato/conferito può essere affidata ad un soggetto terzo gestore-trustee/soggetto attuatore per il perseguimento dello scopo stabilito: con la conseguenza che, se l’affidamento fiduciario del bene al gestore deve essere considerato fiscalmente “trasparente” quando del bene o delle sue utilità vengano a godere a titolo gratuito terzi beneficiari, non si comprende perché nel trust “opaco” (privo, cioè, dell’indicazione di beneficiari), la stessa imposta debba essere applicata al momento della segregazione dei beni, cioè alla stipula del negozio fiduciario con il gestore, incaricato di usare il bene in funzione dello scopo predeterminato e con l’obbligo di restituirlo al disponente alla cessazione del trust.
Viene osservato che: a) l’“effetto segregativo” del bene del disponente nel patrimonio separato non produce ex se un trasferimento a titolo gratuito di beni o diritti e rimane estraneo al presupposto impositivo del tributo sulle donazioni; b) detto “effetto segregativo” si produce anche nella destinazione del patrimonio alla realizzazione di un affare ai sensi dell’art. 2447 bis c.c., essendo irrilevante, per l’integrazione del presupposto impositivo, che, nel trust di scopo privo di terzi beneficiari, i creditori per le obbligazioni contratte dal gestore non possano aggredire il patrimonio personale del disponente; c) l’assunto dell’amministrazione secondo cui, una volta identificato il presupposto impositivo nell’“effetto segregativo”, non è soggetto alla medesima imposta l’atto di trasferimento finale del bene dal gestore ai beneficiari, è inconsistente (ove i beneficiari non siano indicati o non costituiscano elemento necessario dello specifico trust di scopo) e paralogico (in quanto muove da una premessa indimostrata); d) l’unicità della “causa fiduciaria” che assisterebbe il trust non spiega l’individuazione del presupposto impositivo nell’“effetto segregativo”, quantomeno quando la figura del gestore è assunta dallo stesso disponente (trust autodichiarato), senza trasferimento fiduciario del bene; e) la limitata soggettività fiscale del trust, prevista per le imposte dirette (artt. 44 e 73 TUIR, quali modificati dalla l. n. 296/2006), non è trasponibile all’imposta indiretta di cui al testo unico n. 346/1990 (l’art. 5 di tale testo unico indica tra i soggetti passivi non il trust, ma i donatari ed i «beneficiari per le altre liberalità tra vivi»); f) non sussiste coincidenza tra imputazione di effetti tributari e soggettività giuridica di diritto civile e, pertanto, non potrebbe ravvisarsi un effetto traslativo disposto a favore di un centro di imputazione non identificato (trust) distinto dal gestore (trustee). Le aporie in cui incorre l’impostazione dell’amministrazione finanziaria nella ricostruzione della fattispecie impositiva di cui al T.U. n. 346/1990 vengono ricondotte alla mancata considerazione dei differenti interessi perseguiti dal disponente e dalla diversa regolamentazione negoziale in concreto attuata, in quanto, ad esempio: i beni possono permanere in proprietà al disponente; la custodia ed amministrazione del patrimonio può essere affidata ad un soggetto diverso dal disponente; l’intestazione dei beni può effettuarsi in capo al soggetto incaricato della amministrazione-gestione, secondo molteplici e differenti schemi giuridici; possono essere indicati beneficiari interinali o finali dei beni conferiti nel patrimonio separato (condizione imprescindibile nella fattispecie di cui all’art. 2645- ter c.c.); può essere previsto, alla cessazione del vincolo o del trust, il rientro dei beni nel patrimonio personale del disponente, secondo lo schema della fiducia o dell’obbligo di retrocessione imposto al mandatario. La molteplicità delle ipotesi è ancora più evidente nel trust ove occorra far riferimento alla peculiare disciplina della legge straniera richiamata dal disponente.
Le critiche della dottrina riguardano anche l’applicazione dell’imposta ai trust ed agli atti di destinazione ad effetti traslativi con beneficiari determinati o determinandi: se è previsto nell’atto costitutivo che i frutti del bene conferito in trust siano direttamente attribuiti, a titolo gratuito, a beneficiari determinati, al negozio costitutivo dovrà essere riconosciuta efficacia traslativa, perché i beneficiari sono titolari di un diritto patrimoniale da far valere nei confronti del trustee; se, invece, l’attribuzione ai beneficiari è disposta soltanto in via residuale, in quanto riferita ai beni segregati ove siano ancora esistenti alla cessazione del trust, ovvero se l’attribuzione ai terzi beneficiari sia prevista alla cessazione del trust, ma soltanto in caso di premorienza del disponente, allora in questi casi i beneficiari non realizzano alcun acquisto di diritti sul bene al momento della istituzione del trust, perché è aleatoria l’esistenza di beni residui alla cessazione del trust o perché il diritto può essere acquisito soltanto al verificarsi della condizione sospensiva dell’anteriore decesso del disponente. viene perciò rilevato che, in tutte queste fattispecie, l’anticipazione del tributo al momento dell’“effetto segregativo”, per un verso, non è correlato ad un effettivo trasferimento di ricchezza ai beneficiari (aventi, al più, una mera aspettativa legittima); per altro verso, non permette, in violazione dell’art. 53, co.1, Cost., di commisurare l’imposta proporzionale ad una base imponibile certa, non essendo determinabile se e quali beni residueranno dalla gestione. La mera costituzione di un patrimonio separato viene dunque ritenuta insufficiente ad integrare i presupposti della imposizione indiretta collegata al trasferimento di ricchezza.
2.1 Interpretazione della Corte di cassazione
In tale dibattito sono intervenute le citate pronunce della Corte Suprema, che ha motivato le sue decisioni secondo i seguenti passaggi logici: a) l’imposta sulla costituzione dei vincoli di destinazione introdotta dall’art. 2, co. 47, d.l. n. 262/2006 è fondata su di un autonomo presupposto impositivo, che viene identificato dalla legge non in uno specifico atto negoziale, ma nell’effetto giuridico costituito dall’apposizione di un vincolo reale di destinazione sul bene ovverosia su una specifica conformazione giuridica del diritto dominicale; b) il sostrato economico al quale è collegato il nuovo tributo, in conformità al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., è costituito non dall’attribuzione di nuova ricchezza ad un beneficiario, ma dal «valore della utilità della quale il disponente, stabilendo che sia sottratta all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l’impoverirsi … il contenuto referente di capacità contributiva è ragguagliato alla utilità economica della quale il costituente, destinando, dispone», utilità che «in quanto indirizzata ad altri ... va a gravare in definitiva sul beneficiario finale, al quale essa è destinata a pervenire»; c) in forza di tale presupposto impositivo, cioè dell’effetto giuridico del vincolo di destinazione, vengono attratti nell’imposta tutti gli atti negoziali idonei a produrre tale effetto e, dunque, anche il trust, atteso che «conferendo beni in trust ... il disponente mira a modificare il risultato finale del negozio esterno di attribuzione patrimoniale, mediante l’obbligo assunto dal trustee d’imprimere a quanto trasferito la destinazione finale voluta»; d) l’imposta d’atto sulla costituzione dei vincoli di destinazione rende irrilevante la presenza di beneficiari e, da un lato, impone di individuare il soggetto passivo nel soggetto costituente, nei cui confronti si perfeziona il presupposto impositivo; dall’altro, non esclude l’assoggettamento alla medesima imposta degli ulteriori atti compiuti dal trustee, in quanto intestatario del bene, atteso che l’inserimento degli stessi in un programma negoziale più ampio non è sufficiente a far perdere loro l’intrinseca individualità ed autonomia, quali «nuovi atti separatamente tassabili che modificano gli effetti giuridici del primo atto che conserva piena autonomia». In tal modo, la Corte sembra volere individuare una nuova imposta, tenendo separata (salvo per il contenuto applicativo) la imposta sulla «costituzione di vincoli di destinazione» da quella sulle successioni e donazioni cui sono assoggettati i «trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito» come la formulazione letterale del comma 47 potrebbe invece suggerire.
L’atto di destinazione del patrimonio per la realizzazione di un affare determinato (art. 2447 bis c.c.) nonché l’istituzione del trust di scopo “autodichiarato” (in cui il disponente è il trustee) mirano a creare, nei confronti dei terzi e dello stesso disponente, un vincolo di indisponibilità del bene per la durata prestabilita. La mera apposizione del vincolo di destinazione sul bene non opera, tuttavia, alcun trasferimento di diritti, perché in tali casi non viene modificata la titolarità della situazione proprietaria tra il soggetto ed il cespite vincolato. Ne segue che i frutti e le utilità prodotti dal bene durante il vincolo di destinazione o la durata del trust, in quanto ricollegati ad un bene-fonte di cui rimane titolare il disponente, ed in quanto ricadenti nella effettiva disponibilità del medesimo soggetto, vengono a costituire reddito imponibile da tassare ai fini delle imposte dirette, in considerazione della qualità soggettiva del disponente e delle categorie reddituali di cui all’art. 6 TUIR, avuto riguardo alla diversa tipologia del cespite vincolato.
Con riguardo al trust di scopo “autodichiarato”, l’amministrazione finanziaria, sostiene che, se il potere di gestire e disporre dei beni rimane al disponente, «non si verifica il reale spossessamento» di quest’ultimo ed il trust si configurerebbe come «struttura meramente interposta rispetto al disponente al quale devono continuare ad essere attribuiti i redditi solo formalmente prodotti dal trust»: l’assenza di spossessamento, pertanto, sarebbe sintomatica della costruzione di uno schermo fittizio alla effettiva relazione tra il disponente e i beni conferiti in trust. Una eco di tale impostazione pare rilevarsi anche nelle citate ordinanze della Corte di cassazione, nelle quali l’omessa intestazione dei beni al trustee determina la carenza di un requisito costitutivo della fattispecie del trust, che non può, pertanto, ritenersi perfezionata: la Corte giustifica l’applicazione del tributo, qualificando la fattispecie come “atto di costituzione di vincoli patrimoniali” ai sensi degli artt. 167 e 2645- ter c.c. Tali affermazioni, tuttavia, non valgono ad escludere dall’ordinamento giuridico la figura del trust “autodichiarato”, perché tale fattispecie negoziale non è qualificabile astrattamente come illecita od in frode alla legge. Al riguardo appare corretta l’osservazione della dottrina secondo cui la conformazione funzionale del bene e la limitazione della responsabilità patrimoniale (in deroga al principio generale di cui all’art. 2740 c.c.) non individuano ex se la causa negoziale meritevole di tutela richiesta dall’art. 1322, secondo comma, c.c., la quale va accertata, invece, in relazione ai consueti parametri di liceità della causa (art. 1343 c.c.) ed alla oggettiva impossibilità di realizzare con altri mezzi negoziali tipici l’interesse del disponente, perseguibile solo con una limitazione della garanzia patrimoniale. Ne segue che solo la costituzione di un mero vincolo di auto-destinazione del bene o una mera esigenza di conservazione dei beni paleserebbe un intento non meritevole di tutela, in quanto la segregazione del patrimonio sarebbe unicamente diretta a sottrarre i beni alla aggressione dei creditori. La situazione giuridica del disponente nel trust di scopo “autodichiarato” sembrerebbe, pertanto, assimilabile a quella del costituente il vincolo di destinazione di scopo, il quale non perde la proprietà del bene vincolato, ma è tenuto solo a disporne in conformità al fine perseguito o per la realizzazione dell’affare, ove l’interesse sia meritevole di tutela. Né ad una piena assimilazione tra il disponente del trust autodichiarato ed il costituente del vincolo di destinazione osta la disposizione dell’art. 73, co. 1, lettere b), c) e d), TUIR (nel testo modificato dalla l. n. 296/2006), che ha espressamente attribuito soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi ai trust residenti nello Stato ed ai trust non residenti riconosciuti ai sensi della citata Convenzione internazionale del 1989. Tali disposizioni individuano nel trust un autonomo centro organizzativo, suscettibile di una propria capacità contributiva ed al quale debbono imputarsi (ove il disponente non abbia riservato a sé una quota dei frutti o delle utilità prodotte dal bene conferito) i proventi derivanti dalla gestione del trust, i quali non confluiscono nel reddito del disponente: il presupposto impositivo dell’IRES (possesso di nuova ricchezza) si realizza, pertanto, nei confronti del trust quale soggetto passivo d’imposta. Nel trust autodichiarato, però, il reddito prodotto dal bene-fonte conferito in trust è pur sempre riferibile ad un bene che permane in proprietà al disponente-gestore, e non fuoriesce dalla sua sfera giuridica di controllo, realizzandosi nei suoi confronti il presupposto impositivo del possesso di reddito rilevante ai fini delle imposte dirette.
La situazione è analoga a quella dei vincoli conformativi di destinazione impressi al bene dal costituente, i quali, pur determinando un’autolimitazione del contenuto del diritto dominicale, non impediscono che i proventi medio tempore prodotti debbano imputarsi fiscalmente al titolare della fonte produttiva, che ne dispone in funzione dello scopo dallo stesso stabilito. Il contrasto tra la reale situazione economica del disponente nel trust autodichiarato e l’attribuzione legislativa di soggettività fiscale al trust in generale va risolto ritenendo che il legislatore tributario, quando ha inserito il trust tra i soggetti passivi d’imposta, ha inteso riferirsi solo al caso della perdita della titolarità di diritti sul bene conferito (dunque solo al momento traslativo interno tra settlor e trustee); perdita alla quale ha inteso ricondurre il venir meno del criterio di collegamento tra soggetto e bene-fonte assunto a presupposto di fatto della imposizione diretta: solo in questo caso, infatti, si giustifica il riferimento del reddito prodotto dal cespite vincolato ad un centro di imputazione, diverso dal disponente, cui viene riconosciuta ad hoc la qualità di soggetto passivo d’imposta. Ne segue che, in difetto della indicata perdita di titolarità, il trust “autodichiarato” deve essere trattato fiscalmente in modo identico agli atti costitutivi di vincoli di destinazione, per i quali la separazione patrimoniale opera in senso unilaterale: la fattispecie conformativa del diritto sul bene vincolato determina, infatti, la opponibilità erga omnes del nuovo status del bene, ma non impedisce al disponente/costituente di esercitare il potere di disposizione sul bene-destinato. Tale soluzione appare coerente con le scelte operate dal legislatore tributario, non comportando alcun disconoscimento − sul piano del diritto civile − della figura del trust interno di scopo autodichiarato ed appare altresí conforme al principio di capacità contributiva del proprietario del bene produttivo di reddito (capacità che viene diminuita solo quando l’assetto negoziale in concreto utilizzato determini la effettiva temporanea oggettiva estraneità del bene-fonte ai poteri di ingerenza del disponente).
Pertanto il reddito prodotto dal bene deve ritenersi acquisito direttamente al trust, quale soggetto passivo IRES distinto dal disponente, esclusivamente nel caso in cui vi sia un momento traslativo interno del diritto sul bene conferito in trust. In relazione alla imposizione indiretta che assume a presupposto i trasferimenti di ricchezza, invece, gli atti suddetti (trust autodichiarato; vincolo di destinazione per un affare) dovrebbero ritenersi sottratti all’imposta di cui al d.lgs. n. 346/1990, non verificandosi effetti traslativi di beni a terzi beneficiari con attribuzione od incremento di ricchezza.
L’art. 5 del predetto decreto legislativo, infatti, non indica il trust tra i soggetti passivi d’imposta e, pertanto, per detta imposta, il trust interno di scopo autodichiarato deve considerarsi come una mera modalità organizzativa predisposta in funzione del raggiungimento di uno scopo meritevole di tutela, non potendo il trust, quindi, configurarsi come virtuale beneficiario del bene conferito dal disponente (l’unico soggetto di diritto è il trustee, persona fisica od ente collettivo). va soggiunto che le aliquote d’imposta richiamate (cioè quelle previste dall’imposta sulle successioni e donazioni) sono articolate secondo il rapporto tra beneficiante e beneficiato e, dunque, presuppongono un trasferimento di beni tra soggetti diversi. Del resto, l’art. 1 d.lgs. n. 346/1990 stabilisce espressamente che «l’imposta sulle successioni e donazioni si applica ai trasferimenti di beni e diritti … ».
3.1 Atti traslativi
Con riguardo all’altra categoria degli atti segregativi con effetti traslativi, che prevedono l’affidamento del patrimonio ad un gestore (distinto dal disponente) in funzione della realizzazione di uno scopo o nell’interesse di soggetti beneficiari (con previsione di effetti traslativi interinali o finali a favore di terzi beneficiari individuati), ciò che caratterizza il fenomeno giuridico sul piano fiscale, ai fini dell’ applicazione dell’imposta indiretta di cui all’art. 2, co. 47, d.l. n. 262/2006 è la rilevanza tributaria degli effetti giuridici prodotti dall’atto dispositivo del bene e delle sue utilità ed attraverso il quale viene istituito il patrimonio separato. Sia la dottrina, con riferimento tanto al trust che agli altri atti di destinazione, sia l’amministrazione finanziaria, limitatamente a questi ultimi, subordinano l’applicazione del tributo al prodursi di un effetto traslativo dei diritti sul bene e, quindi, per la stipula dell’atto di destinazione o costitutivo del trust, richiedono che l’atto rivesta tutti i requisiti formali e sostanziali di validità di un tipico atto traslativo di diritti sul bene o sui suoi proventi e che realizzi il presupposto impositivo dell’arricchimento del beneficiario. La prevalente dottrina, in particolare, individua il presupposto impositivo valorizzando il risultato economico finale perseguito mediante il collegamento unitario tra tutti i rapporti giuridici che si inseriscono nella vicenda negoziale del trust: da un lato, si viene a considerare «fiscalmente trasparente» l’acquisto della proprietà conformata dal trustee, in quanto meramente strumentale all’attuazione dell’incarico gestorio; dall’altro, a qualificare l’atto traslativo del diritto o del bene compiuto dal trustee in favore del beneficiario finale come adempimento (atto solvendi causa) degli obblighi scaturenti dal negozio istitutivo del vincolo di destinazione. Da tali premesse discende che la pretesa impositiva insorge al momento dell’effetto traslativo del diritto in capo ai beneficiari. Diversamente, l’amministrazione finanziaria, ritiene che, anche nel caso in cui il trust individui beneficiari, il presupposto impositivo va ravvisato nell’istituzione del trust, perché il conferimento dei beni nel trust ha natura di atto di disposizione, in quanto negozio a titolo gratuito che dà luogo ad una sequenza di atti tutti collegati dalla medesima causa fiduciaria, così che il risultato finale (cioè l’effetto giuridico attributivo in favore del beneficiario) trova la propria causa genetica nel vincolo di destinazione “a monte”: ne inferisce che, poiché l’atto istitutivo ha già scontato l’imposta proporzionale, il successivo atto traslativo tra trustee e beneficiari non è assoggettabile ad ulteriore imposta. La Corte di cassazione, seguendo un percorso argomentativo differente, ha ritenuto, per un verso, che il legislatore ha voluto individuare, accanto all’originario presupposto impositivo dell’effetto giuridico traslativo di diritti in favore di un beneficiario (art. 1 T.U. n. 346/1990), quale fatto rivelatore di ricchezza, un differente e nuovo presupposto d’imposta, identificato nell’effetto giuridico costitutivo del vincolo di destinazione; per altro verso, che tale prelievo fiscale è compatibile con il principio di capacità contributiva, dovendo qualificarsi l’atto ad effetti segregativi come atto dispositivo di natura patrimoniale. Tale interpretazione può forse trovare giustificazione nella peculiarità delle fattispecie concrete esaminate, ma lascia tuttavia irrisolte alcune questioni di fondo. Se infatti, per ritenere integrato il presupposto d’imposta, occorre riferirsi soltanto al perfezionamento del negozio a forma scritta costitutivo del vincolo, non appare comprensibile la collocazione sistematica della “nuova imposta”, inserita dalla legge accanto alle imposte sui trasferimenti di beni e diritti mortis causa o con animus donandi ed ora anche a titolo gratuito: negli atti di destinazione o di istituzione del trust, il trasferimento di diritti può essere assente ed inoltre il presupposto dell’effetto segregativo si realizza anche nel caso in cui l’operazione negoziale, esaminata nel suo complesso, evidenzi reciproci spostamenti di ricchezza (rapporti onerosi), a prescindere dalla esistenza di un nesso di corrispettività o commutatività tra le prestazioni patrimoniali (tanto che, in tal caso, emergono − salve le ipotesi in cui si applica l’art. 1, co. 4- bis, T.U. n. 346/1990 − possibili difetti di coordinamento con la imposta proporzionale di registro, alla quale rimangono assoggettate le fattispecie negoziali a titolo oneroso in relazione alla diversa natura del bene trasferito, in base agli artt. 1 o 2 della Tariffa, Parte I, allegata al d.P.R. n. 131/1986).
Su tale ultima questione le ordinanze della Corte non sono state chiamate ad esprimersi, anche se la individuazione del medesimo presupposto impositivo indifferentemente per tutti gli atti costitutivi di vincoli di destinazione induce a ritenere che i giudici abbiano inteso estendere la disciplina del T.U. n. 346/1990 anche agli atti a titolo oneroso ed ai trust onerosi. In tali casi vengono in rilievo, nell’àmbito dell’impostazione seguita dalla Corte, serie difficoltà di individuazione del soggetto passivo (nell’alternativa tra disponente; trustee; beneficiario), posto che l’art. 5 d.lgs. n. 346/1990 si limita a stabilire che «L’imposta è dovuta dagli eredi e dai legatari per le successioni, dai donatari per le donazioni e dai beneficiari per le altre liberalità tra vivi» e, quindi, difficilmente può riferirsi al disponente (su cui grava la limitazione dei poteri dominicali).
Le maggiori difficoltà si incontrano, però, nell’individuazione dei fatti assunti dal legislatore ad indice della capacità contributiva dei soggetti passivi.
Le ordinanze della Corte richiamano l’art. 20 del T.U. n. 131/1986 − applicabile al T.U. n. 346/1990 in virtù del richiamo degli artt. 55, co. 1, e 60 di detto T.U. − secondo cui l’imposta deve essere applicata in base alla «intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti ... anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente», inteso come espressione del principio della prevalenza della sostanza della operazione giuridica sulla forma negoziale prescelta dalle parti, vòlto a garantire la massima aderenza dell’imposizione alla realtà economico-giuridica dell’operazione ed a soddisfare l’esigenza dell’accertamento del presupposto impositivo (che, nell’imposta di registro trova solo occasione nella «formazione dell’atto», ma attiene in realtà al trasferimento di ricchezza determinato dagli effetti giuridici dell’atto: artt. da 43 a 53 del T.U. n. 131/1986). Tali considerazioni hanno portato i giudici di legittimità a concludere che, come il tributo di registro colpisce gli effetti e la natura del singolo atto presentato alla registrazione (mentre gli eventuali successivi atti intervenuti tra le parti e vòlti a modificare o rettificare tali effetti integrano «nuovi atti separatamente tassabili»), così la nuova imposta incide sull’atto costitutivo del vincolo di destinazione, che conserva la sua autonomia originaria «indipendentemente dalla successiva attuazione della destinazione impressa al denaro», dovendo identificarsi l’oggetto del tributo «nel valore della utilità della quale il disponente, stabilendo che sia sottratta all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l’impoverirsi»: pertanto «il contenuto patrimoniale referente di capacità contributiva è ragguagliato alla utilità economica, della quale il costituente, destinando, dispone». occorre però osservare che, nella specie, il presupposto della “nuova” imposta, ove individuato nell’effetto segregativo, non costituisce fatto produttivo di ricchezza a favore di uno dei soggetti passivi indicati nell’art. 5 T.U. n. 346/1990 e neppure un incremento di novella ricchezza a favore del disponente: ne derivano inevitabili perplessità di carattere logico-sistematico. Come visto, sono diversi i “tipi” di atti che il disponente può porre in essere: in particolare, la separazione patrimoniale biunivoca del trust (nel quale il trustee è soggetto diverso dal disponente) non corrisponde alla separazione patrimoniale unilaterale realizzata con gli altri atti destinatori (nei quali il disponente non perde la proprietà del bene conformato). L’atto segregativo, dunque, ove individuato come autonomo presupposto d’imposta, dovrebbe poter essere inteso come manifestazione di capacità contributiva indipendente dal trasferimento di ricchezza (in una accezione ampia di capacità contributiva, come obiettiva idoneità del soggetto, in relazione ad indici economicamente valutabili, a concorrere al riparto delle spese pubbliche, anche attraverso un “potere di comando” su beni e servizi, espressivo di una forza economica effettiva): in tal caso, però, occorrerebbe dimostrare la sussistenza di un “potere di comando” economicamente rilevante e che il prelievo risponde a criteri di equità distributiva e di ragionevolezza del riparto dei “carichi pubblici”. ove, invece, il presupposto sia individuato in necessaria connessione all’atto traslativo del diritto compiuto dal disponente a favore del gestore (trustee), il medesimo presupposto si identifica in realtà proprio con quell’effetto traslativo del diritto di proprietà (conformato) sul bene, che all’origine era stato considerato irrilevante ed estraneo alla “nuova imposta” ed occorre allora stabilire se dalla laconica disposizione della norma tributaria che istituisce tale imposta debba desumersi fiscalmente trasparente il rapporto giuridico tra disponente e trustee, avente ad oggetto l’attribuzione del diritto sul bene vincolato al gestore, oppure se questo, al contrario, debba essere assoggettato alla imposta proporzionale di registro, al pari di una compravendita. In questa seconda ipotesi si pone una chiara alternativa: o si procede ad una qualificazione giuridica unitaria dell’assetto di interessi perseguito con il risultato finale dal disponente (come sostiene la prevalente dottrina); o si considera ciascun atto negoziale dell’operazione secondo il suo proprio regime fiscale. Nel primo caso − considerata la irriducibilità del trust ad una unica causa negoziale tipizzata – per individuare l’eventuale presupposto impositivo del trust, occorrerà esaminare il concreto regolamento di interessi voluto dalle parti e, in caso di trust cosiddetti trasparenti, l’operazione ben potrebbe essere riguardata unitariamente, con riferimento al risultato finale perseguito dal disponente, come attribuzione a titolo gratuito a favore dei terzi beneficiari interinali e/o finali, integrante quindi l’unico “fatto economico rilevante” ai fini della imposizione indiretta sui trasferimenti.
La Corte di legittimità ha affermato, al riguardo, che l’indice di capacità contributiva legittimante il prelievo fiscale va ravvisato nella «utilità economica che, in quanto indirizzata ad altri, si colloca al di fuori del patrimonio del disponente (oltre che di quello del gerente). E visto che ... questa utilità è destinata ad altri, il peso del prelievo, coerentemente, va a gravare sulla utilità e, in definitiva, sul beneficiario finale al quale essa è destinata a pervenire». Ma allora risulta evidente che la realtà economica dell’operazione di segregazione dei beni viene fatta consistere proprio nell’attribuzione del bene o del patrimonio destinato a soggetti terzi beneficiari, a favore dei quali tale “ricchezza” viene temporaneamente accantonata e separata dal patrimonio del disponente, con l’ulteriore conseguenza che rimarrebbero sottratti all’imposta i trust cosiddetti opachi, in cui mancano beneficiari, o ancora i trust a scopo di garanzia, in cui la ricchezza accantonata e gestita dal trustee è destinata a rientrare alla cessazione del vincolo nel patrimonio del disponente. Sembra pertanto che le obiettive difficoltà nella individuazione dell’elemento fattuale rivelatore di ricchezza abbiano fatto propendere la Corte di legittimità per la qualificazione della imposta sugli atti costitutivi dei vincoli di destinazione come pura «imposta d’atto», vòlta a colpire una utilità patrimoniale futura (meramente eventuale), commisurata al valore sottratto per la durata del vincolo al patrimonio del disponente, senza però specificare se detta sottrazione corrisponda soltanto al valore della prestazione che il trustee dovrà eseguire a favore dei beneficiari o al valore in sé della limitazione dei poteri dominicali oppure all’intero valore economico dello stesso bene trasferito in proprietà al gestore e del quale il disponente (per la durata del trust) si spoglia (ipotesi quest’ultima che, peraltro, non ricorre nel caso in cui il disponente non perda la titolarità della proprietà del bene). Appare evidente che, in caso di attribuzione ai beneficiari dei soli proventi o dei frutti, l’anticipazione del prelievo al momento della istituzione del trust o della costituzione del vincolo di destinazione determina oggettive incertezze nella definizione della materia imponibile, laddove sussista una differenza tra il valore del bene/utilità al momento del conferimento (o trasferimento interno) ed al momento dell’attribuzione finale alla cessazione del vincolo di destinazione. Tali difficoltà sono state evidenziate dalla dottrina che, da un lato, ha ritenuto di individuare nella presenza di beneficiari un elemento non accidentale, ma costitutivo della stessa fattispecie impositiva e, dall’altro, ha tentato di rendere coerente l’anticipazione del prelievo al momento della segregazione, pur in difetto di elementi determinativi certi della base imponibile, ipotizzando l’applicazione analogica della disposizione dell’art. 42, co. 1, lettera e), T.U. n. 346/1990, dettato in materia successoria, concernente il rimborso della imposta pagata in eccedenza o non dovuta in conseguenza del mutamento sopravvenuto delle circostanze.
In conclusione, la attuale “larvale” disciplina normativa del “nuovo” tributo indiretto istituito sugli atti costitutivi di vincoli di destinazione, si riverbera tanto sulla individuazione del fenomeno economico dimostrativo di capacità contributiva, sotteso alla separazione dei patrimoni, quanto sulla stessa definizione degli elementi essenziali del rapporto tributario concernenti sia l’identificazione del soggetto passivo, sia l’esatta determinazione della base imponibile. Sembra pertanto indispensabile una più precisa sistemazione legislativa della materia fiscale in questione, opportunamente preceduta da una compiuta disciplina civilistica dei negozi di affidamento fiduciario, diretta ad evidenziare le peculiarità della materia economica sottesa a ciascun tipo negoziale considerato dalla legge, al fine di evitare il rischio che la prestazione imposta possa essere determinata in modo assolutamente arbitrario (C. cost., 26.1.1957, n. 4 e 15.4.2015, n. 83).
1 Comm. trib. prov. Latina, 14.5.2015, 716, in www.mpotrustee.it.
2 Per una bibliografia sul tema v.: busani, A., La Cassazione smonta il trust, in Il Sole 24 Ore, 8.3.2015; Laroma, J.P., La costituzione del trust di scopo sconta l’imposta sulle successioni e donazioni?, in Corr. trib., n. 19/2014, 1477; Torroni, A., Vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c.: un tentativo di inquadramento sistematico con lo sguardo rivolto al codice civile, in Riv. not., vol. LXvII, n. 2/2103, 471; Roppo, v., Contratto di affidamento fiduciario e valore di garanzia dei beni, in Riv. not., vol. LXvI, n. 5/2012, 1243; Tacconi, U., Trust, affidamento fiduciario, destinazioni patrimoniali: sovrapposizioni o varietà di strumenti?, in Vita not., n. 2/2012, 1147; Mignarri, E., Trust ed imposte sulle successioni e donazioni, in Fisco, fasc.1, n. 29/2011, 4659; Palermo, G., I negozi di destinazione nel sistema del diritto positivo, in Rass. dir. civ., n. 1/2011, 82; Cannizzaro, S.-Tassani, T., La tassazione degli atti di destinazione e dei trust nelle imposte indirette, in Cons. naz. notariato, Studio n. 58/2010/T; Muritano, D.-Pischetola, A., Trust liquidatori e relativi profili impositivi, in Fisco, fasc.1, n. 43/2010, 6966; Fiedmann, U.,-Ghinassi, S.-Mastroiacovo, v.-Pischetola, A., Il trust: diritto interno e convenzione de L’Aja, in Cons. naz. notariato, Studio n. 168/2006/T; Longobardi, G.-Arcangeli L., Trasferimento di immobili al trustee: imposta sulle donazioni o imposta di registro?, in Trusts, n. 3/2002, 374; Gallizia, G., Trattamento tributario dell’atto dispositivo in un trust di beni immobili, in Trusts, n.1/2001, 147; Belli Contarini, E., Profili tributari del contratto di mandato senza rappresentanza, in Riv. dir. trib., 1997, 517.