VINO
(dal lat. vinum; gr. οῖνος; fr. vin; sp. vino; ted. Wein; ingl. wine).
Sommario. - Definizione. Dati statistici (p. 388); Mezzi per l'esercizio dell'industria enologica (p. 390); Materia prima: uva (p. 390); Vendemmia (p. 391); Pigiatura (p. 392); Fermentazione alcoolica (p. 393); Correzioni dei mosti (p. 396); Svinatura (p. 397); Torchiatura (p. 398); Utilizzazione delle vinacce (p. 398); Cure ai vini giovani (p. 399); Correzioni dei vini (p. 400); Rifermentazione (p. 400); Chiarificazione (p. 401); Taglio (p. 401); Invecchiamento (p. 402); Imbottigliamento (p. 402); Varî tipi di vino (p. 403); Malattie e difetti (p. 404); Legislazione enologica (p. 406); Composizione chimica (p. 407); Analisi (p. 407); Bibliografia (p. 411).
Definizione. dati statistici. - La definizione precisa di "vino" è data dal r. decr. legge 15 ottobre 1925, n. 2033 (art. 13): "Il nome di "vino" è riservato al prodotto della fermentazione alcoolica del mosto di uva fresca o leggermente appassita in presenza o in assenza di vinacce". Tutti gli altri prodotti che non possono essere così definiti, sono considerati vini non genuini, compresi quelli ottenuti con uve secche. Quelli ottenuti da altre frutta devono far seguire al nome di vino quello del frutto da cui derivano: vino di mele, di pere, ecc. (v. anche, più avanti, il paragrafo sulla legislazione enologica).
Rimandando alla voce vite per quanto riguarda la storia di questa pianta e dell'industria che dal suo prodotto trae origine, si riportano qui pochi dati statistici, che possono dare un'idea concreta dell'importanza attuale della produzione e del commercio del vino nel mondo e più particolarmente in Italia.
Nelle tabelle che seguono riassumiamo i dati riguardanti la superficie coltivata a vite e la produzione del vino nei diversi paesi del mondo e nelle varie regioni italiane.
Dai dati dell'Annuario di statistica agraria dell'Istituto internaz. di agricoltura si rileva il seguente progressivo aumento nella superficie mondiale complessiva destinata alla vite fino al 1933, anno in cui comincia a delinearsi un rallentamento, che sembra preludere a un periodo di sosta in questa coltura:
Anche la produzione ha subito un notevole incremento nel primo quarto del sec. XX:
E poiché parallelamente a tale aumento di produzione, anziché un aumento di consumo, s'è avuta piuttosto una diminuzione (analogamente a quanto s'è verificato in quest'ultimo periodo per tutti i consumi non d'assoluta necessità), ne è derivato un disagio pressoché generale in tutti i paesi viticoli: disagio che impone una politica di severa disciplina nei riguardi della coltura della vite, nonché di miglioramento qualitativo e di riduzione dei costi di produzione.
Dai dati della tabella 1 si rileva come la produzione vinicola sia accentrata per circa il 75% in Europa (in cifre tonde, 150 milioni di ettolitri su un totale di poco meno di 200 milioni). Segue l'Africa del Nord con circa 18 milioni, l'America Meridionale con circa 10 milioni; l'America Settentrionale con circa 1 milione e mezzo; il Sud-Africa e l'Oceania con circa 800.000 ettolitri; l'Asia (Russia esclusa) con 300.000 ettolitri. Il primo posto fra gli stati viticoli del mondo come quantità di vino prodotto spetta alla Francia con circa 60 milioni di hl. in media; segue l'Italia con circa 40 milioni di hl. e la Spagna con 22 milioni. Come si vede, le tre grandi nazioni latine concorrono da sole per circa il 70% alla produzione vinicola mondiale. Se invece consideriamo la superficie coltivata a vite, il primo posto spetta senza dubbio all'Italia. Secondo i dati dell'Istituto centrale di statistica, la vite è coltivata in Italia su circa 3.900.000 ettari (anno 1935), di cui però solo 977 mila a vigneto specializzato, e 2943 mila ettari a coltura promiscua. Ora, ragguagliando (secondo un giusto concetto di G. Mortara) a vigneto l'estensione dei terreni a coltura associata sulla base del loro rendimento unitario (che s'accosta ai tre decimi di quello della coltura specializzata: nel quadriennio 1931-34 sarebbe stato più precisamente di 28,80%) si può ritenere che la reale superficie vitata complessiva d'Italia sia di ettari 1.840.000, pari al 6,5% della superficie agraria e forestale del regno, mentre Francia e Spagna hanno una superficie vitata che è poco più del 3% della loro superficie agraria e forestale.
La distribuzione della coltura e della produzione dell'uva e del vino in Italia emergono dalla tabella 2: avvertiamo che i dati della produzione dell'uva nel periodo 1931-34 riguardano l'uva destinata alla vinificazione. L'uva destinata al consumo diretto nello stesso periodo è ascesa a 2208 mila quintali, oltre a 1153 mila quintali di uva da tavola propriamente detta, e circa 80 mila quintali d'uva destinata all'essiccazione.
Dalla tabella in esame risulta come circa il 17% dell'uva da vino è data dal Mezzogiorno (e soprattutto da Puglia e Campania); il 12,7% dall'Italia centrale (in cui emerge la Toscana); l'11% dall'Italia nord-orientale (dove domina l'Emilia); il 10,1% dall'Italia nord-occidentale (dove emerge il Piemonte), e il 5,3% dalle isole. Dal punto di vista dell'intensità della produzione vinicola (ettolitri di vino per kmq. di superficie produttiva) le regioni italiane si dispongono nell'ordine seguente: Campania, Emilia, Puglia, Toscana, Piemonte, Marche, Lazio, Lombardia, Liguria, Sicilia, Veneto, Abruzzo e Molise.
Il rendimento della coltura della vite è molto variabile da anno ad anno. Per limitarci ai dati del primo quarto del sec. XX, essi oscillano fra i 52-53 milioni di ettolitri (52.240 mila nel 1913; 53.948 mila nel 1923), e i 19.955 mila del 1915. La resa media di uva in vino è di 65 litri per quintale. Nel decennio 1925-35 il valore del vino prodotto in Italia si può ritenere sia oscillato fra i due miliardi e mezzo (circa) e i sette miliardi di lire, ai quali bisogna aggiungere almeno un valore di 100 milioni di lire di sottoprodotti o residui della vinificazione (valore che, con una migliore utilizzazione, potrebbe venire triplicato).
Ingentissimo è il capitale investito nei vigneti e nelle cantine d' Italia. Dai calcoli più attendibili (M. Carlucci, A. Marescalchi, G. Dalmasso) attualmente esso non è inferiore ai 35 miliardi di lire. Le spese d'esercizio si possono calcolare in 4 miliardi, di cui oltre il 70% assorbito dalla coltura della vite; e di esse circa il 60% (cioè quasi 2 miliardi e mezzo) dalle spese di mano d'opera. Questo dice subito la grandissima importanza, oltre che economica, sociale di questa coltura per un paese a densa popolazione come l'Italia. Si calcola infatti che la vite richieda almeno 450 milioni di giornate di lavoro all'anno, permettendo l'impiego, non solo di uomini, ma anche di donne e fanciulli. V'è infatti uno stretto rapporto fra la densità media della popolazione rurale e l'estensione della viticoltura. Né sono da dimenticare i cospicui apporti che la vite e il vino dànno allo stato sotto forma d'imposte erariali e comunali (la sola imposta di consumo sul vino dà ai comuni oltre 500 milioni di lire).
Dalla produzione passando al consumo è anzitutto da osservare come esso sia in generale un prodotto che, relativamente alla sua massa totale notevole, dà luogo a un commercio di esportazione relativamente modesto.
Dalla tabella che segue risulta che solo il 9,5% della produzione complessiva viene esportato; ma questa percentuale si riduce ancora al 2,9% se si escludono i dati delle esportazioni dell'Algeria e della Tunisia, dirette quasi esclusivamente in Francia, dove il vino di dette provenienze è ammesso in franchigia. Ciò significa che il vino viene quasi del tutto consumato dagli stessi paesi produttori.
Per restare al consumo vinicolo italiano, riferiamo qui di seguito alcuni dati desunti dal Mortara:
L'esportazione dei vini italiani subì alterne vicende. Raggiunse un massimo nel 1887 (in conseguenza dell'invasione fillosserica in Francia), toccando i 3.603.000 hl., in gran parte diretti verso la vicina repubblica; altro periodo florido l'ebbe tra il 1891 e il 1903, dirigendosi verso l'Austria Ungheria e la Germania (con un massimo di hl. 2.503.000 nel 1898); in seguito si diresse verso la Svizzera e le Americhe (con altro massimo di 2.003.000 nel 1910); i 2 milioni furono toccati ancora nel 1918 e nel 1924. Ma successivamente oscillò fra i 700 mila hl. e 1 milione di hl. La media del triennio 1932-34 fu di hl. 922.395, pari al 2,3% della produzione complessiva, per un valore annuo medio di 127.792.000 lire.
Mezzi per l'esercizio dell'industria enologica. - La preparazione del vino richiede una serie di mezzi, indispensabili per una buona trasformazione della materia prima (uva). Tali mezzi sono costituiti dai locali e dal loro attrezzamento (vasi vinarî, macchine e attrezzi). Senza locali costruiti tenendo conto delle varie esigenze della tecnica enologica, e senza adatti recipienti, è impossibile concepire una forma anche rudimentale di vinificazione. Ma quanto più questa assume carattere industriale, avvicinandosi alle altre grandi industrie similari (birreria e altre industrie fermentative, ecc.), tanto più si rendono necessarî appositi impianti meccanici e un complesso di accessorî, tutti aventi lo scopo di assicurare la migliore qualità del prodotto e il perfetto sfruttamento della materia prima (v. anche cantina, VIII, p. 786 e segg.).
Cure per i locali. - Non basta provvedere alla costruzione di locali aventi capacità, ubicazione, distribuzione appropriate; bisogna anche cercare di mantenerli sempre in modo tale che il vino, nelle varie sue fasi, trovi le condizioni migliori possibili, soprattutto in fatto di temperatura. Ma poiché bisogna anche evitare un eccesso di umidità (frequente soprattutto nelle cantine sotterranee, o, comunque, isolate), che provocherebbe sviluppo di muffe, deterioramento di vasi e di macchinario, così una delle cure da non trascurare è un'opportuna ventilazione. Questa dovrà però essere fatta senza alterare sensibilmente la temperatura dei locali. Ciò è possibile, se ci si serve all'uopo, anziché delle finestre, di apposite aperture, comunicanti con tubi praticati nello spessore dei muri dei locali. Esse possono servire ad asportare l'aria umida dell'interno, e in tal caso s'aprono presso la vòlta dell'ambiente terminando sopra i tetti del fabbricato (camini di tiraggio); oppure a introdurre in un locale l'aria asciutta dall'esterno, e allora s'aprono presso il pavimento del locale stesso. Naturalmente ogni apertura dev'essere chiudibile a volontà, per poter regolare il giro dell'aria secondo il bisogno, tenendo ben conto delle condizioni atmosferiche, per evitare d'introdurre dall'esterno nuova umidità in cantina. Bisogna pure proteggere i locali sotterranei da eventuali infiltrazioni dal sottosuolo; ciò che s'otterrà sia con un'opportuna fognatura, sia rivestendo i muri esterni con sostanze idrofughe. Infine, bisogna sempre mantenere la più scrupolosa pulizia nei varî locali, evitando di lasciare negli ambienti in cui si conserva il vino sostanze che emanino odori penetranti, e anche recipienti con aceto, ecc.
Cure per i vasi vinarî.. - Se già molto importanti sono le cure, che potremmo dire igieniche, per i locali, a più forte ragione lo sono quelle per i recipienti destinati alla preparazione e conservazione del vino. Le più interessanti sono quelle relative alle botti di legno, sia perché queste sono le più diffuse, sia perché presentano anche maggiori difficoltà al riguardo. Per depurare fusti nuovi di legno bisogna asportare, per quanto possibile, dal legno stesso le sostanze solubili, che potrebbero passare nel vino, alterandone l'odore e il sapore. Uno dei metodi più antichi e più semplici è quello di lavare ripetutamente i fusti nuovi con una soluzione bollente di soda (carbonato di sodio), dapprima molto concentrata, e che poi si diluisce riempiendo il recipiente di acqua, fino a che risulti una soluzione del 3%. Dopo circa una settimana di permanenza si toglie la soluzione, si risciacqua abbondantemente con acqua acidulata col 3-4% di acido solforico, poi con acqua comune.
Nei paesi di mare s'usa all'uopo anche l'acqua di mare, lavando poi ripetutamente con acqua dolce. Ottima anche la vaporizzazione dei fusti che continua fino che non esca acqua di condensazione limpida. Per i fusti da trasporto può convenire anche la paraffinatura.
I fusti di legno devono essere ben mantenuti all'esterno e all'interno. Non conviene però verniciarli, o, comunque, spalmarli con sostanze impermeabili, essendo per lo più assai preferibile che avvengano scambî gassosi fra l'interno e l'esterno. Quanto all'interno, esso deve sempre ben lavarsi con acqua semplice ogni volta che la botte si vuota, non lasciando mai nelle botti depositi fecciosi. Per togliere il tartaro, che a poco a poco si deposita sulle pareti, s'usano appositi sgrumatori. Dopo lavati, i fusti debbono essere bene asciugati, indi accuratamente solforati mediante micce di zolfo o fornelli solforatori. La solforazione dovrà ripetersi al più tardi ogni due mesi.
Qualora si tratti di botti di legno che abbiano subito qualche alterazione, se ne può tentare la cura con varî metodi. Le botti acetose si lavano con soluzioni bollenti di soda al 4%. Le botti che sanno di asciutto o secchino si lavano con acido solforico diluito al 10% indi con liscivia di cenere o di soda, poi con acqua. Le botti ammuffite (purché il male non sia avanzato fino ad avere chiazze di muffe giallastre anziché bianche) si possono curare con biossido d'azoto, che si fa svolgere dalla reazione dell'acido nitrico su ritagli di rame (introducendo il tutto in un bicchiere, che si cala nella botte dal cocchiume); dopo 10 o 12 ore si lava la botte con acqua di calce o liscivia. Oppure si ricorre al fuoco, abbruciacchiando superficialmente le doghe ammuffite; o si pennellano le chiazze di muffa con olio di vaselina.
Le vasche in muratura (che oggi per lo più sono in cemento armato) prima dell'uso, se non sono rivestite internamente di piastrelle di vetro. debbono subire qualche trattamento per renderne le pareti inattaccabili dagli acidi del vino. Il sistema più economico è quello delle pennellature con acido solforico diluito al 10%. Più costoso, ma tecnicamente migliore, è il trattamento con soluzioni di acido tartarico concentratissime (i kg. d'acido per 5 litri d'acqua), consumando 50 gr. d'acido tartarico per mq. di parete. Oppure la vetrificazione, pennellando, per 3 volte, le pareti con soluzioni di silicato potassico a dosi crescenti; o, come oggi s'usa di preferenza, con soluzioni di fluosilicato di potassa a 25° Baumé.
Materia prima: uva (v.). - Condizioni che influiscono sulle qualità enologiche dell'uva. - L'attitudine a produrre vini di pregi speciali è la risultante di un complesso di fattori. Alcuni di essi sono legati all'ambiente naturale in cui cresce la vite, e anzitutto al clima. In generale il clima caldo e asciutto è favorevole alla buona qualità del prodotto, purché però non si abbiano eccessi di calore né assoluta deficienza di umidità. Soprattutto l'andamento climatico dei mesi di luglio-settembre decide della qualità. Anche l'autunno, però, se è molto piovoso, può pregiudicare la bontà del prodotto, obbligando ad anticipare la vendemmia per evitare il marciume dell'uva. Il terreno ha pure molta influenza, benché svariati siano i tipi di terreni che bene si prestano a dare degli ottimi vini. Non solo la natura chimica di esso, ma anche quella fisico-meccanica può esercitare un'azione favorevole o nociva sulla qualità dell'uva. In generale tutti gli elementi fertilizzanti del terreno giovano a essa, meno l'azoto, e la sostanza organica, il cui eccesso deprime la qualità. Anche un eccesso di umidità nel terreno, come nell'aria, nuoce alla finezza del prodotto. Ma un'importanza decisiva per la qualità dell'uva l'ha il vitigno. S'è detto, pure con qualche esagerazione, che il "genio" del vino sta nel vitigno. Certo si è che vi sono vitigni nobili, capaci di dare vini d'alto pregio, e vitigni comuni, che possono dare solo vini molto modesti e di consumo popolare. Fra i primi basti citare, tra gl'italiani, il nebbiolo, il grignolino, il barbera, il sangiovese, fra i rossi; il moscato, la malvasia, il vermentino, il greco, l'inzolia, fra i bianchi; e fra gli stranieri, il cabernet, il pinot nero, il merlot, fra i neri; il riesling renano, il sauvignon, il pinot bianco fra i bianchi. Lo stesso vitigno può però dare prodotti più o meno pregiati a seconda di altre circostanze: oltre a quelle già citate (clima e terreno), a seconda dei sistemi di coltivazioze e delle pratiche colturali. Vi sono infatti sistemi più adatti a esaltare la quantità che la qualità (sistemi di potatura ricchi ed espansi); e così pure le concimazioni fortemente azotate, certe operazioni di potatura verde (incisione anulare), ecc. Infine anche lo sviluppo delle malattie della vite può influire sulla qualità dell'uva, per lo più in senso negativo (es., uve peronosporate, colpite dall'oidio, dalle tignole, ecc.). Solo la Botrytis cinerea può nel suo primo stadio contribuire, con determinati vitigni, e in favorevoli condizioni ambientali, a dare vini anche più pregiati (è il caso della cosiddetta Edelfäule delle uve del Reno e della Mosella; delle uve infavate dei Castelli Romani).
Cenni sul processo di maturazione dell'uva. - Il ciclo vitale del grappolo d'uva dall'avvenuta fecondazione che trasforma l'ovario in frutto sino al suo ammezzimento o avvizzimento, si può dividere in 4 periodi:
1. Periodo erbaceo, durante il quale il grappolo si comporta come qualsiasi altro organo verde, assimilando l'anidride carbonica dell'aria, formando idrati di carbonio, e aumentando rapidamente di peso e di volume.
2. Periodo dell'invaiatura, contraddistinto dall'aspetto che assumono gli acini, che ormai hanno raggiunto quasi il volume definitivo; e, nelle uve colorate, dalla prima apparizione del colore caratteristico, mentre nelle bianche s'avverte un primo accenno all'ingiallimento. Durante questo periodo, l'acino accumula lo zucchero proveniente dalle foglie; mentre va formando gli acidi, probabilmente a spese dello stesso zucchero. L'acino accenna anche a diventare molle, per la solubilizzazione delle sostanze pectiche.
3. Periodo della maturazione, durante il quale l'acino aumenta sensibilmente di peso, e ancora un po' di volume, fino a raggiungere un maximum, mentre anche lo zucchero va aumentando e l'acidità rapidamente diminuendo, in parte per la salificazione degli acidi liberi, in parte per l'ossidazione di questi (specialmente dell'acido malico). Il rapporto fra glucosio e levulosio, va gradatamente avvicinandosi a 1, mentre al momento dell'invaiatura è pressoché eguale a 2. Si raggiunge così la maturazione industriale dell'uva (che non sempre coincide con quella fisiologica, cioè con la perfetta maturazione dei semi).
4. Periodo della stramaturazione, che segue alla perfetta maturazione, e può verificarsi tanto nei grappoli ancora sulla pianta, quanto su quelli staccati e conservati. Ormai il grappolo non può più nulla ricevere dalla pianta, e invece perde una parte dei suoi componenti, sia per evaporazione, sia per processi d'ossidazione, sia per l'intervento di organismi estranei (muffe, ecc.). Mentre quindi sembra che l'uva s'arricchisca specialmente di zucchero, per la concentrazione dei suoi succhi, tanto gli acidi, quanto il tannino, le materie coloranti e lo stesso zucchero in realtà diminuiscono. Aumentano invece le materie pectiche, e ciò spiega il miglioramento di sapore nei vini fatti con uve più o meno appassite.
Vendemmia. - È l'operazione della raccolta dell'uva, sia che questa venga destinata al consumo come frutto, sia che debba subire la vinificazione. È sempre stata una fra le più interessanti pratiche agricole, ed essa ebbe in ogni tempo grande importanza, non soltanto tecnica, ma anche spirituale, assurgendo in passato all'altezza di un vero e proprio rito, e ancor oggi serbando, in più luoghi, caratteristici aspetti e singolarità folkloristiche, che molto frequentemente hanno ispirato poeti e artisti.
Fin dai tempi più antichi si cercò di evitare le vendemmie intempestive, e già Esiodo e Platone fissarono norme rigorose circa il momento d'iniziare la raccolta dell'uva. Nei primi secoli di Roma l'inizio della vendemmia costituiva una solenne cerimonia; le leggi delle XII Tavole prescrivevano di non vendemmiare che allorquando cadono le foglie. Catone, Virgilio, Columella, Plinio insistono tutti sulla necessità di non aver troppa fretta nel vendemmiare.
La festa della vendemmia, presso i Romani (le Vinalia o, più precisamente, le Vinalia rustica) si celebrava il 19 agosto. La festa era in onore di Giove dal quale, come signore del cielo e di tutti i suoi fenomeni, dipendeva l'andamento di tutta l'annata agricola (cfr. Virgilio, Georg., II, 419: et iam maturis metuendus Iuppiter uvis). La festa si svolgeva in tutti i villaggi della campagna romana e aveva principalmente lo scopo d'impetrare la protezione del dio sull'imminente vendemmia; la quale veniva poi aperta dal sacerdote stesso di Giove, il flamine diale, che operava il sacrificio di un'agnella. Col nome di Vinalia si celebrava un'altra festa: le Vinalia priora. Questa cadeva il 23 di aprile, valeva anch'essa per Giove e il suo ricorrere indicava il tempo in cui il vino della precedente raccolta, ormai completamente fermentato, poteva essere introdotto in città.
Dai riti religiosi dell'antichità nacquero nell'età di mezzo i cosiddetti bandi vendemmiali, che ebbero piena applicazione, in Italia come in Francia e in altri paesi viticoli, sino alla Rivoluzione francese, per venire poi sostituiti a poco a poco da forme di "raccomandazione" da parte delle autorità comunali, sino a essere poi abbandonati del tutto; ma ne derivarono gravi inconvenienti, tanto che oggi da più parti se ne va invocando il ripristino.
È ovvio che, in tesi generale, l'uva debba vendemmiarsi quando ha raggiunto la perfetta maturazione. Ciò non esclude che in qualche caso possa essere necessario anticiparla o posticiparla. Il primo caso si verifica quando, per avversità stagionali o per attacchi di parassiti, l'uva giunga all'autunno più o meno avariata, tanto da essere prudente affrettarne la raccolta; può anche darsi il caso che in paesi caldi, dove le uve sono normalmente anche troppo ricche di zucchero e povere di acidi, convenga anticipare alquanto la vendemmia per ottenere vini più armonici; le uve da tavola poi conviene per lo più vendemmiarle un po' prima della perfetta maturazione, per assicurarne meglio la conservazione e il trasporto. Viceversa, in certi casi, e per certi vini speciali, si raccolgono le uve stramature, e leggermente appassite o ammezzite. Ma nella grande maggioranza dei casi le uve destinate alla vinificazione debbono essere vendemmiate a maturazione perfetta, al fine di raggiungere la maggior ricchezza zuccherina nei mosti, e, più tardi, la più alta gradazione alcoolica nei vini. Non è sempre facile determinare quando un'uva è perfettamente matura. I viticoltori normalmente si basano su caratteri esteriori, empirici; ma questi non sono sicuri, e possono portare a errori non lievi. Il metodo migliore è quello di seguire, mediante analisi gleucometriche giornaliere, l'ascesa della ricchezza zuccherina nell'uva, procedendo alla vendemmia quando tale ricchezza diviene stazionaria per qualche giorno.
In pratica però questo sistema incontra varie difficoltà, la più grave delle quali è quella di saper raccogliere giornalmente dei campioni di uva che rappresentino realmente la media del vigneto. Altre difficoltà, però più superabili, riguardano i metodi di determinazione del contenuto zuccherino dei campioni stessi. Per avere dati di qualche esattezza, bisognerebbe ricorrere al metodo chimico cosiddetto del liquido di Fehling, basato sul potere riducente dello zucchero di uva; ma esso non è alla portata di qualsiasi agricoltore. Perciò normalmente si usano metodi fisici (densimetrici), servendosi di appositi areometri, chiamati mostimetri o gleucometri (vedi gleucometro). I dati che così s'ottengono sono però soltanto approssimativi. In qualunque caso, per essere più sicuri di avere la ricchezza effettiva di zucchero di un mosto, è necessario che il campione d'uva venga spremuto a fondo, sì che comprenda le varie porzioni di mosto dell'acino.
Stabilito il giorno d'inizio della vendemmia, bisogna aver cura di non raccogliere le uve bagnate di rugiada o di pioggia; nei paesi caldi sarebbe anche preferibile sospendere la raccolta nelle ore più soleggiate. Un'importanza notevole ha la scelta delle uve, che conviene venga eseguita durante la stessa vendemmia. All'uopo, i vendemmiatori, armati di apposite forbici o falcetti, e di adatti recipienti, tengono separati i grappoli eventualmente poco maturi o molto guasti; nonché gli acini verdi, che talora son frammezzati a quelli maturi nello stesso grappolo, e quelli comunque alterati (si possono però utilmente tenere quelli soltanto ammezziti, o colpiti dallo stadio larvato della Botrytis cinerea o muffa grigia dell'uva). Le uve scartate, raccolte in recipienti distinti, verranno utilizzate a parte.
Grandissima è la varietà dei recipienti da vendemmia. Già fin dai tempi antichi se ne usavano di vimini, di legno, di terracotta; oggi se ne usano anche di metallo e di tela impermeabile. Per lo più tali recipienti sono di modeste dimensioni per poterli agevolmente trasportare lungo i filari; le uve poi vengono da quelli versate in recipienti maggiori, adatti al trasporto su carri o, nei luoghi meno serviti da buone strade, a basto d'animale. In alcune regioni (Emilia, Venezia Tridentina, vigneti del Reno e della Mosella), le uve subiscono una sommaria pigiatura nel vigneto stesso, e sono poi trasportate così alle cantine, entro appositi recipienti (v. castellata).
Pigiatura. - E operazione indispensabile per la trasformazione del mosto in vino, in quanto i microorganismi che presiedono a tale trasformazione si trovano tutti all'esterno degli acini, ed è necessario che questi vengano schiacciati perché quelli passino nel liquido che dovrà fermentare. Inoltre occorre rompere la buccia dell'acino e le rispettive membrane cellulari, per facilitare la diffusione dei succhi e la compenetrazione delle parti liquide e solide della vendemmia.
Perciò la pigiatura è antica quanto la vinificazione, come testimoniano le rappresentazioni di scene di vendemmia e di ammostatura dipinte su monumenti egiziani risalenti a qualche millennio a. C. Fino da allora il metodo più comune per effettuare la pigiatura era quello di schiacciare i grappoli con i piedi nudi. E la pigiatura con i piedi è, attraverso i secoli, giunta fino a noi, ed è tuttora largamente usata in tutti i paesi viticoli (molto meno diffusa è la pigiatura a mano fatta per mezzo di appositi pestelli di legno). Da un punto di vista strettamente tecnico, la pigiatura con i piedi, rispettando alcune norme elementari, può riuscire perfetta. Anzitutto perché essa, meglio di quella a macchina, può essere graduata a volontà, riuscendo più o meno completa. Ché, a seconda dei casi, può essere utile che la pigiatura si faccia soltanto sommaria, cioè senza schiacciare troppo energicamente gli acini, oppure che sia spinta al massimo possibile. Il primo caso si verifica quando si vogliano preparare vini bianchi o rosati da uve nere; o anche solo quando si vogliano preparare vini rossi poco colorati e poco tannici da uve molto ricche di materie coloranti e tanniche; infine, in generale, per la vinificazione delle uve bianche. In tutti gli altri casi è bene invece che la pigiatura sia completa. Questa però dovrà, in qualunque caso, non schiacciare i raspi né rompere i vinaccioli. Perciò, adottando la pigiatura con i piedi, sarà sempre raccomandabile di farla con i piedi nudi. Altra condizione indispensabile per una buona riuscita della pigiatura con i piedi si è che il mosto possa liberamente e rapidamente defluire non appena fuoriesce dagli acini, per evitare che gli acini, trovandosi immersi nel mosto, sfuggano alla pigiatura. Da questo punto di vista riesce bene la pigiatura nei palmenti, usati nel Mezzogiorno d'Italia: vasche in muratura larghe e basse, a fondo inclinato verso un foro d'uscita. Ma la pigiatura con i piedi è necessariamente lenta (in media un operaio può pigiare 5-6 quintali d'uva all'ora): perciò nei grandi stabilimenti essa è stata quasi del tutto sostituita da quella a macchina. Le macchine che possono usarsi per tale operazione sono svariate, e non tutte razionali. Le migliori sono anche le più costose, e quindi le meno adatte a modeste lavorazioni. Alcune di queste macchine eseguono la sola pigiatura; altre la pigiatura e la diraspatura; altre la pigiatura e la torchiatura. Le seconde sono anche dette pigiatrici-diraspatrici, e sono oggi le più usate nell'industria enologica (v. diraspatura). Ma pure molto usate sono le prime (pigiatrici semplici), che sono anche le più antiche.
In generale le pigiatrici semplici sono del tipo a cilindri o rulli (un primo modello di esse fu ideato nel 1824 da Ignazio Lomeni). Queste pigiatrici fanno però un lavoro poco perfetto, perché o i cilindri sono molto ravvicinati e possono schiacciare raspi e vinaccioli, o sono alquanto distanziati e allora non esercitano una schiacciatura completa degli acini. Possono però bene prestarsi nei casi sopraricordati, in cui convenga una pigiatura sommaria. D'altra parte, essendo macchine economiche, molto semplici, e facendo un lavoro abbastanza sollecito, si sono molto diffuse. Ma per lo più, oggi, si usano le pigiatrici-diraspatrici, alcune delle quali sono pure a cilindri (es., la Cornaglia); più frequentemente però a forza centrifuga (es., la Bruggemann, la Garolla). I grandi modelli di esse possono anche fare un lavoro di 150 e più quintali d'uva all'ora.
Un altro gruppo di macchine è quello dei torchi continui, i quali eseguono a un tempo la pigiatura e la torchiatura. Essi possono servire nel caso in cui le uve si facciano fermentare in bianco (senza vinacce), sì che, dopo la pigiatura, bisognerebbe provvedere subito alla torchiatura delle vinacce. L'utilità di queste macchine è tuttora discussa, in quanto esse, anche dando un elevato rendimento in mosto, non sono molto indicate per la produzione di vini fini. Ciò perché, per l'elevata pressione, e per lo stritolamento cui vengono sottoposti i raspi, nel mosto vengono a passare alcuni dei costituenti di questi, che dànno sapori spiacevoli, ostacolano la naturale chiarificazione dei vini, ecc. Naturalmente oggi negli stabilimenti industriali le suddette macchine (pigiatrici, torchi continui, ecc.) sono fatte funzionare mediante motori elettrici o termici, e sono corredati d'opportuni dispositivi per il sollevamento delle uve, il trasporto dell'uva pigiata, lo sgocciolamento delle vinacce, ecc.
Fermentazione alcoolica. - (Per la parte storica e più strettamente chimica dell'argomento, v. fermentazione, XV, p. 29 e segg.). Tutti i microorganismi che si trovano nel mosto dell'uva e che interessano questo fondamentale processo dell'enotecnica appartengono all'immenso stipite dei funghi; potremo distinguerli - da un punto di vista tecnico - a lor volta in tre grandi gruppi: 1. fermenti; 2. batterî; 3. muffe.
Mentre i primi sono, nel loro complesso, utili, anzi indispensabili per la trasformazione del mosto in vino, gli altri sono in generale nocivi, o perché dànno luogo ad alterazioni del prodotto, o perché consumano inutilmente dei componenti del mosto, e specialmente dello zucchero.
Qui ci occuperemo in modo precipuo dei fermenti. Essi appartengono alla sottoclasse degli Ascomiceti: però alcuni (che normalmente non sporificano) vengono anche posti tra i Funghi imperfetti. Alla prima sotto-classe appartiene la famiglia delle Saccharomycetaceae, che comprende il genere Saccharomyces, fondamentale per la fermentazione alcoolica, di cui la specie più interessante per l'enologia è il S. ellipsoideus (molto meno interessante l'antica specie descritta da M. Rees col nome di S. Pasteurianus).
Si tratta di microorganismi unicellulari, di forma ellissoide, col diametro maggiore per lo più di 6 a 8 μ. La forma però può variare a seconda delle condizioni dell'ambiente in cui vivono, potendo anche divenire stranamente allungata, quando costituiscano un velo alla superficie dei liquidi fermentanti. Esaminati a forte ingrandimento, presentano, all'interno d'una membrana cellulare, un ammasso protoplasmatico, nel quale, oltre al nucleo, si notano diversi vacuoli, delle granulazioni e gocce di grassi. Questi fermenti, trovandosi in condizioni favorevoli, si moltiplicano molto rapidamente per gemmazione (donde anche il nome di Blastomiceti), e, a seconda dei casi, le nuove cellule possono separarsi o restare unite alla cellula madre. La moltiplicazione è specialmente attiva nelle prime ore che seguono la pigiatura delle uve. In condizioni speciali, e soprattutto fuori dei liquidi zuccherini loro appropriati, i fermenti però si moltiplicano per spore, le quali, essendo molto resistenti, assicurano la conservazione della specie anche in ambienti difficili e da un anno all'altro. Le differenze che si osservano nel processo di sporificazione dei fermenti (numero, forma, tempo occorrente per la formazione delle spore, modo di germinazione di queste, ecc.) rappresentano altrettanti caratteri diagnostici importanti per la classificazione e il riconoscimento dei fermenti. Infatti, per quanto le forme delle varie specie di fermenti differiscano fra loro (così quella del S. Pasteurianus è più allungata e più stretta di quella del S. ellipsoideus) non riesce sicura la distinzione soltanto in base a caratteri morfologici, mentre lo è assai più quella basata o sul modo di riprodursi, o, anche meglio, sul comportamento fisiologico dei fermenti. Tanto più è necessario ricorrere a questo criterio quando si tratti di fermenti normalmente non capaci di sporificare, come lo Pseudosaccharomyces apiculatus; come le Torula e i Mycoderma. Il primo (detto anche S. apiculatus), così chiamato per la sua forma a limone con una specie di umbone, è sempre presente in buon numero nel mosto d'uva, di cui anzi inizia la fermentazione alcoolica. Le Torula (che più esattamente dovrebbero chiamarsi Torulopsis) hanno caratteri abbastanza vicini ai saccaromiceti; sono per lo più tondeggianti; frequentemente sono colorate da pigmenti gialli, arancioni, rossi o bruni. Meno definito è il significato del termine Mycoderma, che anzi oggi non è ammesso come nome di genere da alcune delle moderne classificazioni degli Eumiceti; ma in generale si denominano così i Blastomiceti capaci di produrre membrane alla superficie dei liquidi di cultura, ma incapaci di formare essi stessi dell'alcool. Sono per lo più di forma allungata, e di grandezza molto varia. Comunque, il criterio diagnostico fisiologico si basa sulle diverse attitudini dei suddetti microorganismi nell'utilizzare gli zuccheri e nell'adattarsi all'ambiente. Gli uni infatti fanno fermentare il glucosio, il levulosio, il saccarosio; gli altri il lattosio, il maltosio. Diverso è anche il loro comportamento di fronte agli acidi, alla temperatura, a taluni antisettici. Si sono così potute distinguere non solo varie specie, ma anche numerosissime razze di fermenti, presentanti differenti caratteristiche interessanti in modo speciale la tecnica fermentativa.
Tralasciamo gli altri microorganismi presenti nei mosti, ma incapaci di produrre fermentazione alcoolica (come le muffe: Botrytis, Penicillium, Aspergillus, Mucor, i Dematium; e i batterî, per lo più patogeni).
Tutti questi microorganismi: buoni, indifferenti e nocivi, si trovano all'epoca della vendemmia sulle uve, e vengono con queste portate nei recipienti dove si pone a fermentare il mosto. Come ha per primo brillantemente dimostrato L. Pasteur, l'interno degli acini sani è asettico, e pertanto è necessario che l'acino venga schiacciato, perché il suo succo possa venire a contatto dei microorganismi sparsi sulle bucce e nell'aria dei vigneti e delle cantine. I microorganismi (e specialmente quelli nocivi) sono tanto più numerosi quanto meno sane sono le uve, ed è questo uno dei pericoli maggiori cui si va incontro dovendo vinificare uve guaste o imperfettamente scelte.
Alla loro diffusione, soprattutto durante la maturazione dell'uva, contribuiscono in modo notevole le vespe e gl'insetti capaci d'intaccare e rompere la buccia dell'uva, nonché tutti gl'insetti che si posano sulle uve. Durante la stagione autunnale, concorrono poi in modo notevole alcuni moscerini del genere Drosophyla (melanogaster e cellaris).
Fisiologia dei fermenti alcoolici. - Come ogni essere vivente, i fermenti compiono una serie di funzioni, che s'iniziano con la loro nascita e si chiudono con la loro morte.
E anzitutto provocano processi d'assimilazione e disassimilazione: i primi destinati a trasformare la sostanza nutritiva del mezzo in sostanza vitale, protoplasmatica; i secondi a scomporre sostanze chimicamente complesse per renderle assimilabili e a produrre l'energia necessaria alla vita del fermento stesso. Fra questi ultimi processi si può annoverare la respirazione, che normalmente si compie, come per tutti gli organismi, a spese dell'ossigeno dell'aria. Però il fermento può anche vivere anaerobicamente (cioè in ambiente privo d'ossigeno); in tal caso subisce una respirazione intramolecolare, togliendo l'ossigeno ad alcuni dei componenti della cellula stessa, e formando, oltre che anidride carbonica e acqua, anche alcool. È dunque, questa, una forma di fermentazione alcoolica. Ma il processo della fermentazione alcoolica vera e propria, per mezzo del quale il fermento scompone lo zucchero producendo anidride carbonica e alcool, oltreché permettere al lievito di vivere anche in assenza di ossigeno libero, avrebbe, secondo J. Wortmann, un altro scopo, quello di costituire un mezzo di difesa del fermento nella lotta contro il predominio degli altri microorganismi concorrenti, che popolano i mosti, e che hanno una rapidità di moltiplicazione anche superiore a quella dei fermenti alcoolici. Il mezzo di difesa suddetto è costituito dall'alcool, il quale, mentre è tollerato fino a dosi abbastanza elevate dal fermento alcoolico, lo è molto meno dagli altri microorganismi concorrenti.
Ma perché in questa lotta per l'esistenza il fermento alcoolico abbia il sopravvento, è necessario che esso si trovi in buone condizioni per moltiplicarsi e per compiere le proprie funzioni.
Il tecnico deve quindi conoscere quali sono le esigenze dei fermenti, anzitutto in fatto di nutrizione, e perciò deve cominciare a conoscerne la composizione chimica.
Composizione chimica del fermento. - Le cellule del lievito contengono da 70 a 80% di acqua, e dal 20 al 30% di sostanza secca. Quest'ultima risulta per 91 a 98% di sostanza organica, e per 2 a 9% di ceneri. La sostanza organica a sua volta è in media costituita da: carbonio 48-49%; ossigeno 34%; idrogeno 6%; azoto 10%. I principali costituenti organici del lievito sono: idrati di carbonio, fra i quali ha particolare importanza un polisaccaride: il glicogeno; sostanze proteiche (peptoni, amminoacidi, nucleine, albumine); grassi. Le ceneri contengono in media il 50% d'anidride fosforica, il 30% di potassio, il 6% di magnesio, il 5% di calcio, l'1,3% di silicio, 0,6% di ferro, 0,6% di anidride solforica. Il fosforo si trova allo stato di fosfati minerali e di composti organici (questi ultimi rappresentano circa il 10% del totale). Fosforo, potassio e magnesio sono gli elementi minerali più importanti per la nutrizione del fermento.
Un interesse fondamentale dal punto di vista non solo biologico ma tecnico hanno gli enzimi secreti dai fermenti. Ve ne sono di differenti tipi: enzimi idrolizzanti, fra cui essenziale la sucrasi o invertina, che presiede alla trasformazione del saccarosio in zucchero invertito, direttamente assimilabile dal fermento; enzimi decomponenti, quale la zimasi, che è il vero agente della fermentazione alcoolica, trasformando lo zucchero in alcool e anidride carbonica; enzimi proteolitici, come l'endotriptasi, che idrolizza le sostanze albuminoidi in amminoacidi. E ancora enzimi ossidanti e riducenti (catalasi, perossidasi; idrogenasi o riduttasi); una lipasi, che saponifica i grassi, ecc.
Nutrizione del fermento. - Conoscendo la composizione del fermento, si possono comprendere i bisogni nutritivi di esso. Anzitutto occorre premettere che, contenendo le cellule del lievito da 70 a 80% di acqua, è necessario che il mezzo in cui esse devono vivere e operare (mosto) abbia una ricchezza di acqua non di troppo inferiore. Ciò spiega come nei mosti eccessivamente zuccherini dei paesi meridionali la fermentazione possa riuscire difficile e talora quasi impossibile. Nei riguardi dell'alimentazione minerale, risulta da quanto s'è detto che il fermento ha bisogno soprattutto d'anidride fosforica, di potassio, magnesio e calcio, oltre che di sali di ferro, di manganese, di solfati, cloruri. Normalmente, i mosti d'uva sono più che a sufficienza provvisti di tutti questi alimenti per il fermento; soltanto in casi piuttosto rari può difettare l'anidride fosforica, e allora è utile somministrarne ai fermenti sotto forma di fosfato ammonico o potassico, in ragione di 5 a 15 grammi per ettolitro di mosto. Quanto all'alimentazione azotata, è da ricordare come essa è soprattutto importante per la moltiplicazione del fermento e per la vita vegetativa; però giova anche all'attività fermentativa. Per quanto i mosti siano per lo più sufficientemente provvisti anche di azoto, tuttavia non mancano casi in cui può convenire una certa somministrazione d'azoto, che normalmente si fa sotto forma di sali ammoniacali. Infine, nei riguardi dell'alimentazione idrocarbonata, il lievito può disporre più che tutto degli zuccheri, così abbondanti nei liquidi fermentescibili. Esso si giova però anche degli zuccheri non fermentescibili, essendo i processi di fermentazione del tutto indipendenti da quelli di assimilazione. Tuttavia, nel complesso, la quantità di zucchero che il lievito consuma per la sua nutrizione rappresenta soltanto circa l'1% di quello che fermenta.
Altri agenti che influiscono sul fermento. - Oltre a tener conto delle esigenze nutritive del fermento, per la tecnica della fermentazione occorre tener presenti altri fattori, di natura fisica e chimica.
Anzitutto dell'azione dell'ossigeno dell'aria. Il meccanismo di questa azione nel fenomeno fermentitivo è stato oggetto di numerosi studî, dal Pasteur in poi; oggi è ben chiarito quale esso realmente sia. L'ossigeno non è affatto necessario al processo della fermentazione, in quanto che la zimasi alcoolica può benissimo agire senza di esso. Però è indispensabile all'accrescimento e alla moltiplicazione del lievito, e specialmente per la germinazione delle spore, e riesce molto utile quando il lievito è vecchio, o quando si trova in cattive condizioni di vita. Naturalmente, favorendo la moltiplicazione dei fermenti, s'ottiene una maggiore produzione di zimasi, e quindi, in definitiva, l'ossigeno è un mezzo importantissimo per intensificare la fermentazione. S'intende che, a un certo punto, quando cioè la massa fermentante è ormai largamente provvista di lieviti, è preferibile non favorire un'ulteriore moltiplicazione di questi per evitare un inutile consumo di zuccheri, e perciò conviene arrestare l'afflusso dell'aria nella massa. Altro fattore essenziale è la temperatura. Essa influisce tanto sulla moltiplicazione e sull'accrescimento del fermento quanto sul suo potere fermentativo. Pur variando sensibilmente il comportamento delle diverse razze di lievito nei riguardi della temperatura, tuttavia esse presentano tutte una temperatura minima, al disotto della quale la moltiplicazione è nulla, una ottima, e una massima, oltre la quale nuovamente s'arresta la moltiplicazione. In generale la temperatura minima s'aggira sui 6°, la massima sui 40°; l'ottima sta fra i 20° e i 30°. Verso i 60° i fermenti muoiono, pur continuando a resistere le loro spore. Ma già verso i 40° essi dimostrano di soffrire, l'energia fermentativa diminuisce, i prodotti della fermentazione s'originano in rapporti alterati, e per lo più la fermentazione alcoolica finisce con l'essere sopraffatta da altre fermentazioni (soprattutto da quella mannitica). Si deve poi tener conto che nello stesso fenomeno fermentativo si formano notevoli quantità di calore. Se non intervenissero molteplici cause di dispersione, nella fermentazione d'un mosto col 18% di zucchero si dovrebbe avere un aumento di temperatura di 23°-24°. Molto meno sensibili sono i fermenti alle basse temperature; tanto che si possono conservare anche a lungo inclusi nel ghiaccio senza che perdano la loro vitalità, dimostrando anzi, dopo una certa permanenza a bassa temperatura, maggiore energia fermentativa. Per le alte temperature (sopra i 60°) ha molta importanza la durata, bastando in generale un riscaldamento a 60° per mezz'ora per uccidere tutti i fermenti (vi contribuisce anche il contenuto in acidi del mosto e la sua ricchezza zuccherina). Un'azione l'esercita anche la luce solare, ma è una azione ritardatrice, che può anche essere decisamente nociva se unita al calore (4 ore d'esposizione al sole a 40° possono uccidere il lievito); ciò che può avere interesse per i paesi caldi e spiegare il ritardo dell'inizio di certe fermentazioni. I raggi ultravioletti possono però esplicare un'utile azione selettiva rispetto ai varî fermenti. La pressione per sé stessa non ha un effetto notevole, e può causare solo disturbi temporanei. Ma può divenire più nociva se sommata ad altri fattori (per es., all'anidride carbonica nei vini spumanti). Degli agenti chimici, oltre all'ossigeno di cui s'è già parlato, interessano in modo speciale gli acidi. La loro azione è proporzionale al loro grado di dissociazione, e perciò è più marcata quella degli acidi minerali; però varia anche a seconda della natura dell'acido. In generale, i fermenti alcoolici amano un ambiente debolmente acido, a differenza di altri microorganismi concorrenti che rifuggono da ogni acidità. Però, mentre l'acidità fissa (dovuta all'acido tartarico e malico) è utile, quella volatile (dovuta agli acidi grassi: formico, acetico, propionico, butirrico, ecc.) è nociva, tanto più quanto più alto è il contenuto del mezzo in detti acidi. Veri veleni dei fermenti sono poi gli acidi aromatici: benzoico e salicilico. Anche il tannino esercita un'azione negativa, potendo, in dosi elevate, anche arrestare la fermentazione, ostacolando la moltiplicazione dei fermenti e paralizzando l'azione della zimasi.
Un'importanza speciale hanno gli antisettici. Com'è noto essi sono sostanze che possono impedire lo sviluppo dei microorganismi e anche ucciderli. Una proprietà speciale degli antisettici è però quella di potere, in piccole dosi, esercitare un'azione acceleratrice della fermentazione. Sicché, per ogni antisettico esiste una dose ottima o eccitatrice che s'esplica sul potere fermentativo del lievito; aumentando la dose si rallenta sempre più la moltiplicazione, poi la stessa attività del lievito fino ad arrivare alla morte di questo. Altra proprietà degli antisettici è quella di poter essere tollerati dai fermenti in dosi anche assai più elevate del normale, qualora i fermenti stessi siano stati, con appositi procedimenti, assuefatti o accostumati all'antisettico. Nella tecnica enologica l'antisettico più usato e l'unico permesso dalla legislazione italiana è l'anidride solforosa. Furono anche sperimentati i fluoruri, ma il loro uso non è consentito per la vinificazione. Un'azione che può dirsi anche antisettica l'esercita pure l'alcool, che è il prodotto fondamentale della fermentazione. Per quanto i fermenti alcoolici abbiano per esso una tolleranza maggiore di tutti gli altri microorganismi, tuttavia, oltre una certa dose, viene ostacolata prima la moltiplicazione del lievito, poi la stessa sua attività fermentativa. Il potere riproduttivo del fermento viene impedito quasi del tutto già con 6-8% d'alcool; ma il potere fermentativo può continuare, sia pure sempre più debolmente, anche fino a 17-18% d'alcool. Però un'aggiunta massiva del 15% d'alcool in un mosto in cui non si sia iniziata la fermentazione può impedirla del tutto. Ricordiamo infine che, secondo E.F. Amstrong, l'alcool sarebbe per il fermento un eccitante, come le secrezioni delle ghiandole interne per i tessuti animali. Gli alcoli superiori sono assai più tossici per il fermento di quello etilico. Molto meno spiccata è l'azione dell'altro prodotto principale della fermentazione: cioè dell'anidride carbonica. Non s'è del tutto d'accordo su tale azione, tuttavia nel complesso si può ritenere che essa ostacoli piuttosto la fermentazione, benché, per altre ragioni, possa entro certi limiti giovare (soprattutto paralizzando altri microrganismi).
Prodotti della fermentazione. - Fino da tempi abbastanza antichi s'era riscontrato che il fenomeno della fermentazione dello zucchero porta alla scomparsa di questo componente dei mosti, e all'origine di nuovi prodotti, il più importante dei quali è l'alcool etilico. A.-L. Lavoisier per primo tentò un bilancio chimico della fermentazione, affermando che da 100 grammi di saccarosio si ottengono gr. 60,2 di alcool; 36,8 di acido carbonico, e 2,6 di acido acetico. Il primo bilancio della fermentazione, però, che risponda con sufficiente esattezza alla realtà, venne dato dal Pasteur, il quale, dopo aver constatato che 100 grammi di saccarosio (C12H22O11) invertendosi dànno 105,26 grammi di zucchero invertito (2C6H12O6) concretò il seguente bilancio:
La differenza in più di circa gr. 0,40 è dovuta a sostanze che si formano a spese dello zucchero, ma che furono accertate solo più tardi.
Naturalmente, il prodotto più importante è l'alcool etilico. Interessa molto cercare di stabilire qual'è la resa normale dello zucchero in alcool. Secondo i dati del Pasteur, 100 grammi di zucchero di uia dovrebbero dare circa 60,8 cmc. di alcool; il che significa che per produrre un litro di alcool assoluto occorrerebbero kg. 1,562 di saccarosio, o kg. 1,647 di zucchero d'uva. In realtà, nella pratica enologica s'è constatato che nella migliore delle ipotesi occorrono kg. 1,700 di zucchero d'uva; ma ne possono occorrere assai di più. In altre parole, la resa teorica di 60 cmc. per 100 di zucchero n0n si raggiunge pressoché mai, e si considera già buona una di 58-59; anzi, secondo ricerche di G. Paris, si può ritenere che, nelle vinificazioni ordinarie, la resa sia di 56, mentre, in presenza di anidride solforosa, può essere di 59. Ciò perché sulla resa influiscono molto i microorganismi del mosto, sia le varie razze di fermenti, sia gli altri microorganismi non fermenti.
Tuttavia nella pratica, per trasformare i gradi zuccherini d'un mosto in gradi alcoolici, si suole moltiplicarli per il coefficiente 0,6, ottenendo risultati abbastanza vicini al vero quando si usi per la determinazione dei gradi zuccherini il mostimetro Babo.
L'altro dei due prodotti più abbondanti della fermentazione alcoolica è l'anidride carbonica, che s'origina in ragione di circa 46,6 gr. per 100 di zucchero invertito.
ll meccanismo della formazione di questi due prodotti essenziali della íermentazione è stato oggetto di numerose ricerche (v. anche fermentazione). Qui ci limitiamo a ricordare che, secondo le più accreditate ipotesi, la trasformazione degli zuccheri, tanto nella fermentazione alcoolica, quanto in quella lattica e butirrica, avviene sempre per stadî successivi. Il primo stadio dell'attacco degli zuccheri - esosî - consiste nell'attivazione delle loro molecole, le quali, per azione delle diastasi contenute nei fermenti, si combinano con i losfati, con formazione conseguente di esteri esosofosforici e trisofosforici. Questi ultimi rappresentano già una scissione della molecola dell'esosio. In un secondo stadio, la molecola di questi nuovi composti subisce una rottura, dando luogo alla forimazione di 2 molecole d'acido piruvico e a idrogeno, nel seguente modo:
Secondo alcuni autori, l'acido piruvico sarebbe preceduto dalla formazione di aldeide piruvica, o metilgliossale idratato. A questo punto entra in azione un enzima, la carbossilasi, la quale spezza la molecola dell'acido piruvico in due parti: in aldeide acetica e in anidride carbonica. Se il mezzo, in cui avvengono tali trasformazioni, ha un'acidità normale (pH = 4,3 ÷ 4,5) la velocità delle reazioni diastasiche che conducono alla produzione di acido piruvico, è uguale alla velocità di scomposizione, cui l'acido stesso è sottoposto: nel liquido in fermentazione non si riscontra acido piruvico. Se il mezzo, per aggiunta di creta, ha reazione che si avvicina alla neutra (pH = 6,7), la decomposizione dell'acido piruvico viene rallentata e questo si accumula nel liquido fermentante. Inoltre l'idrogeno, che nasce con l'acido piruvico, si porta sull'altro spezzone della molecola dell'esosio per formare della glicerina. Ed ecco che la glicerina da prodotto accessorio - se ne formano sempre piccole quantità simultaneamente all'acido piruvico - diventa prodotto principale della fermentazione. Come s'è detto, in condizioni normali di acidità, ci troviamo ora in presenza di tre frammenti della primitiva molecola dell'esosio: idrogeno, aldeide acetica, anidride carbonica. Quest'ultima si svolge e si libera dal liquido fermentante: il suo ciclo è terminato. L'idrogeno invece si fissa sull'aldeide acetica, che viene ridotta ad alcool etilico. Resta così compiuto - ridotto nella sua più semplice attuale concezione - il ciclo di trasformazioni dello zucchero in alcool e in anidride carbonica.
Ricordiamo che dal punto di vista della tecnica enologica la glicerina ha notevole importanza contribuendo a dare finezza ai vini (e difatti abbonda nei vini fini e superiori), ad amalgamare i varî sapori d'un vino, attenuandone l'asprezza specialmente dovuta al tannino.
Altro prodotto secondario costante della fermentazione è l'acido succinico, già riscontrato da C. Schmidt fin dal 1847. Se ne ritrovano in generale da grammi 0,60 a 1,20 per litro di vino; se ne forma di più quando il lievito si trova in favorevoli condizioni. L'origine di esso, secondo F. Ehrlich, sarebbe questa: dall'acido glutammico per scissione idrolitica si forma l'acido ossiglutarico e successivamente acido formico, e acido aldeidepropionico e quindi l'acido succinico.
Con la fermentazione si formano anche piccole quantità d'acidi volatili, e specialmente d'acido formico e acetico. Il primo s'originerebbe secondo alcuni dalla demolizione di alcuni amminoacidi per opera del lievito, secondo altri dalla scissione di un ipotetico glicerosio. Il secondo, oltre al formarsi per l'attività di batterî specifici, s'origina anche per azione dello stesso lievito alcoolico, specialmente quando questo si trovi in condizioni difficili. Se ne formano da un minimo di gr. 0,15 a 0,20 per litro, fino a o,9-1,2 (sempre restando, ben inteso, nel campo dei vini sani).
Nei vini s'originano anche, durante la fermentazione degli amminoacidi, in piccolissime quantità altri acidi grassi superiori (propionico, butirrico, valerianico, capronico, ecc.).
Si producono anche alcoli superiori monovalenti e polivalenti, quasi sempre come prodotti normali del ricambio degli albuminoidi nella cellula del lievito. F. Ehrlich ha dimostrato che essi derivano dagli amminoacidi, per azione di enzimi idrolizzanti, che mettono in libertà CO2 e NH3, formando prodotti di natura alcoolica. Per l'influenza che esercitano sui caratteri organolettici dei vini hanno grande importanza gli alcoli superiori monovalenti (alcool propilico, isobutilico, isoamilico, ecc.), i quali nei distillati vanno a costituire il cosiddetto Fuselöl o olio di flemma. Questo è principalmente rappresentato da alcool isoamilico inattivo e alcool d-amilico attivo. Pure molto interessante è il glicole isobutilenico (CH3•CH2•CHOH•CH2OH).
Inoltre si formano delle aldeidi, e specialmente dell'acetaldeide, già riscontrata verso la metà del secolo XIX fra i prodotti della fermentazione. Essa con l'alcool forma l'acetale: CH3•CH(OC2H5)2. Il contenuto aldeidico aumenta poi con l'invecchiamento, contribuendo a dare il caratteristico sapore ai vini vecchi. Il profumo dei vini è dovuto invece prevalentemente al cosiddetto etere enantico, costituito da una miscela di eteri (di butirrato, caprilato e caprinato di etile e di isoamile), nonché degli eteri degli acidi enantico (C7H14O2), pelargonico (C9H18O2), laurinico (C12H24O2) e miristico (C14H28O2).
Mezzi per favorire la fermentazione alcoolica. - Partendo dalle conoscenze sopra enunciate sul fenomeno della fermentazione alcoolica, si possono facilmente comprendere quali debbono essere le norme da adottare per il razionale governo della fermentazione stessa. Importa anzitutto ricordare quali sono i mezzi adatti per favorire tale processo.
Temperatura iniziale. - Deve essere più prossima che sia possibile ai 18°: essendo essa quella che consentirà alla massa, grazie al calore che sviluppa lo stesso processo fermentativo, di raggiungere l'optimum di temperatura per i buoni fermenti alcoolici.
In pratica possono darsi due casi: o che la temperatura iniziale sia troppo bassa, o troppo alta. Nel primo caso, bisognerà o riscaldare l'ambiente, o riscaldare il mosto. In generale nei climi temperati è preferibile questo secondo modo, come quello che può dare risultati più solleciti. Si può riscaldare di pochi gradi tutta la massa, mediante appositi apparecchi riscaldatori; o si può riscaldare a una temperatura molto più alta solo una parte del mosto. Anche l'aggiunta (cui s'accenna più avanti) d'una forte quantità di mosto o lievito in vigorosa fermentazione favorisce un rapido riscaldamento della massa d'uva pigiata per il calore che si svolge nella fermentazione.
Nei paesi meridionali può essere invece necessario raffreddare l'ambiente o la massa che deve fermentare. Quest'ultimo intento si raggiunge per mezzo di appositi refrigeranti per. mosti (es. quello di Müntz e Rousseaux).
Aerazione della massa. - Essa giova soprattutto all'inizio della fermentazione per moltiplicare i saccaromiceti e per riattivare quelli vecchi o pigri. Tale aerazione si può fare in varî modi, a seconda che si debba far fermentare il mosto con le vinacce o il mosto da solo.
Nel primo caso, il mezzo più antico è quello delle follature, con le quali, mediante appositi strumenti (follatori) si rompe il cappello delle vinacce, e lo si affonda nella massa, venendo in questo modo a disciogliere in questa una quantità notevole d'aria, quindi d'ossigeno. Se i tini sono molto grandi, può essere più consigliabile il rimontaggio del mosto: facendo cadere a pioggia il mosto stesso in un sottospina, e di qui con la pompa riversandolo dall'alto sul cappello delle vinacce. Il rimontaggio presenta inoltre il grande vantaggio di omogeneizzare la massa fermentante, che, quasi completamente fermentata alla superficie, negli strati più bassi può essere ancora dolce.
Il rimontaggio è pure necessario quando si voglia fare la cosiddetta fermentazione a cappello sommerso. Con questo sistema, invece di lasciar affiorare le vinacce presso la bocca del tino (fermentazione a cappello galleggiante), si obbligano queste a restare continuamente immerse nel mosto per mezzo di appositi diaframmi di legno, che si fissano a varie altezze nei tini. È un modo questo di garantirsi meglio contro i pericoli dell'inacetimento; ma non è indispensabile, ché anche la fermentazione a cappello galleggiante, se ben condotta, può dare vini sanissimi. S'usano oggi anche appositi iniettori d'aria, con i quali è possibile raggiungere una aerazione molto energica. L'aerazione, come s'è detto, è utile specialmente nel primo periodo della fermentazione. In seguito si potrà ridurre notevolmente e anche sospendere.
Aggiunta di lieviti. - Un mezzo molto efficace per favorire la fermentazione è quello d'arricchire fin dal principio di fermenti la massa. Ciò si può ottenere o ricorrendo a fermenti selezionati o semplicemente a un lievito "piè di tino", preparato dallo stesso cantiniere. L'uso dei fermenti selezionati può riuscire utilissimo in casi particolari: soprattutto quando, avendo uve poco sane al momento della vendemmia, conviene sterilizzare la massa, e poi disseminarvi buoni fermenti. Può giovare anche per la fermentazione in ambienti difficili (troppo freddi o troppo caldi); per vinificazioni speciali (vini spumanti, ecc.); per le rifermentazioni, ecc. Ma quando si abbiano uve normali, sane, può bastare anche prepararsi, con delle uve scelte, raccolte 2-3 giorni prima dell'inizio della vendemmia, una piccola quantità di mosto, che si farà entrare in piena fermentazione tenendolo in ambiente a temperatura adatta, e aerandolo ripetutamente. Tale mosto fermentante sarà ricchissimo di buoni e attivi saccaromiceti, e, versandolo nella massa dell'uva pigiata subito dopo riempito il tino (in ragione di 2-3 litri per hl.), ne potrà far iniziare molto più sollecitamente il processo fermentativo. È questo il cosiddetto piè di tino.
Miglioramento della composizione chimica del mosto. - Anche questo può essere un modo efficace per favorire la fermentazione. Già s'è visto che un mosto troppo zuccherino o poco acido è meno atto a una buona e regolare fermentazione. Ma talvolta vi sono altri difetti di composizione, e specialmente deficienza di sostanze azotate. Come s'è detto, esse sono indispensabili per la nutrizione dei fermenti, e se tali sostanze sono troppo scarse, questi non possono moltiplicarsi né funzionare attivamente. Di qui il bisogno, di aggiungere in questi casi al mosto qualche prodotto azotato: e specialmente carbonato o fosfato ammonico, per lo più in dosi variabili da 15 a 30 grammi per ettolitro di mosto. Volendo invece ostacolare o frenare la fermentazione alcoolica, se non inibirla del tutto, si potrà ricorrere utilmente all'uso di antisettici. Il più noto in enologia, e l'unico permesso anche dalle vigenti disposizioni di legge, è l'anidride solforosa (SO2).
L'anidride solforosa nella fermentazione. - Questo antisettico, come s'è visto, può avere effetti molto diversi a seconda delle dosi in cui viene usato. In dosi molto elevate (di 50 e più grammi per hl.) può senz'altro sterilizzare il mosto e impedirne ogni movimento fermentativo (dando i cosiddetti mosti muti). In dosi gradatamente minori può solo ostacolare temporaneamente la fermentazione, o può anche, sotto un certo aspetto, favorirla. Quest'ultimo effetto è dovuto al fatto che l'anidride solforosa è assai più tollerata dai buoni fermenti alcoolici che non dagli altri microorganismi che popolano il mosto. Non solo, ma i saccaromiceti possono venir accostumati all'SO2, riuscendo così a tollerarne dosi anche assai maggiori. Essa può quindi operare una specie di selezione di detti microorganismi, eliminando la concorrenza di quelli inutili o nocivi. La conseguenza di questa selezione è una fermentazione più pura, donde un maggior rendimento in alcool; dei vini più sani, più franchi di sapore, più resistenti soprattutto a certi malanni (es., alla casse ossidasica). L'anidride solforosa è anche un prezioso aiuto per la vinificazione in climi caldi, permettendo di regolare e moderare la fermentazione a volontà, impedendo anche l'eccessivo riscaldamento della massa fermentativa. Le dosi in cui essa può venire usata variano a seconda delle circostanze: da 5 grammi per ettolitro a 15-20. In quest'ultimo caso conviene però ricorrere a fermenti (selezionati o no) già abituati all'anidride solforosa. Questa può somministrarsi o come tale, ricorrendo alle bombole che la contengono allo stato liquido; o a taluni suoi sali: bisolfito e metabisolfito di potassio. Di questi si deve usare una dose doppia dell'SO2 liquida. Si tenga presente che le dosi maggiori di SO2 dovranno usarsi nei paesi caldi, o nei casi di uve piuttosto gravemente alterate. Comunque, converrà sempre attenersi alle dosi minime indispensabili, non essendo mai opportuno (per l'igiene del consumatore di vino) esagerare nell'uso di questo antisettico. (V. più avanti: Legislazione).
Correzioni dei mosti. - In non pochi casi - o per cattive condizioni d'ambiente o per la natura stessa dei vitigni - i mosti che si ottengono risultano più o meno difettosi, perché di composizione chimica anormale o non equilibrata. Potranno allora riuscire molto utili alcune correzioni, che tendono appunto a migliorare tale composizione. In generale è preferibile - potendo - fare le correzioni sui mosti, anziché più tardi sui vini, perché esse riescono molto meglio e sono meno facilmente avvertite. Tali correzioni interessano soprattutto due dei principali componenti dei mosti: lo zucchero e l'acidità. E, naturalmente, esse possono tendere ad aumentare o a diminuire la quantità di tali componenti.
Correzione della deficienza di zucchero. - È un caso che interessa di frequente i paesi settentrionali, specialmente nelle vendemmie disgraziate, in cui si hanno mosti poveri di zucchero, che darebbero poi vini deboli di alcool, di poco valore e di difficile conservazione. Tale correzione si può fare in varî modi. Un tempo era usato lo zuccheraggio, consistente nell'aggiungere ai mosti una certa quantità di saccarosio: aggiunta che era, in passato, consentita dalla legislazione italiana. Ma l'attuale legislazione italiana non permette più lo zuccheraggio (tranne che per vini speciali, di lusso, indicati dalla legge).
Metodi permessi dalla legge sono invece: l'aggiunta di mosti concentrati, di filtrati dolci o di mosti muti. L'uso della concentrazione del mosto per il miglioramento della vendemmia è antichissimo. Però, fino a non molti anni addietro, tale concentrazione si faceva esclusivamente a fuoco diretto, in caldaie aperte di rame. Ciò portava a una parziale caramellizzazione dello zucchero del mosto, con conseguente caratteristico odore e sapore di cotto (donde anche il nome di mosti cotti dato a tali concentrati). Oggi i mosti cotti vengono usati solo per la preparazione di taluni vini speciali (per es., il marsala); ma per i vini da pasto il sapore di cotto è da evitare. S'è quindi a poco a poco perfezionata la preparazione di tali mosti concentrati, fino a impedire del tutto ogni caramellizzazione dello zucchero. Ciò s'è ottenuto o concentrando i mosti a pressione ridotta e a temperature non superiori ai 50°; o concentrandoli con il freddo, cioè congelando una parte dell'acqua che essi contengono. Normalmente i mosti concentrati del commercio contengono non meno di 55% di zucchero; ne bastano quindi proporzioni abbastanza piccole per ottenere un discreto aumento nel titolo zuccherino. É bene però avvertire, per evitare errori, che i mosti concentrati vengono di solito commerciati a gradi Baumé. Ora, per conoscere il contenuto reale in zucchero di detti mosti, bisogna invece convertire, col sussidio d'apposite tabelle, i gradi Bé in gradi Babo o Guyot (cioè in gradi espressi dai rispettivi mostimetri o gleucometri: v. gleucometro), tenendo però sempre presente che il mostimetro Babo indica i chilogrammi di zucchero contenuti in un quintale di mosto, mentre il mostimetro Guyot indica i chilogrammi di zucchero di un ettolitro di mosto (il Guyot è il più usato in Italia). Volendo calcolare la quantità di mosto concentrato da aggiungere per ottenere una determinata correzione in un mosto, si può semplicemente ricorrere alla cosiddetta regola della croce (di miscuglio).
Esempio: abbiamo un mosto con 15% di zucchero, e vogliamo portarlo al 20%, con un mosto concentrato al 60% (Guyot). Si proceda così:
Il rapporto di miscuglio si trova per mezzo della seguente "croce"
dove dapprima si scrivono a sinistra, l'una sull'altra, le percentuali di zucchero del mosto da correggere (15) e del mosto concentrato disponibile (60), e al centro la percentuale di zucchero voluta (20); poi, a destra, si segnano in alto la differenza fra 60 e 20, e in basso la differenza fra 20 e 15. Ciò basta per concludere che a 40 parti di mosto da correggere bisogna aggiungere 5 parti di mosto concentrato.
Volendo la quantità di mosto concentrato che va aggiunta a 100 litri di mosto da correggere, si ricorre alla proporzione 40:5 = 100: x da cui
Per ogni ettolitro di mosto da correggere bisognerà perciò aggiungere litri 12,5 di mosto concentrato, ottenendo litri 112,50 di mosto a 20% di zucchero.
Allo stesso scopo possono servire anche i cosiddetti "filtrati dolci", quando siano prodotti con uve molto ricche di zucchero del Mezzogiorno d'Italia. Sono così chiamati perché sono mosti mantenuti dolci mediante la filtrazione, che ne elimina la maggior parte dei fermenti alcoolici. Prima della filtrazione si lascia però che essi inizino la fermentazione sino a produrre qualche grado di alcool, e ciò per poterli filtrare più agevolmente. Secondo i fondamentali studî di C. Mensio, con l'eliminazione dei fermenti, mediante la filtrazione, si asportano pure dai mosti le sostanze nutritive, massime quelle azotate, che erano state assorbite dal fermento alcoolico per i suoi bisogni vitali e immobilizzati nel suo organismo.
I filtrati riescono in tal modo impoveriti di sostanze azotate e per tale fatto risultano incapaci di subire un'ulteriore completa fermentazione; essi rimangono a lungo quieti, pur essendo ancora molto dolci.
Invece i mosti muti non debbono contenere che minime quantità di alcool. Essi sono resi infermentescibili mediante l'aggiunta di fortissime dosi d'anidride solforosa. Scacciando tale antisettico, in presenza di fermenti alcoolici essi possono però fermentare.
Correzione dell'eccesso di zucchero. - Nei paesi meridionali, in annate molto scarse di pioggia, la ricchezza zuccherina dei mosti arriva spesso a limiti così elevati, da rendere persino difficile la fermentazione per l'eccessiva concentrazione del mezzo. In tali casi si renderebbe utile una certa diluizione dei mosti. Sennonché la legge italiana non permette alcuna aggiunta di acqua né ai mosti né ai vini. Unico mezzo legale sarebbe quindi la mescolanza di questi mosti troppo ricchi di zucchero con altri meno zuccherini.
Correzione dell'eccesso di acidità. - E caso che si verifica di frequente nei paesi settentrionali, specialmente in annate poco felici, in cui alla vendemmia le uve (e quindi i mosti) risultano esageratamente acidi. È questo però un caso in cui, di solito, è preferibile attendere a fare, se necessario, tale correzione più tardi sui vini. Ciò perché normalmente nella trasformazione del mosto in vino, e anche nei primi mesi di vita di questo, si ha una sensibile diminuzione dell'acidità fissa, sì da venire a cessare, spesso, ogni bisogno di correzione.
Comunque, se si volesse diminuire l'eccesso d'acidità d'un mosto, la legge italiana consente l'uso di alcuni disacidificanti; e precisamente del carbonato di calcio, del carbonato di potassio, del tartrato neutro di potassio, in dosi variabili, da determinare preventivamente con qualche prova in piccolo (per lo più da grammi 1 a 3 per litro). L'aggiunta del disacidificante va commisurata alla quantità di acido tartarico totale contenuta nei mosti; di tutto questo acido tartarico non si dovrà eliminare che il 50, al massimo il 75%. Si voglia, per es., disacidificare un mosto che contenga 4 gr. di acido tartarico per litro: l'aggiunta di disacidificante verrà fatta in quantità tale da eliminare 2, in via eccezionale, 3 gr. di acido tartarico per litro.
Correzione del difetto di acidità. - Nei paesi meridionali, spesso i mosti risultano, oltreché troppo zuccherini, poveri di acidità. Il difetto d'acidita può nuocere, oltre che ai caratteri futuri del vino e alla sua conservabilità, anche alla stessa regolarità della fermentazione; perciò, in questo caso, è senza dubbio preferibile fare questa correzione sui mosti prima della fermentazione. La legge italiana consente per tale scopo l'uso di due acidi organici: l'acido tartarico e l'acido citrico, quest'ultimo però in dosi non superiori a 1 grammo per litro. Normalmente di acido tartarico s'aggiungono dosi non superiori a 2 grammi per litro. L'effetto di questi due acidi praticamente è pressoché eguale. Ogni aggiunta di acidi minerali (solforico, cloridrico) è invece severamente proibita dalla legge.
Al fine di aumentare lievemente l'acidità dei mosti, oltre che per un complesso d'altre ragioni, nei paesi meridionali è da tempo antichissimo in uso una pratica che va sotto il nome di "gessatura". Essa consiste nell'aggiungere del gesso (solfato di calcio) all'uva prima dell'inizio della fermentazione, in dosi varie da 1/2 kg. a 1 kg. e anche più, per quintale d'uva. Tale aggiunta porta a un certo aumento d'acidità, ponendosi in libertà dell'acido tartarico, secondo la seguente reazione:
Venendosi però in questo modo ad arricchire il vino in solfato potassico, la gessatura è soltanto tollerata dalle vigenti leggi italiane, ma i vini gessati contenenti più di un grammo per litro di solfati non possono essere venduti per consumo diretto (r. decr. legge 2 luglio 1936, n. 1640).
Svinatura. - Per svinatura s'intende la separazione della parte liquida della vendemmia da quella solida dopo una fermentazione parziale o totale. Spesso quindi si svina un mostovino, anziché un vino già asciutto cioè privo di zucchero. Le ragioni che possono consigliare di svinare prima che la fermentazione si sia completata sono diverse: per ottenere vini meno aspri, meno ricchi di corpo e di colore, più delicati e più pronti al consumo; per utilizzare più volte la tinaia e i recipienti di fermentazione, riducendo il tempo in cui essi vengono tenuti impegnati; per evitare i pericoli cui si va incontro lasciando il cappello delle vinacce a contatto dell'aria dopo che è finita la fermentazione tumultuosa, che protegge, con uno strato di anidride carbonica, il cappello stesso dall'acetificazione. In passato, invece, non solo si svinava spesso a fermentazione completa, ma si ritardava ancora la svinatura, facendo subire alle vinacce delle lunghe macerazioni, col risultato di avere vini molto duri, tannici, di lenta maturazione. Per determinare il momento della svinatura bisogna però regolarsi caso per caso, basandosi sulla quantità di sostanze passate dalla parte solida della vendemmia a quella liquida, tenendo presente che col tempo il vino s'impoverisce sempre di sostanze estrattive. Nella maggior parte dei casi, trattandosi di vini rossi, la svinatura avviene da 5 a 7 giorni dopo l'inizio della fermentazione tumultuosa. In generale la svinatura si fa a contatto dell'aria, facendo cadere il vino dal tino in un sottospina, dal quale poi, o a mano o per mezzo di pompe, viene mandato nelle botti. In questo modo il vino assorbe molto ossigeno, che ne affretta la maturazione, e, se ancora dolce, l'ulteriore fermentazione, sicché più presto esso diverrà asciutto e maturo. La svinatura all'aria giova anche per disperdere eventuali odori spiacevoli che si avvertono nei vini subito dopo la fermentazione (il più comune è quello di acido solfidrico).
Sarà però opportuno svinare fuori del contatto dell'aria quando si abbiano vini deboli, provenienti da uve malate, o vini dolci, che si vogliono conservare tali. Bisogna allora ricorrere all'uso di pompe, o fare la svinatura per dislivello mediante sifoni.
Le pompe che si usano per la svinatura (e per i successivi movimenti del vino in cantina) possono essere di varî tipi: ma le più comuni sono quelle aspiranti prementi. Se ne hanno varî tipi: a stantuffo (che a loro volta si dividono in pompe a stantuffo verticale e pompe a stantuffo orizzontale), rotative e oscillanti. Sono preferibili quelle che sbattono poco il vino. Molta cura richiedono anche i tubi di gomma, che servono all'aspirazione e al trasporto del vino. I tubi nuovi, prima dell'uso, debbono essere ben lavati con una soluzione di soda (carbonato di sodio) in acqua bollente, poi con acqua tiepida e fredda. Nelle grandi cantine, per ridurre le forti spese inerenti al rapido logorio dei tubi di gomma, si preferiscono le tubature fisse di rame, da collegarsi solo per brevi tratti con tubi di gomma. Prima dell'uso, è consigliabile far passare in detti tubi una corrente d'acqua, per asportare i sali solubili di rame, che si formano sempre nel loro interno.
Torchiatura. - È l'operazione destinata a esaurire le vinacce dal mosto, o mostovino, o vino che contengono. Il primo caso si verifica quando si faccia la fermentazione "in bianco", cioè senza vinacce. È però assai più frequente che si debbano torchiare le vinacce dopo la fermentazione, cioè dopo la svinatura. La torchiatura è operazione antichissima, come testimoniano infiniti documenti, alcuni dei quali risalgono ad alcune migliaia d'anni a. C. (es., quelli egiziani). Anche in questo campo i progressi più notevoli non si realizzarono però che dalla fine del secolo XIX, col perfezionarsi della meccanica enologica.
I torchi usati in enologia sono di tipi svariati: a leva, a vite, idraulici. Oltre ai torchi a lavoro intermittente, si possono usare anche i torchi continui.
Lasciando da parte i torchi a leva, ormai pressoché del tutto abbandonati, la scelta deve oggi cadere fra quelli a vite e quelli idraulici. Dei primi ci sono modelli convenienti anche per modeste lavorazioni, mentre i secondi sono esclusivamente adatti a grandi stabilimenti. Essi possono esaurire le vinacce assai più energicamente di quelli a vite. Per lo più però conviene (in cantine di qualche importanza) avere gli uni e gli altri: con quelli a vite si fa la prima e seconda torchiatura, con i secondi l'ultima, dopo aver disfatto e ricomposto il pane delle vinacce. Importa procedere alla torchiatura di queste, al più presto, prima che possano subire alterazioni. È perciò utile che la capacità dei torchi sia commisurata a quella dei tini (le vinacce di 100 q. d' uva nella gabbia d'un torchio occupano un volume di 26 hl.; però in un tino da 100 hl. per lo più non si pongono che 90 ql. d'uva, le cui vinacce occuperanno un volume di circa hl. 24). Quanto alle proporzioni dei prodotti della torchiatura, si può ritenere che complessivamente da 100 q. d'uva si possano ricavare da 10 a 15 hl. di vino torchiato (dalla 1ª torchiatura se ne ottengono 8-10 hl.; 2 a 3 dalla seconda; da 50 litri a 125 dalla terza). Il peso della vinaccia torchiata è circa il 12% di quello dell'uva primitiva. Il vino ottenuto dalla prima torchiatura è molto simile al vino fiore, ma un po' più ricco di tannino, di acidità e di colore; invece quelli di seconda e terza torchiatura sono di sapore assai meno buono, e più difficili da illimpidirsi, ed è perciò sempre bene tenerli separati dal vino fiore.
Utilizzazione delle vinacce. - Vinelli e secondi vini. - In mancanza di torchi, le vinacce possono essere utilizzate per farne vinelli e secondi vini.
I vinelli s'ottengono esaurendo con semplice acqua le vinacce, torchiate o non torchiate. Il metodo più semplice e diffuso di preparazione dei vinelli è quello cosiddetto per "macerazione", aggiungendo cioè una certa quantità d'acqua alle vinacce e lasciandovela per circa una settimana. Vinelli migliori si ottengono ricorrendo allo "spostamento": sia facendo cadere l'acqua dall'alto, sia facendola entrare dal basso. Sono buoni metodi, ma che richiedono varie precauzioni, non sempre facili a ottenere in piccole cantine. Volendo far cadere l'acqua dall'alto, sono molto comodi degli autoversatori che, a intervalli costanti di tempo, versano sulle vinacce contenute in un tino la quantità voluta di acqua. Volendo far entrare l'acqua dal basso il sistema migliore è quello cosiddetto per spostamento metodico, collegando un certo numerci (4-6) di tini (o di vasche) mediante tubi e ponendo in ciascuno la vinaccia ben compressa fra due diaframmi. L'acqua entra nel primo tino dal basso, ne esce dall'alto per passare nella parte inferiore del secondo tino, e così di seguito. Dall'alto dell'ultimo tino dopo un po' uscirà il vinello. Con questi sistemi occorre sempre regolare molto esattamente la velocità di circolazione dell'acqua. L'attuale legislazione italiana (r. decreto legge 2 settembre 1932, n. 1125) non permette il commercio dei vinelli per l'uso diretto come bevanda. Essi quindi, come tali, possono essere preparati esclusivamente per uso familiare. Industrialmente, invece, possono prepararsi solo se sono destinati alla distillazione o alla fabbricazione dell'aceto.
I secondi vini sono invece preparati con l'aggiunta alle vinacce, per lo più non torchiate, di acqua, zucchero e spesso anche acidi. Per ogni grado di alcool che si vuole ottenere, occorreranno circa 16 kg. di zucchero per ettolitro d'acqua. Anche la preparazione dei secondi vini per esser messi in commercio è però assolutamente proibita dalla legge italiana. Essi quindi potranno essere prodotti esclusivamente per uso della famiglia del produttore.
Le vinacce possono avere ancora altre utilizzazioni. Oltre alla distillazione ed estrazione del cremore, che dànno luogo a una vera industria (v. distillazione: La distillazione in enologia, XIII, p. 39 e segg.), le vinacce possono servire di alimentazione per il bestiame (un quintale di vinacce equivale a circa mezzo quintale di buon fieno). Possono infine servire da concime, avendo un valore fertilizzante non inferiore a quello del letame di stalla. Affinché però il loro effetto concimante sia meno lento, è bene neutralizzarne l'acidità con della calce; meglio facendone delle specie di terricciati con materie calcari. I vinaccioli poi dovrebbero essere separati con appositi vagli (spartisemi) e destinati agli stabilimenti che li utilizzano per l'estrazione dell'olio.
Cure ai vini giovani. - Possono darsi due casi: che il vino dalla tinaia entri in cantina già completamente fermentato, cioè asciutto; o invece vi arrivi ancora più o meno dolce. Quest'ultimo è anzi il caso più frequente. Siccome in generale si vuole che il vino prima d'essere messo in commercio diventi asciutto, in cantina d'elaborazione esso dovrà riprendere la fermentazione e completarla. In questo caso, eseguita la svinatura a contatto dell'aria, il vino si porrà in botti non solforate, evitando di riempirle completamente; ciò perché con la fermentazione esso potrebbe traboccare. D'altra parte, l'anidride carbonica, che si svolge con la fermentazione, protegge il vino da qualsiasi malanno. Bisogna però favorire questa fermentazione, in modo che essa si compia abbastanza sollecitamente prima del sopraggiungere dei freddi invernali. Perciò bisogna cercare di avere in cantina una temperatura sufficiente: possibilmente non inferiore ai 15°, tenendo ben chiuse le finestre di notte, aprendole nelle ore più calde del giorno, e, occorrendo, riscaldando il locale. Si può anche aiutarla con l'aggiunta nelle botti d'un po' di mosto in piena fermentazione, o anche d'una parte di vino torchiato, che è più ricco di fermenti del vino fiore. È utile servirsi di tappi di fermentazione o tappi idraulici, che possono anche essere costruiti dallo stesso cantiniere. Finita la fermentazione (e l'assaggio del vino potrà accertarlo), è bene raffreddare la cantina: ciò che si otterrà facilmente aprendo le finestre durante la notte e le ore più fredde del giorno. Non ci si deve preoccupare se in questo modo il vino s'intorbida, ché invece questo intorbidamento, anziché nuocere al vino, ne favorisce la stabilizzazione e la maturazione, in quanto che il freddo fa avvenire più rapidamente quelle precipitazioni che altrimenti non si manifesterebbero che con grande lentezza, o che intorbiderebbero il vino (tenuto al riparo dal freddo) quando esso dovesse essere trasportato in viaggio durante la stagione invernale.
Colmature. - Il raffreddamento della cantina, e per conseguenza del vino, ha però fra gli altri effetti quello di far diminuire il volume del vino stesso. E siccome s'aggiunge l'evaporazione di una parte del vino attraverso le doghe delle botti, queste vengono a scolmarsi. Lo spazio lasciato libero dal vino viene tosto occupato dall'aria, che penetra attraverso il cocchiume e i pori del legno, perciò il vino viene a presentare una superficie libera esposta all'aria. Di qui varî pericoli per la buona conservazione del vino. Infatti alcune delle malattie più comuni del vino - e specialmente la fioretta, lo spunto e l'acescenza - sono dovute a microorganismi aerobî, che per svilupparsi hanno bisogno dell'aria libera. Bisogna quindi evitare che le botti restino sceme. Ciò s'ottiene eseguendo regolarmente e periodicamente le colmature: operazioni semplicissime, ma che a torto vengono spesso trascurate. E inutile descrivere nei particolari le colmature; qui basti ricordare l'opportunità di farle assiduamente (in generale una volta alla settimana). Importa pure pensare per tempo al vino necessario alle colmature. Se si tratta di vini comuni basta un vino sano, senza odori e sapori speciali. Ma se si tratta di vini fini o di lusso, bisogna usare vino identico, e perciò è necessario mettere da parte fin da principio la quantità di vino necessario a questo scopo. Per calcolare questa quantità, bisognerebbe conoscere a quanto ammonta il calo del vino in un determinato periodo di tempo. Ora questo calo varia a seconda di molte circostanze: è massimo nelle botti di piccola capacità, con doghe sottili, nei vini giovani, in cantine calde e asciutte; è minore in botti grandi, con doghe spesse e verniciate, in cantine sotterranee, con vini vecchi; minimo poi in recipienti di muratura ben chiusi. Per le botti di legno si può ritenere che questo calo nel primo anno va dall'8 al 3%; per quelle di muratura è in generale inferiore all'i %.
Colmature senza vino. - Von volendo usare vino differente, e mancando di vino eguale, si può coprire la superficie libera del vino con un poco d'olio d'oliva finissimo o meglio anche d'olio di paraffina, o d'alcool etilico puro o sostituire all'aria nelle botti sceme un altro gas, anidride carbonica o anidride solforosa. La prima però, per riuscire efficace, dev'essere applicata in modo che essa entri nella botte prima che v'entri l'aria, ciò che richiede appositi apparecchi, non alla portata di tutti. La seconda si può invece usare utilmente anche dopo che la botte è scema, ma non è consigliabile che per conservare residui fecciosi, o anche per le botti che si tengono alla mano per trarne il vino necessario alle colmature.
I travasi. - Allorché il vino giovane ha finito di fermentare e viene lasciato in riposo, esso comincia con lo spogliarsi di una quantità di sostanze sospese, che ne velano la limpidezza. Si depositano così sul fondo delle botti dapprima i frammenti di bucce, le sostanze che costituivano in parte la polpa dell'acino e (sopra tutto col raffreddarsi della cantina) il cremore e parte delle sostanze coloranti e tanniche. Si depositano anche i fermenti alcoolici, ormai inattivi, e con essi anche numerosi altri microorganismi, pressoché tutti patogeni per il vino. L'insieme di queste sostanze costituisce le fecce. Ora, lasciando a lungo il vino su questo deposito, si va incontro a inconvenienti gravi; nella migliore delle ipotesi, esso prende un disgustoso odore e sapore di feccia, dovuto a una decomposizione dei fermenti. Ma soprattutto al sopraggiungere della primavera, con il riscaldarsi dell'aria della cantina, i microorganismi patogeni, che durante l'inverno sono rimasti inerti, incominciano a ridestarsi, invadendo la massa del vino, intorbidandolo e dando luogo a vere e proprie malattie. Di qui la necessità di separare il vino limpido dalle ifcce, mediante i travasi.
Numero ed epoca dei travasi. - Generalmente, un primo travaso si fa verso la fine di dicembre, o ai primi di gennaio, allorché il vino ha depositato tutte le sostanze sospese e buona parte del cremore. Un secondo si fa verso la fine di marzo o principio d'aprile, prima che la temperatura della cantina s'innalzi. Un terzo si fa in luglio prima che sopraggiungano i più forti calori dell'agosto. Se poi il vino dovrà essere invecchiato, un ultimo travaso si fa poco prima della vendemmia per passare il vino in cantina d'invecchiamento. Negli anni successivi basteranno due travasi all'anno: uno in primavera e uno in principio d'autunno. Quando si fa la svinatura ritardata e quindi si svina un liquido ormai freddo e quasi limpido, potrà anche essere omesso il travaso di dicembre. Ma quello che non si deve mai trascurare è il travaso primaverile, perché è in quell'epoca che sono più gravi i pericoli del contatto del vino con le fecce.
Modi di eseguire i travasi. - I travasi possono essere eseguiti a contatto dell'aria o fuori del contatto dell'aria. Come norma generale, è bene travasare a contatto dell'aria: i vini giovani, robusti, piuttosto ruvidi e grossolani: i vini che abbiano odori spiacevoli (d'anidride solforosa, di acido solfidrico, ecc.); i vini che siano ancora più o meno dolci, e che si desideri diventino asciutti; in genere i vini sani (però anche quelli che siano affetti dalla malattia del "filante"). Si travaseranno invece fuori del contatto dell'aria: i vini deboli, poco sani o provenienti da uve guaste; i vini vecchi, o comunque aventi profumi o aromi pregiati: i vini frizzanti, cioè ricchi di anidride carbonica, e che si desideri conservino questo carattere; i vini dolci, che si vuole rimangano tali. Per travasare a contatto dell'aria o fuori del contatto dell'aria si seguiranno press'a poco le stesse norme già ricordate per la svinatura. È bene tener presente che, facendo i travasi a contatto dell'aria, sono da preferire giornate serene, fredde, e da evitare le giornate caldo-umide, sciroccali. Ciò per diminuire la dispersione dei prodotti volatili e dei gas disciolti nei vini.
Utilizzazione delle fecce. - Tolto dalla botte tutto il vino limpido, rimane ancora in fondo del vino feccioso che può essere utilizzato variamente. I metodi più comunemente usati sono quelli della decantazione e della torchiatura. Col primo, si mettono i depositi fecciosi in un piccolo fusto, solforandoli energicamente, e lasciandoli in riposo. Si può così dopo qualche tempo separare il vino dalle fecce, estraendo il primo o con un sifone, o per mezzo di spine disposte a varie altezze. Meglio però è sottoporre i depositi a torchiatura. Il vino ricavato dalle fecce non dovrà essere mescolato al vino fiore, ma si dovrà conservarlo a parte. Esso stenta assai a illimpidirsi, ed è bene tenerlo in botti solforate. Le fecce esaurite, più o meno asciutte, dovranno essere fatte disseccare, cercando d'evitare che ammuffiscano. Esse possono essere destinate all'industria dell'estrazione del cremore. Le fecce secche rappresentano dall'i al 2% del vino da cui furono ricavate. Con le fecce poi si possono anche eseguire delle rifermentazioni, in mancanza di vinacce.
Correzioni dei vini. - Non sempre i vini, una volta confezionati, presentano caratteri organolettici e composizione chimica quali possono essere richiesti o desiderati dal consumatore. Di qui l'opportunità di apportare loro, nell'ambito delle disposizioni vigenti di legge, delle appropriate correzioni, destinate soprattutto a rimediare a talune deficienze o a qualche esuberanza della loro composizione. Le più importanti sono:
Correzioni dell'alcool. - Più di frequente è necessario provvedere all'aumento della gradazione. Essa si può ottenere mediante il taglio con vini più alcoolici o mediante la concentrazione del vino col freddo (analogamente a ciò che si fa anche per i mosti) o con l'aggiunta diretta di alcool etilico. Questa pratica si dice alcolizzazione. La legislazione italiana però non la permette che per vini speciali (di lusso), indicati dalla legge stessa, e per i vini da pasto destinati all'esportazione in misura non superiore al 3% d'alcool; non per i vini da pasto destinati al consumo interno.
La legge prescrive l'uso di alcool etilico rettificato e puro, ottenuto dalla distillazione del vino o delle vinacce; l'alcool ottenuto da materie zuccherine o amidacee è riserbato a usi industriali. È opportuno preferire alcool di alta gradazione. Comunque, bisognerà sempre tener conto di questa nel calcolo della quantità di alcool da aggiungere per ottenere un dato aumento nel titolo del vino. Vale all'uopo la seguente formula:
La diminuzione del titolo alcoolico invece non può, a termine di legge, effettuarsi che mediante il taglio con vini meno alcoolici, non essendo assolutamente permessa né l'aggiunta di acqua, né quella di vinelli.
Correzioni dell'acidità. - Può essere volta ad aumentare o a diminuire questo componente dei vini. L'aumento, che è opportuno specialmente per dare maggiore freschezza di sapore, vivacità di colore, serbevolezza ai vini, si può fare ricorrendo o a vini più acidi, o all'aggiunta di acido tartarico e acido citrico, quest'ultimo in dosi non superiori a 100 grammi per hl. È pressoché indifferente ricorrere all'uno o all'altro di essi; si deve però tener presente che l'acido citrico non è tollerato in alcuni stati. Normalmente l'acido tartarico si usa in dosi variabili da 100 a 150 grammi per hl. Severamente proibiti sono tutti gli acidi minerali, specialmente l'acido solforico. La diminuzione dell'eccesso di acidità, opportuna per togliere l'eccessiva asprezza del sapore in certi vini settentrionali o di mezza montagna, può riuscire bene quando si tratti però di diminuire l'acidità fissa, non quella volatile (dovuta specialmente all'acido acetico). Essa può effettuarsi ricorrendo a quegli stessi disacidificanti già indicati per i mosti: carbonato di calcio, carbonato di potassio, tartrato neutro di potassio. Sono tutti permessi dalla legge, quando siano chimicamente puri. Non è possibile determinare a priori quale sarà la dose da usare di ciascuno di questi sali per un determinato vino. Il meglio si è di procedere per tentativi, facendo prima qualche prova in piccolo, con dosi crescenti di detti sali: (per esempio, grammi 0,5-1-1,5 di carbonato di calcio; grammi1-1,5-2 di carbonato di potassio; grammi 1,5-2-2,5 di tartrato neutro di potassio per litro). Come nel caso dei mosti è necessario anche qui, conoscere la quantità totale di acido tartarico che il vino da disacidificare contiene. La disacidificazione dovrà però venir limitata al massimo ai due terzi dell'acido tartarico che è contenuto nel vino.
Correzioni del tannino, dell'estratto, dello zucchero. - Sono casi che si presentano meno di frequente. Volendo diminuire l'eccesso di tannino, che rende un vino troppo ruvido e grossolano, si può ricotrere a ripetute ed energiche chiarificazioni con chiarificanti animali (per es., sangue, osteocolla, ecc.). Volendo aumentare la tannicità d'un vino, si può utilmente ricorrere all'aggiunta di tannino del commercio, preferendo quello all'alcool a quello all'etere. Le dosi si determineranno con prove in piccolo. Volendo aumentare l'estratto di un vino per dargli più corpo, non c'è che ricorrere al taglio con vini più robusti, non permettendo la legge certe aggiunte che talora qua e là si usano (di sale da cucina, di glicerina, ecc.). O infine, volendo anche dare un po' di amabilità al vino, si potrà ricorrere a un po' di mosto concentrato o di filtrato dolce.
Correzione del colore. - Può interessare tanto i vini rossi quanto i vini bianchi, e può essere in aumento o in diminuzione. Il caso più importante è di dover aumentare il colore d'un vino rosso il che spesso può far meglio apprezzare dal commercio certi vini da pasto di poco valore. Diverse potrebbero essere le sostanze coloranti adatte a ottenere tale aumento: alcune di esse sono d'origine vegetale (sambuco, mirtillo), altre d'origine minerale (colori derivanti dal catrame), altre d'origine animale (rosso di cocciniglia). Ma per la correzione dei vini sono tutte proibite dalla legge italiana non permettendo questa. che l'aggiunta della sostanza colorante derivata dall'uva stessa: cioè l'enocianina. Questa si trova in commercio, come prodotto di speciali industrie, che la ricavano o dalla distillazione del vino, o dall'esaurimento delle vinacce. S'aggiunge in dosi varie a seconda dell'effetto che si vuole ottenere: per lo più però non mai meno di 1 litro per hl. Oppure si può ricorrere all'aggiunta di moderate quantità di mosti concentrati, i quali oltre al colore, portano nel vino dello zucchero.
La diminuzione del colore dei vini interessa in generale più i vini bianchi che i rossi, essendo per quelli spesso un difetto il colore dorato troppo carico. Per effettuare tale correzione, il meglio è ricorrere all'uso di carboni decoloranti. Oggi ve ne sono di molto energici, preparati apposta per usi enologici. In generale però essi assorbono anche odori e sapori: bisogna quindi usarli nella dose minima necessaria (fare prove in piccolo con 1-2-3 grammi per litro). Anche alcuni chiarificanti animali (sangue, latte) usati in forti dosi hanno leggiera azione decolorante.
Rifermentazioni. - Consiste in una nuova fermentazione che si provoca in un vino, in un momento qualsiasi della sua vita, anche dopo un anno e più dalla prima. Gli scopi di essa sono diversi: per migliorare vini deboli e di pochi pregi intrinseci; per ringiovanire vini comuni, infiacchiti dall'azione del tempo; per risanare vini malati, o comunque difettosi. Può effettuarsi in modi svariati: mediante vinacce fresche, mediante fecce o fermenti selezionati. Indubbiamente il primo sistema è il migliore e quello che può dare risultati più notevoli, tanto più quando si usino vinacce provenienti da uve aventi speciali meriti. Ma, naturalmente, non si può fare che in epoca non molto lontana dalla vendemmia.
Governo del vino. - È una particolare rifermentazione che si ottiene con il sussidio di una piccola quantità di uve leggermente appassite. È pratica antica e tradizionale dell'enologia toscana, e contribuisce a dare talune caratteristiche a quegli eccellenti vini da pasto; s'è però diffusa in questi ultimi decennî anche in ultre regioni.
ln Toscana s'attua in questo modo: alla vendemmia si scelgono le uve migliori del vitigno (gli scelti), dando la preferenza a certe varietà (Colorino, Sangiovese, ecc.), e si portano alla fattoria, dove si conservano in locali aerati per lo più sottotetto (o su stuoie, o appese a gancetti di fil di ferro, facendone delle specie di catene o festoni). Verso la metà di novembre si procede alla sgranellatura e pigiatura di dette uve, e il mosto con le relative bucce viene aggiunto (in proporzioni varie, ma in media del 5%) nelle botti contenenti il vino nuovo, che vengono all'uopo prima scolmate. Mantenendo la temperatura delle cantine abbastanza tiepida (verso i 15°), s'origina una nuova fermentazione, che arricchisce, fra l'altro, il vino di anidride carbonica, la quale, disciogliendosi nel vino, lo rende frizzantino.
La pratica del governo è stata molto discussa, e i pareri dei tecnici su di essa sono divisi. Ben vagliate le ragioni pro e contro il governo, si può affermare che, quando essa si pratichi razionalmente e senza cadere in esagerazioni, può dimostrare vantaggi sicuri, specialmente per i vini da pasto meno robusti, meno sapidi, meno vivaci, destinati a essere consumati nel primo anno.
Carbonicazione del vino. - Gli effetti della anidride carbonica sul vino sono varî, e in generale benefici; i vini ricchi di questo gas hanno un sapore più vivo, più fresco; spesso hanno il carattere detto "frizzante", il colore appare più vivace, la limpidezza sembra anche più perfetta; la conservabilità è pure migliore; infine anche dal punto di vista dell'igiene del consumatore in generale questi vini sono ritenuti più digeribili. Questo spiega la diffusione di talune pratiche, che mirano appunto ad arricchire il vino di anidride carbonica: quali la rifermentazione e il governo. Non potendo però servirsi di esse, si può ricorrere alla carbonicazione. Essa consiste nel disciogliere in un vino quantità più o meno notevoli di anidride carbonica, prendendola dalle bombole del commercio, nelle quali essa si trova allo stato liquido.
Per procedere a tale dissoluzione, occorrono appositi dispositivi. Si possono distinguere in due gruppi: quelli che permettono di far la carbonicazione ai vini contenuti nei soliti fusti di legno da cantina o da viaggio; e quelli che invece saturano il vino entro recipienti appositi, di notevole resistenza. I primi, indicati per le piccole cantine e per i casi in cui ci si accontenta d'una debole carbonicazione, sono le cosiddette fruste carbonicatrici. Dato che però nei fusti usuali non è possibile spingere la pressione senza il pericolo di rotture, così l'effetto che s'ottiene è piuttosto modesto. Assai più notevole è quello che si può raggiungere con gli apparecchi del 2° tipo, i quali sono per lo più costituiti da colonne cilindriche di rame stagnato, nelle quali scende dall'alto il vino da carbonicare, che incontra l'anidride carbonica sotto una pressione di 2-3 o più atmosfere, che lo satura. La carbonicazione riesce tanto meglio quanto più freddo è il vino; quindi è bene o farla durante la stagione invernale, o in locali molto freschi, o su vini refrigerati.
Chiarificazione. - È uno dei mezzi più efficaci e più usati per correggere la deficiente limpidezza d'un vino, e consiste nell'aggiungere al vino stesso determinate sostanze, le quali in un primo tempo intorbidano fortemente la massa; in seguito però, depositandosi, trascinano sul fondo del recipiente le particelle sospese, lasciando il vino perfettamente limpido. La maggior parte dei chiarificanti usati in enologia sono di origine animale, e più precisamente sono costituiti da sostanze proteiche (colloidi idrofili); pochi sono d'origine minerale (prevalentemente silicati alcalino-terrosi).
Chiarificanti animali. - Come s'è detto, sono rappresentati da sostanze proteiche (albumine, gelatine, caseina). Ora, per ogni proteina esiste un dato valore dell'energia acida (pH), al quale la ionizzazione del colloide è minima ed è massima la capacità di coagulare. Questo valore dell'energia acida, al quale si ha l'ottimo di coagulazione, si dice punto isoelettrico. Così, per es., per la caseina il punto isoelettrico è pH = 4,7; cioè, portata a questo punto, essa coagula; le sue micelle disperse si riuniscono fra loro, e scendono, trascinando seco le torbidezze sospese nel vino. Nelle albumine lo stato di dispersione è tale che neanche portate al loro punto isoelettrico, precipitano; però presentano allora la massima sensibilità rispetto alle azioni coagulanti.
La coagulazione (o flocculazione) dei colloidi può avvenire per diverse cause. Il vino non contiene elettroliti capaci di flocculare i colloidi, ma contiene una sostanza che, pur essendo essa stessa un colloide, può far flocculare le albumine ed è il tannino. Perciò, dovendo fare la chiarificazione d'un vino con un chiarificante animale, bisogna preoccuparsi del suo contenuto in tannino, e, se questo è scarso, bisogna aggiungervene.
Alcuni chiarificanti possono anche esercitare sul vino qualche altra azione, attenuandone talora il colore e l'odore. Di ciò bisogna tener conto nella scelta di questo o quel chiarificante. Ne ricordiamo i principali:
a) Albume d'uovo. - Nella chiara d'uovo è contenuta in abbondanza dell'albumina (circa 5 grammi per chiara), la quale, introdotta nel vino, si combina con il tannino e con gli altri acidi del vino stesso, e si coagula depositandosi sul fondo, e trascinando con sé le sostanze sospese. È un ottimo chiarificante, ma costoso (occorrendo da 1 a 3 chiare d'uovo per ettolitro). La chiarificazione avviene entro 10-15 giorni. Una volta che il vino è diventato limpido, si procederà a un travaso, fatto con molta prudenza per non sollevare le fecce.
b) Sangue. - Anche il sangue degli animali contiene dell'albumina (dal 5,5 all'8,5%), che ha un'azione chiarificante. Occorre usare sangue freschissimo, di bovini sani. Esso è un chiarificante energico, ma adatto per vini robusti, perché se usato per vini fini, specialmente se vecchi, profumati, potrebbe indebolirne il profumo e infiacchirli alquanto. Se ne usa da 50 a 100 cmc. per ettolitro per vini di facile chiarificazione; dosi più elevate (anche 3-4 volte maggiori) per vini densi, sciropposi.
c) Latte. - Anche il latte ha un'azione chiarificante per la caseina che contiene (circa 33 gr. per litro), ma anch'esso toglie un po' di profumo e di colore, specialmente se usato intero o in forti dosi. Meglio è usare la caseina pura, che è il principio attivo (da 30 a 50 gr. per hl. di vino rosso, e da 10 a 15 gr. per hl. di vino bianco).
d) Gelatine. - Fra i chiarificanti più usati sono da ricordare le gelatine o colle, d'ossa e di pesce. Le più comuni sono quelle d'ossa, e se ne trovano in commercio tipi svariati. Sono molto indicate per la chiarificazione dei vini da pasto bianchi e rossi, anche fini (specialmente le grenetine marca oro). Se ne usano da 8 a 12 grammi per ettolitro, sciogliendole in poca acqua calda, poi diluendole in qualche litro di vino, infine versando il tutto nella botte e agitando a lungo. È da ricordare che quando si chiarificano vini bianchi poco o niente tannici (come sono in generale quelli fermentati senza vinacce), è necessario aggiungere al vino, un giorno prima della gelatina, un po' di tannino. La dose di questo è bene sia eguale a quella della gelatina (quindi da 8 a 12 grammi per ettolitro).
Chiarificanti minerali. - I più comuni sono costituiti o da caolino o da terre argillose speciali, di grande purezza. La migliore di esse è la cosiddetta terra di Spagna o terra di Lebrija. Essa è costituita per la maggior parte da silicati, però contiene anche circa il 10% di carbonati. Perciò è sempre necessario lavarla bene. È un chiarificante energico e di rapido effetto. Se ne usano da 100 grammi per ettolitro, per i vini normali, fino a 200 e 300 per quelli più densi e di più difficile chiarificazione. (V. anche filtrazione, XV, p. 382).
Taglio. - Con questa espressione (formata ad imitazione del termine francese coupage) s'intende in enol0gia la mescolanza di due o più vini in proporzioni determinate. Essa ha lo scopo di ottenere una massa di vino migliore, più corrispondente ai gusti e alle esigenze dei consumatori.
La manualità di tale pratica non è difficile, bastando disporre d'uno o di più grandi recipienti, in cui versare, nelle proporzioni determinate, i singoli vini, cercando poi di bene uniformare il miscuglio, mediante un prolungato rimontaggio fatto con la pompa. Più difficile è stabilire quali vini mescolare, e in quali rapporti, per un determinato tipo di vino. Solo una sicura esperienza, una larga conoscenza dei vini che possono trovarsi nelle varie zone di produzione, e una notevole abilità degustatoria, possono far superare queste difficoltà.
Per la determinazione delle proporzioni da adottare per il miscuglia si possono seguire due vie: quella cosiddetta per tentativi e quella del calcolo aritmetico. La prima consiste nel preparare, con cilindri graduati di vetro, diversi tipi di miscugli in proporzioni differenti, lasciandoli poi in riposo alcuni giorni. Dopo di che si degustano i varî campioni così preparati e si sceglie il meglio riuscito. L'altro metodo consiste nel ricorrere alle cosiddette regole di miscuglio per determinare le proporzioni in cui debbono entrare i varî ingredienti. In questo caso però bisogna limitarsi a tener conto di uno, o al più di due, componenti dei vini: es., alcool, o acidità, o estratto. Molto comodo è seguire, per tali calcoli, il cosiddetto metodo della croce.
Esempî. -1. Si abbiano due vini, l'uno di 9° e l'altro di 13° di alcool, e si voglia ottenere un taglio di 10°. Il calcolo si stabilisce come segue:
vale a dire che del vino a 13° occorrerà una parte, e di quello a 9° ne occorreranno 3 parti.
2. Si abbiano 3 vini, l'uno di 9°, l'altro di 10°, l'altro di 13°, e si voglia ottenere un taglio di 11°. I due vini a gradazioni inferiori al taglio entreranno successivamente in combinazione col 3°, come segue:
cioè, del vino a 9° occorreranno 2 parti; di quello a 10° pure 2 parti, di quello a 13° invece 3 parti.
È però da avvertire che con le sole regole di miscuglio non si potrà sperare di risolvere completamente il problema, che di solito non consiste solo nel preparare un vino avente una determinata ricchezza alcoolica o acidimetrica, bensì anche tutti i caratteri organolettici desiderati.
Invecchiamento. - L'invecchiamento naturale del vino è dovuto prevalentemente a processi d'ossidazione e di eterificazione. Perché essi avvengano (come fu già chiaramente dimostrato dal Pasteur) è necessario che il vino sia posto in recipienti porosi (per lo più in piccole botti di legno non verniciate), sì da sentire l'azione dell'aria. Naturalmente però in questi processi ha massima importanza il fattore tempo; e la durata dell'invecchiamento varierà sia con la porosità dei recipienti, sia con le condizioni ambientali e la natura del vino da invecchiare. Comunque, normalmente occorrono da uno a tre, e anche a cinque anni di permanenza del vino in appositi locali (cantine d'invecchiamento). È facile comprendere quale aggravio economico ciò rappresenti per l'industria enologica. Di qui l'idea, già molto antica, di affrettare l'invecchiamento naturale con speciali artifici. Alcuni di essi erano già noti e usati dai Greci e dai Romani (es., il soleggiamento). Nell'applicazione di detti artifici consiste appunto il cosiddetto "invecchiamento artificiale" del vino. Sostanzialmente, si tratta di sfruttare alcuni mezzi fisici e chimici, che entrano in giuoco nell'invecchiamento naturale, si da intensificarne l'effetto, riducendo il fattore tempo. I principali di questi agenti sono: il caldo, il freddo, le radiazioni solari, l'ossigeno, l'ozono e l'elettricità. La difficoltà d'applicazione sta nel proporzionare, caso per caso, la causa all'effetto che si vuol conseguire, tenendo presente che, come si diceva, quest'ultima varia con il variare della natura del vino (composizione chimica, caratteri organolettici). I risultati non sempre favorevoli, e quindi i giudizî contradditorî che si sono manifestati su questo problema, dipendono in gran parte dal non aver sempre saputo, o potuto, tener conto di questa necessità. E uvvio che solo una perfetta conoscenza dei propri vini, e degli effetti dei singoli agenti sopraricordati, potrà permettere di risolvere perfettamente il problema.
Ci limiteremo qui a pochi cenni sui più importanti dei suddetti mezzi.
Riscaldamento. - In generale si constata che a una temperatura piuttosto elevata il vino, posto a contatto dell'aria, invecchia più rapidamente perché i processi d'ossidazione vengono intensificati. Un tentativo di applicazione del riscaldamento in questo senso era già stato fatto da A. de Vergnette-Lamotte sin dal 1850. Entrata più tardi nella tecnica enologica la pastorizzazione dei vini, s'è potuto constatare come anch'essa possa servire ad affrettare l'invecchiamento, qualora il vino venga fatto uscire dagli enotermi ancora caldo (a una temperatura di 60-65°), e venga posto in una botte di legno, nella quale, raffreddandosi lentamente, assorbirà molta aria. Si tratta però d'un mezzo energico e pericoloso per i vini di composizione ordinaria, i quali facilmente possono diventare decrepiti, o addirittura alterarsi.
Soleggiamento. - In gran parte gli effetti cui abbiamo accennato a proposito del riscaldamento, s'ottengono con l'esposizione del vino al sole entro recipienti di vetro trasparenti e non chiusi. S'aggiunge così, all'azione del calore, quella della luce, che già il Pasteur aveva ben messo in evidenza. Un tentativo di perfezionamento di questo mezzo venne ideato da V. Sebastian, ricorrendo a speciali bottiglie di vetro bianco, larghe e schiacciate, di 4 litri l'una, con un collo leggermente ripiegato in alto, sì da poter far passare un tubo capillare attraverso il tappo senza che il vino ne fuoriesca. Esperienze ripetute anche in Italia hanno confermato la possibilità d'un'utilizzazione di questo mezzo, sempre quando si tratti di vini sani, robusti, e quando si sorvegli con molta cura l'andamento del processo.
Refrigerazione. - L'azione d'un forte raffreddamento sul vino è complessa e molto evidente, soprattutto quando il vino venga posto in recipienti porosi, perché a bassa temperatura assorbe quantità elevate di aria. A temperature di alcuni gradi sotto zero (da −20 a −50 a seconda della gradazione alcoolica, e quindi del punto di congelazione), il vino va soggetto ad abbondanti precipitazíoni di sostanze acide, coloranti, ecc., spogliandosi così di alcuni di quei componenti, che spesso dànno luogo a intorbidamenti. In altre parole, la refrigerazione del vino è un mezzo potente di stabilizzazione di esso; cio che altrimenti non s'otterrebbe che attraverso un periodo di tempo più o meno lungo. Essa può ottenersi artificialmente o con appositi impianti frigoriferi o utilizzando il freddo naturale, e perciò è ottima pratica quella di raffreddare le cantine durante l'estate, specialmente quelle che contengono vini giovani.
Ossigenazione. - L'aria, che s'è visto avere tanta importanza nei processi d'invecchiamento, agisce per l'ossigeno che contiene. Di qui l'idea di affrettare il suddetto invecchiamento ricorrendo addirittura a ossigeno puro. I primi tentativi del genere furono fatti in Italia da A. Fonseca nel 1887, con risultati varî a seconda della natura dei vini. È logico che, appunto per la sua energica azione, l'ossigeno debba essere impiegato con molta prudenza.
Ozonizzazione. - Poiché l'ozono svolge ossigeno nascente, e poiché quindi esso ha un'azione anche assai più energica, è ovvio che anche a più forte ragione valga per esso ciò che s'è detto per l'ossigeno. Infatti, malgrado che in questi ultimi anni si siano ideati e costruiti appositi apparecchi per trattare i vini con l'ozono, vantandone i molteplici vantaggi (tanto sulla maturazione e stabilizzazione quanto sulla sterilizzazione dei vini), i risultati in generale non hanno corrisposto alle speranze, per cui allo stato attuale delle nostre conoscenze non si può ancora raccomandare l'uso dell'ozono nell'enologia.
Lo stesso può ripetersi per quanto riguarda i numerosi tentativi di applicare, sotto forme svariate, l'elettricità all'invecchiamento del vino (ultimamente si è anche tentato di sperimentare le onde hertziane, i circuiti oscillanti, ecc.).
Processi speciali d'invecchiamento rapido. - Più che all'uso d'uno solo dei suddetti agenti d'invecchiamento, in questi ultimi decennî s'è pensato a combinazioni speciali di due o più di essi, sì da avvicinarsi maggiormente a quanto si verifica nell'invecchiamento naturale. Per lo più l'uso concomitante di varî di detti agenti implica l'adozione di speciali impianti più o meno complicati e costosi. Per ricordarne solo alcuni, citeremo quello di V. Sébastian; quello di S. Cassisa (il cui apparecchio venne denominato Ossigenos); quello di F. Malvezin (chiamato Pastoroxifrigoria); quello di E. Monti.
In questi ultimi anni poi sono andati diffondendosi varî altri processi di stabilizzazione dei vini, tutti basati su trattamenti alternati a caldo e a freddo (notevoli, fra gli altri, quelli delle case Charmat e Daubron di Parigi).
Imbottigliamento. - Non si vuole qui alludere alla pura e semplice operazione materiale di passare un vino dai recipienti di cantina alle bottiglie, ma a tutto quanto si riferisce ai cosiddetti "vini da bottiglia": cioè a quella che può dirsi l'aristocrazia enologica. Ché è ovvio come un vino, per aspirare all'onore della bottiglia, debba anzitutto possedere dei requisiti intrinseci che lo facciano emergere dalla massa dei vini comuni; non solo, ma debba aver avuto una lavorazione particolarmente accurata, tale da esaltarne le caratteristiche pregevoli, escludendo il benché minimo difetto. L'imbottigliamento quindi rappresenta l'ultimo atto, che conclude un lavoro durato spesso varî anni. Normalmente, infatti, non si pongono in bottiglia se non vini che abbiano subito un congruo invecchiamento, naturale o artificiale, e che, grazie ad esso, siano divenuti "maturi" e stabili. Oltre a particolari pregi della materia prima, è indispensabile una tecnica enologica razionale e accurata, che concorra a mettere in valore i pregi stessi e a dare un vino che, se non subito da giovane, dopo un giusto invecchiamento, si presenti per quanto possibile perfetto e armonico, sia dal punto di vista chimico sia da quello organolettico. È condizione indispensabile che al momento della messa in bottiglia tale vino sia "stabile", cioè non vada più soggetto (se non in modo assoluto, almeno praticamente) a quei fenomeni che possono dare luogo a più o meno repentini cambiamenti di caratteri, soprattutto nei riguardi della limpidezza. Ma un vino non deve essere neppure troppo invecchiato, perché in tal caso facilmente assume il carattere di "decrepito". Superfluo poi aggiungere che esso dovrà essere perfettamente sano.
Prima di procedere all'imbottigliamento, bisogna scegliere con giusto criterio le bottiglie.
Anzitutto, la loro forma deve variare a seconda dei tipi di vini: per quelli rossi da pasto superiori s'adatta quella bordolese (cilindrica, di 70-75 centilitri di capacità, di colore verde-oliva scuro o rossoscuro); o la borgognona (piuttosto tozza e panciuta, di circa 75 centilitri, di colore come la precedente); per i vini bianchi superiori, da pesee, la renana (allungata, di circa 70 centilitri, di colore verdechiaro o rossoscuro); per gli spumanti la sciampagnotta (di forma analoga alla borgognona, ma di colore verde-erba chiaro, e molto resistente alla pressione). La qualità del vetro ha pure la sua importanza: esso deve essere omogeneo, senza bolle o schegge, senza asperità nel collo. Importantissima è poi la pulizia delle bottiglie: tanto se nuove quanto, e anche più, se già usate. Eguale importanza ha la scelta e la preparazione dei turaccioli: essi debbono avere un diametro di circa 25 mm. e 40 di lunghezza. Anziché lubrificarli con olio d'oliva per facilitarne l'introduzione, è preferibile ammorbidirli con un bagno in acqua calda, o, meglio ancora, nei vapori dell'acqua bollente. Ottima è anche la paraffinatura. Scelti e preparati bottiglie e tappi, si passa alla messa del vino in bottiglia, o a mano o con apposite macchine empibottiglie, poi si procede alla tappatura, per lo più servendosi di macchine tappatrici. Oggi nella grande industria s'usano macchine molto ingegnose, che riempiono e tappano simultaneamente le bottiglie. Dopo di che si passa alla capsulatura delle bottiglie: cioè se ne protegge il tappo e la parte superiore del collo o con apposita capsula di stagnola, o con ceralacca, o con altre sostanze particolari impermeabili all'aria. Da ultimo si procede alla confezione definitiva (o toletta) della bottiglia, applicandovi l'etichetta e gli altri accessorî, che servono sia a indicare il nome del vino e del produttore, l'anno di produzione, ecc., sia a garantire il consumatore contro ogni sofisticazione (marchî, ecc.). Se, come per lo più avviene, i vini dopo l'imbottigliamento non vengono subito consumati, è bene conservare le bottiglie orizzontalmente in un locale a temperatura piuttosto costante e bassa, oscuro ma non umido.
Varî tipi di vino. - Numerosissimi sono i tipi di vino che si producono in Italia e negli altri stati viticoli. Lo studio di essi è compito della cosiddetta "enologia speciale". Basterà qui dare un cenno sui principali gruppi di vini, quali risultano dalla classificazione che più comunemente per essi si adotta e che qui riportiamo:
Per vini da taglio s'intendono quelli che, per i loro caratteri organolettici e per la loro composizione chimica, appaiono poco atti al consumo diretto come bevanda: mentre, per la ricchezza di certi componenti, riescono utilissimi per migliorare - se mescolati in opportune proporzioni - i vini poveri di detti componenti. Si distinguono in vini da taglio propriamente detti e vini da mezzo taglio; i primi sono molto ricchi di alcool, estratto e colore, e poveri di acidità; mentre i secondi sono per lo più molto ricchi di acidità e di colore, ma, se non poveri, solo mediamente alcoolici. I vini da taglio più importanti sono rossi; meno numerosi e meno importanti sono i bianchi.
I limiti di composizione dei vini da taglio propriamente detti si possono ritenere i seguenti: alcool 13-16%; estratto 30-40‰, acidità totale 4-6‰; ceneri 2,4-5‰. Quelli dei vini da mezzo taglio: alcool 9-11%; acidità 8-12‰.
I limiti più frequenti entro i quali oscilla la composizione dei vini comuni bianchi possono ritenersi: alcool 9-12%; acidità 5-8‰; estratto 22-28‰. Quelli dei vini rossi comuni: alcool 9-12%; acidità 5-8‰; estratto 22-28‰. Quelli dei vini rossi fini e superiori: alcool 11-13‰, acidità 6-7‰; estratto 22-26‰.
Per vini da pasto s'intendono quelli che, per i loro caratteri organolettici e per la loro composizione chimica, sono i più adatti a essere consumati direttamente come bevande durante i pasti. Essi si distinguono in tre categorie: comuni, quelli che non hanno pregi speciali, e costituiscono la gran massa dei vini di consumo corrente; fini, quelli che presentano particolari caratteri di finezza dovuti ai vitigni e all'ambiente in cui sono prodotti; essi però vengono normalmente consumati nel loro primo anno di vita; superiori sono invece quei vini che, oltre ad avere speciali pregi intrinseci di finezza, ricchezza di composizione, ecc., subiscono un invecchiamento di uno o più anni prima di essere posti in commercio, ciò che sviluppa in essi particolari doti di profumo e armonicità.
A seconda del colore, i vini da pasto possono poi essere bianchi, rosati e rossi. I più importanti sono i primi e gli ultimi. A seconda delle vivande insieme con le quali sono più adatti a essere serviti, i vini bianchi fini o superiori sono anche chiamati da pesce; i rossi superiori vengono invece anche detti da arrosto, perchè più adatti con l'arrosto o piatti forti.
Con la denominazione di vini di lusso s'intendono quei vini che per i loro caratteri organolettici e per la loro composizione chimica non possono essere considerati come bevande adatte a essere consumate durante i pasti, ma piuttosto o alla fine (vini da dessert) o fuori di essi.
È questa una categoria quanto mai eterogenea e complessa, e non è possibile darne una precisa classificazione. Basterà qui ricordare alcuni dei tipi più noti e importanti.
Vini spumanti, così detti per la loro caratteristica spuma; vini aromatizzati, di cui l'esempio più tipico è il vermut; vini aromatici, fatti con uve a sapore di moscato (di essi alcuni sono dolci e molto alcoolici, come il moscato di Siracusa; altri dolci e poco alcoolici, come il moscato di Montalcino; altri dolci e spumanti, come il moscato di Canelli); vini santi o appassiti, così detti perché fatti con uve leggermente appassite; vini alcoolici asciutti, es., la vernaccia di Sardegna, e, fino a un certo punto, il marsala, ecc. Per le varie qualità di vini, v. alle singole voci.
Malattie e difetti. - Il vino, per la stessa sua natura, è esposto a una quantità di malanni, che possono comprometterne i pregi, e non di rado renderlo addirittura inutilizzabile, almeno direttamente come bevanda. Malgrado gl'innegabili progressi della nostra enotecnia, una quantità notevole di vino va ogni anno rovinata per molteplici accidenti, non tutti rimediabili. È quindi necessario conoscere i principali malanni, cui il vino può andare soggetto, sia per meglio prevenirli, sia, occorrendo, per cercare di curarli. Anzitutto bisogna dividere le alterazioni dei vini in due gruppi ben distinti: le malattie propriamente dette dai difetti. Le prime sono dovute all'azione di speciali microorganismi e hanno il carattere di vere malattie infettive. I difetti possono invece avere cause diverse: per lo più fisiche o chimiche; molti di essi sono dovuti a pura negligenza del cantiniere. Sono, per esempio, difetti l'odore e il sapore di muffa, di asciutto, di metallo, di gomma, di tela, di rancido, di feccia; varî intorbidamenti e annerimenti, ecc.
Malattie dei vini. - La fioretta. - È una delle più comuni, ma fortunatamente meno gravi. Si riconosce molto facilmente dal caratteristico velo biancastro che copre la superficie dei vini tenuti in recipienti scolmi (damigiane, bottiglie non ben piene). Tale velo è dovuto a un'enorme quantità di microorganismi aerobî, abbastanza simili nella forma ai fermenti alcoolici.
La natura di questi microorganismi fu riconosciuta già nel 1822 da C. Persoon, il quale li chiamò Mycoderma. Comunemente s'attribuisce la fioretta del vino alla specie M. vini; però G. De Rossi ne distinse quattro specie (oltre al M. vini, il duplex, il tenax, l'acidificans). Anche altri lieviti (fra i quali le Torule, l generi Pichia, Willia) possono formare dei veli analoghi. Essi hanno la proprietà di ossidare l'alcool del vino per mezzo dell'ossigeno dell'aria. Il vino così s'impoverisce alquanto di alcool, che viene trasformato in acqua e anidride carbonica, e acquista talvolta odori e sapori poco gradevoli, massima quando si tratta di vini bianchi delicati. La fioretta è una malattia pericolosa, perché rappresenta un primo passo verso un male assai peggiore: cioè lo spunto e l'acescenza. Per evitarla, basta tenere costantemente pieni i recipienti che contengono il vino. Per la cura della fioretta, molti s'accontentano di far traboccare il velo di fioretta, colmando con vino il recipiente scemo. Ma per sopprimere tutti i micodermi che costituiscono il velo di fioretta occorre o versare sulla superficie del vino dell'alcool puro, in modo che esso formi uno straterello sottile, o scottarli col vapore d'acqua bollente.
Lo spunto e l'acescenza. - Si tratta d'una sola malattia, ma in due stadî diversi: il primo meno grave del secondo. È facile a riconoscersi per l'odore e il sapore di aceto che, in misura differente a seconda della gravità del male, assume il vino. Sulla superficie libera di questo si può anche notare un velo speciale, non bianco e spesso come quello della fioretta, ma sottile, roseoviolaceo (nei vini rossi). Questo velo con il tempo s'ispessisce, e allora si rompe e cade in fondo al recipiente, dove si raccoglie in ammassi gelatinosi caratteristici, detti volgarmente "madre dell'aceto". Anche questa malattia è dovuta a germi estremamente piccoli: i cosiddetti batteri dell'aceto, che ossidano l'alcool del vino trasformandolo in acido acetico e acqua.
Essi furono già descritti da L. Pasteur (1864-1868) sotto il nome di Mycoderma aceti. Vennero più tardi posti fra i batterî, e distinti in diverse specie (B. aceti, acetosum, orleanense, oxidans, ecc.). Hanno per lo più una caratteristica forma a bozzolo, spesso riuniti in corte catenelle. Anch'essi, come i micodermi della fioretta, hanno bisogno di aria per vivere e moltiplicarsi. Quindi la malattia si sviluppa quando un vino viene abbandonato all'aria in recipienti aperti o scolmi. Ma al manifestarsi della malattia concorrono altre circostanze favorevoli e specialmente la temperatura elevata.
In generale poi sono i vini meno alcoolici che vanno piu soggetti all'acescenza. È facilissimo diffondere la malattia quando si trascuri la perfetta lavatura dei fusti, dei sifoni, degli alzavini, delle spine. Da quanto sopra, è facile comprendere quali debbono essere i rimedî preventivi per questa malattia. Non altrettanto facili e sicuri sono invece i rimedî curativi. A ogni modo bisogna tener presente che, per malattie di questo genere, è necessario: arrestare lo sviluppo del male, uccidendo o asportando gli agenti della malattia; cercare di eliminare o mascherare i prodotti della malattia, che alterano l'odore o il sapore del vino. Per ottenere il primo intento, il mezzo migliore sarebbe la pastorizzazione del vino, riscaldandolo verso 65° (v. enotermo). Più semplice e più economico è l'uso dell'anidride solforosa. Per arrestare sollecitamente il male, è bene adoperare da 15 a 20 grammi di metabisolfito di potassio per ettolitro a seconda della gravità del male e della temperatura della cantina. Il rimedio è però solo temporaneo. Per liberare, per quanto possibile, dall'odore e sapore acetoso un vino si consigliano spesso i cosiddetti disacidificanti, alcuni dei quali anche permessi dalla legge (il carbonato di calcio, il carbonato di potassio e il tartrato neutro di potassio); ma, essendo l'acido acetico più debole degli acidi fissi del vino, gli effetti dei disacidificanti sui vini spunti non sono sempre quelli che si desidererebbero. Meglio sarebbe tentare di far rifermentare il vino spunto su delle buone vinacce fresche, subito dopo la svinatura. La cura potrà però essere tentata con probabilità di successo solo se il male non è molto avanzato.
Il girato. - È un'altra delle malattie più comuni del vino. I caratteri del vino girato sono: una torbidezza speciale, che, guardando il vino in un bicchiere, si palesa quasi sotto forma di onde o nuvole lentamente moventisi ad ogni agitazione del bicchiere; spesso una leggiera schiuma biancastra, per lo più ridotta a una coroncina di bollicine attorno all'orlo del bicchiere (il vino fa l'unghia); colore nei vini rossi più smorto e talora tendente al bruno; odore sgradevole, che ricorda quello di sottoaceti alterati; sapore pure sgradevole, che da ultimo è addirittura di putrido. Anche in questo caso il male è dovuto a microorganismi, che però, a differenza di quelli delle malattie precedenti, sono anaerobî, vivendo nelle fecce del vino.
Già L. Pasteur aveva osservato nei vini girati dei batterî d'aspetto variabile; più tardi E. Kramer isolava da detti vini varie specie microbiche, da lui designate come Bac. saprogenes vini I-VII e Micrococcus saprogenes vini I-II: bacilli e cocchi di varie dimensioni, isolati o in catene; anche più recentemente Bordas, Joulin e Raczkowski trovarono in vini girati della Francia meridionale e dell'Algeria dei batterî da loro chiamati bacillo A (Pseudomonas rosea vini) e bacillo B; da ultimo A. Pavari ha isolato un altro bacillo, che G. De Rossi ha designato Bacterium Pavarii, che ha molte analogie col Bacterium mannitopoeum. A questi microrganismi conviene aggiungere il Bacterium tartarophthorum di MüllerThurgau e Osterwalder, di cui qualche varietà scompone, oltre all'acido tartarico, anche la glicerina. Si tratta quindi d'una quantità di microorganismi, che possono concorrere a dare i caratteri di questa malattia. La quale consiste soprattutto in un'alterazione e distruzione dei sali dell'acido tartarico del vino (donde anche il nome di fermentazione tartarica). Da tale alterazione s'origina acido acetico e propionico:
Si ha perciò notevole diminuzione dell'acidità fissa e aumento di quella volatile.
La malattia colpisce soprattutto i vini che sono abbandonati a lungo sulle fecce, specialmente se piuttosto poveri di alcool, e se tenuti in cantine poco fresche. In quelli ottenuti da uve poco sane e vinificate senza speciali precauzioni, il girato infierisce, sovente, in modo disastroso. Si possono quindi facilmente immaginare quali debbano essere i rimedî preventivi più efficaci. Anzitutto, evitare di far restare il vino sulle fecce durante la stagione calda; evitare anche, per quanto possibile, il riscaldarsi delle cantine; vinificare con anidride solforosa le uve guaste o poco sane. Per quanto riguarda la cura dei vini girati, è da ripetere ciò che già s'è detto per le malattie in generale: che soltanto quando il male non è molto avanzato la cura può essere tentata con speranza di successo. Al solito, bisognerà anzitutto arrestare la malattia, se possibile, ricorrendo alla filtrazione e alla pastorizzazione; mancando di filtri e di enotermi, ricorrendo a un'energica solforazione, con 10-20 grammi di metabisolfito per ettolitro. Per cercare poi di attenuare gli effetti del male, è anzitutto raccomandabile di aggiungere 100 grammi per ettolitro di acido tartarico (o 50 gr. d'acido citrico) per supplire alla distruzione che i germi del girato fanno dell'acidità fissa del vino. Può giovare anche un'aggiunta di 20-25 gr. di tannino per hl. Indi, se possibile, è bene far fermentare il vino su vinacce fresche.
L'agrodolce. - Mentre il girato infierisce specialmente nei climi settentrionali, l'agrodolce è più comune nei climi caldi, specialmente per i vini rossi. E mentre il girato si manifesta normalmente dopo l'inverno e tanto più quanto più ci si avvicina all'estate, l'agrodolce, invece, si sviluppa molto per tempo in autunno, spesso prima ancora della svinatura. Il nome della malattia dice subito quali sono i caratteri più salienti dei vini malati. Questi, oltre a essere torbido presentano un odore sgradevole, che sta fra quello delle frutta stramature e quello acetoso. Ma soprattutto caratteristico è il sapore a un tempo dolciastro, ma di una dolcezza nauseante, e agro per un'acidità anormale, diversa da quella acetica. Il caratteristico sapore dolciastro è dovuto a una particolare sostanza (riscontrata la prima volta nei vini nel 1888 da G. Basile a Catania) che proviene da una speciale fermentazione dello zucchero dei mosti: la mannite (donde anche il nome dato alla malattia di fermentazione mannitica).
Y. Gayon e E. Dubourg isolarono (1894-1901) da vini mannitici uno speciale microorganismo (Bacillus manniticus), a forma di bastoncini molto corti, che per lo più si riunisce in zooglee, spesso accompagnato dal Bacterium mannitopoeum, studiato da H. Müller-Thurgau e C. Osterwalder.
La principale alterazione provocata nei mosti da questo microorganismo appare dalle seguenti equazioni:
Però secondo P. Mazé e Perrier si avrebbe anche formazione di acido acetico a spese dell'alcool:
ciò che spiega anche il caratteristico sapore agro-dolce dei vini mannitici, che sono caratterizzati dalla presenza di mannite, acido lattico e acido acetico.
Tali alterazioni si manifestano allorquando la fermentazione normale (alcoolica) sia resa difficile per cattive condizioni d'ambiente, soprattutto per un eccesso di calore, ciò che succede spesso nei climi meridionali. Allora i fermenti alcoolici restano come paralizzati e prendono il sopravvento quelli mannitici. Il miglior rimedio preventivo contro questo malanno è quindi impedire un eccessivo riscaldamento del mosto in fermentazione. La cura è assai difficile e incerta. Solamente se il male viene preso al suo inizio, si può ancora cercar di rimediare ricorrendo alla rifermentazione su vinacce fresche e sane.
Il filante. - È una malattia non molto comune né molto grave. Essa è assai più frequente nei vini bianchi. I vini colpiti assumono un carattere singolare: quello di diventare quasi vischiosi, e di scendere nel bicchiere, quando si mescono, senza far rumore, filando come fa l'olio. Perciò la malattia si dice anche grassume.
È una malattia che si manifesta nei vini tenuti al riparo dall'aria, e specialmente nei vini in bottiglia, perché essa è dovuta a certi piccolissimi microorganismi anaerobî, denominati da E. Kramer Bacillus viscosus vini, riuniti a catenelle, di forma sempre più allungata a mano a mano che invecchiano, e che dànno luogo a una massa coerente e vischiosa, di natura cellulosica, analoga alla destrina, certamente prodotta dalla trasformazione dello zucchero. I bacilli del filante hanno quindi bisogno di zucchero; invece l'alcool e gli acidi, se abbondanti nel vino, li ostacolano. Conferma questi risultati un importante studio di E. Kayser e E. Manceau del 1909 su vini bianchi della Champagne, nei quali tale malattia è abbastanza frequente durante la conservazione dei vini in fusti. Come mezzi per prevenire il male, ricordiamo: evitare che nel vino rimangano piccole quantità di zucchero; ricorrere all'uso di anidride solforosa durante la fermentazione. Per quanto riguarda la cura, essa non è difficile: basta sbattere il vino malato all'aria, poi chiarificarlo o filtrarlo e aggiungervi da ultimo un po' di bisolfito.
L'amaro. - Non è una malattia frequente. Essa colpisce di preferenza i vini rossi, specialmente fini e superiori (del Piemonte, della Borgogna, ecc.); la si riscontra molto più spesso in vini vecchi che giovani. Il vino malato si riconosce anzitutto dal sapore amaro disgustoso, caratteristico, unito a un'acidità sgradevole (volatile) che altera anche l'odore; la limpidezza è offuscata da una granulazione della materia colorante sospesa sotto forma insolubile; il colore viene quindi alterato, assumendo sfumature ranciate.
La malattia è dovuta a batterî già descritti dal Pasteur, che li riconobbe anaerobî facoltativi, successivamente studiati da molti autori, e per ultimo da E. Voisenet, che ne battezzò la specie Bacillus amaracrylus. Il nome è in relazione alla produzione di acroleina per disidratazione della glicerina (già L. Pasteur aveva supposto che si trattasse di una fermentazione della glicerina). Al microscopio si presentano sotto forma di bastoncini, riuniti a formare dei filamenti per lo più incrostati dalla materia colorante precipitata. Come mezzi presentivi, si può raccomandare l'uso moderato dell'anidride solforosa, un leggiero aumento dell'acidità se questa fosse scarsa, grande pulizia nei recipienti e attrezzi di cantina e nelle bottiglie, travasi frequenti, e la pastorizzazione. Di metodi curativi veri e proprî non se ne conoscono; non si può che raccomandare di arrestare al più presto il male con l'anidride solforosa o la pastorizzazione, poi tentare una rifermentazione su buone vinacce.
Fermentazione lattica. - Bisogna distinguere una fermentazione lattica (nei vini) patologica e una normale: solo la prima va considerata fra le malattie. Essa è dovuta alla decomposizione del glucosio per opera d'un microorganismo denominato da F. Hüppe Bacillus acidi lactici. A questa alterazione vanno soggetti specialmente i vini bianchi, che assumono un sapore acido poco piacevole, anormale, e un odore d'acido butirrico (formandosi anche dal glucosio un po' di questo acido).
Non è una malattia frequente: la si riscontra più che altro in vini ottenuti da uve la cui acidità fissa sia molto scarsa (così, per es., uve sommerse da inondazioni, o, comunque, imbrattate di terra). In questi casi il rimedio preventivo più ovvio è quello di lavare le uve prima di pigiarle; o anche d'acidificare leggermente i mosti. Sarà pure utile favorire una sollecita fermentazione alcolica. Come rimedî curativi, non c.è che tentare una rifermentazione, dopo aver cercato di ridurre alquanto l'acidità volatile mescolando il vino con altro in cui è bassa tale acidità. Altri microorganismi capaci di produrre acido lattico dal glucosio sono i Micrococcus acido-vorax e M. variococcus del Müller-Thurgau. Invece la fermentazione lattica, che non deve essere considerata di natura patogena, è la cosiddetta f. malolattica, che trasforma l'acido malico del vino in acido lattico (C4H6O5 = CO2 + C3H6O3).
Essa è dovuta prevalentemente al Micrococcus malolacticus scoperto da W. Seifert, e al B. gracile, studiato da H. Müller-Thurgau e C. Osterwaldern. Nei nostri vini sembrano dominare batterî di forma e comportamento analogo a quelli del B. gracile (C. Mensio).
I difetti del vino. - Odore e sapore di muffa. - È uno dei difetti più spiacevoli, e purtroppo fra i più comuni, che possono presentare i vini. Esso può essere causato dalla vinificazione di uve gravemente attaccate dalla muffa grigia (Botrytis cinerea), o dall'uso di recipienti di legno alterati da muffa.
Quando il vino è gravemente colpito da questo malanno, la cura si può dire impossibile. Ma se il difetto è ancora poco accentuato, essa si può tentare in varî modi.1. Ricorrendo all'olio d'oliva o di vaselina; quest'ultimo anzi è preferibile. Se ne usano dosi variabili da un quarto di litro a un litro per ettolitro, a seconda della gravità del difetto, mescolando bene l'olio al vino. 2. Trattando il vino con carbone vegetale, o con carboni speciali preparati per uso enologico. 3. Facendo rifermentare il vino su vinacce fresche, o, in mancanza di esse, su fecce di primo travaso ottenute da vini sani.
Odore di secchino. - È un difetto analogo al precedente, che si manifesta quando il vino viene messo dentro botti aventi il difetto dell'"asciutto" o secchino. Si può curare nello stesso modo del malanno precedente.
Sapore di legno. - È un difetto dovuto all'incompleta depurazione delle botti nuove. La cura dei vini così difettosi non è facile: meglio cercare di mascherare il difetto mescolando questi vini con vini sani; o facendoli rifermentare. Si può anche provare con carboni o con l'olio, come nei casi precedenti.
Sapore di rame. - Il vino che sia stato a lungo a contatto di vasi o arnesi di rame o che sia stato in recipienti che abbiano servito per la poltiglia bordolese o altri rimedî a base di rame, prende un detestabile sapore amaro, oltre che divenire nocivo alla salute.
Un rimedio specifico è l'uso del cosiddetto fegato di zolfo (polisolfuro di potassio), ma il metodo è piuttosto complicato; preferibile è l'uso del solfuro di potassio puro, determinandone preventivamente la dose migliore (variabile fra i 10 e i 20 gr. di solfuro cristallizzato per hl.), e facendo dopo circa otto giorni un trattamento con 6-8 gr. di metabisolfito potassico per eliminare l'eccesso d'acido solfidrico. Si completa la cura con una chiarificazione seguita da filtrazione.
Odore di zolfo. - Questa denominazione impropria viene usata dai pratici per due diversi difetti: quello di anidride solforosa e quello di acido solfidrico. Essendo difetti del tutto diversi, diversi dovranno essere anche i metodi di cura.
Il primo - dovuto a eccessive solforazioni o a uso di dosi esagerate di bisolfiti - spesso si guarisce con il tempo, ché l'anidride solforosa in parte scompare anche spontaneamente. Ma nei casi più gravi bisogna ricorrere a ripetuti travasi all'aria. L'odore di acido solfidrico, frequente nei vini giovani, si elimina pure in gran parte da sé col tempo, specialmente tenendo il vino in recipienti porosi, e facendo frequenti travasi all'aria. Giova anche, per eliminarlo, travasare il vino in botti fortemente solforate, perché l'anidride solforosa, combinandosi con l'idrogeno solforato, dà origine a zolfo, che può essere separato con i travasi (2H2S + SO2 = 2H2O + 3S).
Intorbidamenti. - Fra i difetti più frequenti nei vini sono da considerare quelli che interessano la limpidezza, e talora anche il colore, dei vini. Numerose sono le cause d'intorbidamento: e non è sempre facile accertare caso per caso di quale si tratti. Ma per sapere come regolarsi, è indispensabile una sicura diagnosi. Qui ci limiteremo a ricordare i casi principali.
Uno dei più frequenti è quello della cosiddetta "casse" ossidasica. Si tratta di un intorbidamento, seguito da oscuramento del colore.
Questo malanno è dovuto a un enzima ossidante, contenuto nelle uve (specialmente abbondante in quelle ammuffite); nonché nei fermenti alcoolici: la cosiddetta enossidasi. Essa fa agire l'ossigeno su alcuni componenti dei vini, e specialmente sulle sostanze coloranti che fa imbrunire.
È caratteristica di questo malanno quella di manifestarsi talora molto bruscamente non appena il vino viene esposto all'aria, soprattutto in seguito ai travasi, quasi come si fosse rotto l'equilibrio fra i suoi componenti (donde il nome dato dai Francesi a questo male di casse, cioè rottura del colore). Essendo essa dovuta all'enossidasi, si suole chiamarla "casse" ossidasica o intorbidamento ossidasico. Il sapore e l'odore sono pure leggermente alterati, e ricordano quelli del Marsala o del Madera. Il male è grave se trascurato, ma non è difficile da prevenire, e neppure da curare. Certo però anche per esso è preferibile la cura preventiva. Questa può farsi sia mediante la pastorizzazione del mosto (v. enotermo), sia assai più semplicemente con l'anidride solforosa. Ricorrendo alla fermentazione mediante questo antisettico, s'ottengono dei vini che non andranno più soggetti alla casse ossidasica. L'uso di questa misura preventiva è soprattutto raccomandabile quando si debbano vinificare uve guaste, specialmente ammuffite, che più facilmente dànno vini soggetti alla casse ossidasica. Non avendola usata durante la fermentazione, se ne potranno aggiungere lievi dosi ai vini giovani (es., 10 gr. di bisolfito per ettolitro). Come rimedio curativo, per i vini già alterati dalla casse, serve ancora l'anidride solforosa, che arresta il male; ma essa non potrà ripristinare il colore primitivo, specialmente nei vini rossi, perciò anche in questo caso è sempre preferibile la cura preventiva.
Altro caso d'intorbidamento abbastanza frequente è quello dovuto al ferro, detto anche "casse" ferrica o annerimento per ferro. Esso si verifica quando un vino viene ad arricchirsi notevolmente di ferro per cause diverse.
Questo metallo si combina con il tannino del vino, per formare tannato ferroso, che resta in soluzione nel vino e che perciò non si avverte. Ma allorché il vino viene esposto all'aria, il tannato ferroso si trasforma in tannato ferrico, insolubile, di colore nerastro, e allora il vino s'intorbida e annerisce. A rendere più facile il manifestarsi di questo malanno contribuisce la scarsa acidità del vino, perché gli acidi servono a tenere disciolto il tannato ferrico. Su questa proprietà si basa anzi un mezzo facile per distinguere se l'intorbidamento di un vino è dovuto a casse ossidasica o ferrica.
Per prevenire il male bisogna anzitutto evitare il contatto del vino con recipienti o arnesi di ferro, evitare pure che un vino o s'arricchisca troppo di tannino o s'impoverisca troppo di acidi. Se un vino ormai è colpito dalla casse ferrica, il meglio che si possa fare è di liberarlo dalla maggior quantità possibile di ferro, aerandolo fortemente. Cosi tutto ciò che può precipitare come tannato ferrico precipita. Dopo si cercherà di separare questo con una chiarificazione, o, potendo, con una filtrazione. E da ultimo, si potranno aggiungere al vino 50 o 100 grammi di acido tartarico o citrico per ettolitro. Nei casi gravi di vini rossi, per non perdere troppa materia colorante, si sospende l'aerazione e s'aggiunge subito acido tartarico o citrico.
Il ferro può anche essere causa di frequenti intorbidamenti, che sono particolarmente molesti nei vini bianchi, quando, per effetto dell'aerazione, esso passa dallo stato ferroso a quello ferrico. In questi casi i vini diventano opalescenti o torbidi, e non s'illimpidiscono che dopo lungo tempo, dando luogo a formazione di un deposito di natura complessa, in cui predomina il fosfato ferrico.
Recenti studî di L. Casale in Italia e di J. Ribérau-Gayon in Francia hanno messo appunto in evidenza l'influenza che sulla precipitazione del ferro nei vini esercita lo ione PO4. Su quest'azione si basa anzi un nuovo metodo di cura della casse ferrica ideato dal Casale, che consiste nel provocare nel vino - mediante l'aggiunta di uno speciale chiarificante - la precipitazione di tutte quelle sostanze (calcio, magnesio, alluminio e composti organici varî) che possono dare con lo ione PO4 e con lo ione Fe dei composti insolubili. Eliminate (o diminuite) queste sostanze, il vino non soltanto resta limpido, ma sopporta delle aggiunte rilevànti di ferro e di ione PO4 senza più dare fenomeni d'intorbidamento.
Una causa non infrequente d'intorbidamento dei vini bianchi può essere dovuta alla presenza di piccole quantità di rame (ne bastano 2-3 mgr. per litro). I composti che questo metallo forma nei vini sono solubili in presenza di aria, ma insolubili in ambiente riducente. Può quindi accadere che un vino, limpido all'imbottigliamento, s'intorbidi poi nelle bottiglie, massime se sono esposte alla luce e se il vino aveva ricevuto aggiunte di anidride solforosa. Spesso l'intorbidamento, se è leggiero, sparisce tenendo le bottiglie all'oscuro, o dopo che sono state aperte.
S' impediscono questi inconvenienti evitando gl'inutili e prolungati contatti del vino con oggetti di rame; in casi gravi, denunciati anche dal gusto amarognolo persistente, si può ricorrere a piccole aggiunte di solfuro di potassio, come già s'è ricordato.
Legislazione enologica. - Le disposizioni di legge che interessano la preparazione e il commercio del vino in Italia sono diverse. Le essenziali sono:
a) il r. decr. legge 15 ottobre 1925,n. 2033, per la "repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio di sostanze di uso agrario e di prodotti agrarî", con relativo regolamento approvato con r. decr. 1° luglio 1926, n. 1361;
b) il r. decr. legge 2 settembre 1932, n. 1225, contenente provvedimenti per la difesa economica della viticoltura (che in parte modifica i decreti precedenti). e il r. decr. 6 luglio 1933 n. 2414, che contiene norme regolamentari per l'esecuzione di detto decreto;
c) la legge 10 luglio 1930, n. 1164, concernente disposizioni per la difesa dei vini tipici italiani; e il r. decr. 20 novembre 1930. n. 1836, che approva il regolamento relativo (parzialmente modificato dal r. decr. 19 ottobre 1933, n. 1668);
d) il testo unico delle leggi 23 marzo 1931, n. 376, e 2 aprile 1936, n. 729, contenenti disposizioni per la coltivazione di vitigni ibridi produttori diretti;
e) il r. decr. legge 26 ottobre 1933, n. 1443. che estende il marchio nazionale all'esportazione dei vini;
f) il r. decr. legge 9 novembre 1933. n. 1696, che disciplina la preparazione e il commercio del vermut, e il r. decr. 8 aprile 1935, n.745, che disciplina la produzione e il commercio degli aperitivi a base di vino.
Si tratta quindi d'un complesso di provvedimenti legislativi, gli uni di carattere generale, gli altri interessanti più propriamente determinate forme d'attività enologica, tutti però rivolti non solo alla difesa del consumatore, ma anche a quella della produzione e del commercio onesti, nonché della pubblica finanza contro gli abusi dei frodatori.
Le disposizioni generali sono contenute nel r. decr. legge 15 ottobre 1925, n. 2033, il cui cap. II è dedicato appunto ai vini. L'art. 13 stabilisce anzitutto ciò che deve intendersi per vino genuino: "Il nome di vino è riservato al prodotto della fermentazione alcoolica del mosto di uva fresca o leggermente appassita in presenza o in assenza di vinaccie".
Tutti gli altri sono considerati vini non genuini, compresi quelli ottenuti con uve secche e quelli preparati mediante la fermentazione di soluzioni zuccherine in presenza di fecce di vino o di vinaccia d'uva (secondi vini). La produzione a scopo di commercio e il commercio dei vini non genuini sono vietati.
L'art. 11 del r. decr. legge 2 settembre 1932, n. 1225, a sua volta stabilisce che "tale divieto è esteso ai vini con grado alcoolico inferiore al 10% in volume se rossi, al 9% in volume se bianchi", sempre quando si tratti di vini destinati direttamente al consumo, e non di vini tipici, il cui grado alcoolico sia notoriamente inferiore ai predetti.
L'art. 17 del r. decr. legge 15 ottobre 1925 consentiva, sotto determinate condizioni, la vendita dei vinelli; ma l'art. 12 del successivo citato r. decr. legge 2 settembre 1932 l'ha tassativamente vietata, tranne che si tratti di vinelli destinati alla distillazione o alla fabbricazione dell'aceto. In relazione a tali divieti sta pure quello della detenzione delle vinacce oltre a un certo limite, fissato anno per anno per ogni provincia dal prefetto.
Il regolamento 1° luglio 1926, n. 1361, contiene poi tutta una serie di disposizioni disciplinanti i trattamenti permessi per la preparazione dei vini da pasto o speciali. Il cap. VII di tale regolamento è appunto dedicato ai mosti, filtrati dolci, vini e vinelli. L'art. 43 definisce ciò che deve intendersi per "mosto d'uva", per "mosto muto", per "filtrato dolce", per "mosto concentrato o sciroppo d'uva".
L'art. 44 stabilisce che durante la vinificazione è concessa l'aggiunta ai mosti di: mosto concentrato, filtrato dolce, fermenti alcoolici, carbonato di potassio e di calcio, tartrato neutro di potassio, acido tartarico, acido citrico (quest'ultimo in quantità non superiore a 100 gr. per hl.), tannino, anidride solforosa, bisolfito e metabisolfito di potassio, carbonato e fosfato ammonico.
L'art. 46 consente l'aggiunta ai vini di: mosto concentrato, filtrato dolce, acido tartarico, acido citrico (quest'ultimo non oltre 100 gr. per hl.), carbonato di potassio e di calcio, tartrato neutro di potassio, tannino, enocianina, anidride solforosa, bisolfito e metabisolfito di potassio, solfito di calcio.
L'art. 47 avverte poi che tutte le sostanze di cui agli articoli precedenti debbono sempre essere usate allo stato di purezza, e non debbono mai essere aggiunte in quantità tali da mutare sensibilmente la composizione dei mosti e dei vini, o da alterare i rapporti fra i loro componenti.
L'art. 48 stabilisce quali sono le pratiche enotecniche consentite oltre a quelle ordinarie di igiene enotecnica (colmature, travasi, filtrazioni). Esse sono: l'aggiunta di uva leggermente appassita; la chiarificazione con bianco d'uovo, albumina, sangue fresco di animali sani, gelatine tecnicamente pure, caseina e terra di Spagna; il trattamento con olio (vegetale o minerale) privo di sostanze coloranti o estranee; il trattamento con carbone; la rifermentazione; la pastorizzazione e la refrigerazione; la carbonicazione con CO2 pura; e in generale tutti i trattamenti suggeriti dalla razionale enotecnia, che non alterino sensibilmente la composizione del vino. La concentrazione del vino è consentita purché nei limiti necessarî per riportarlo alla composizione normale di quelli della località.
L'art. 50 contempla i trattamenti permessi per i vini speciali (marsala, vermut, moscati, vini liquorosi, spumanti). Tali trattamenti consistono soprattutto in una condizionata aggiunta di alcool etilico rettificato, di saccarosio puro, di mosto cotto e (per i soli vermut), di sostanze aromatiche e amaricanti e di caramello; la gassificazione artificiale per i vini a spuma artificiale (per i quali però è prescritta la denominazione di "spumanti gassificati artificialmente").
L'art. 51 è destinato a precisare quali aggiunte sono più specialmente vietate ai mosti, filtrati dolci, mosti muti o concentrati, e vini. Esse sono: a) sostanze antisettiche, come acido salicilico, benzoico, benzoati, essenza di senape, fluoruri, allume, acido borico, e qualunque altro antisettico che non sia l'SO2 o i suoi composti già ricordati; b) tutti gli acidi minerali, e acidi organici diversi dal tartarico e citrico; c) materie coloranti, sia artificiali sia naturali, all'infuori dell'enocianina; d) materie zuccherine in genere, salvo le eccezioni contemplate dall'art. 50 per il saccarosio; e) materie edulcoranti sintetiche (saccarina e simili); f) tutti gli alcoli e la glicerina, salvo le eccezioni contemplate dall'art. 50 per l'alcool etilico; g) fosfati e altri sali terrosi, all'infuori dei carbonati e solfiti già ricordati; h) metalli pesanti e loro sali, ferrocianuro potassico, e in enere sostanze estranee alla composizione del vino.
L'art. 53 contempla la gessatura dei mosti; esso venne però modificato dal r. decr. legge 2 luglio 1936, n. 1640, che tollera la gessatura dei mosti, ma prescrive che i vini contenenti più di un grammo per litro di solfati non possono essere venduti per consumo diretto.
L'art. 54 vieta la vendita per il consumo diretto di mosti e vini contenenti più di 200 milligrammi per litro di anidride solforosa totale o più di 20 milligrammi di anidride solforosa libera (recentemente, col suddetto r. decr. legge 2 luglio 1936, n. 1640, il limite massimo tollerato di anidride solforosa è stato ridotto a 150 milligrammi, di cui 15 allo stato libero), o più di un grammo per litro di cloruro sodico, o alterati per malattie microbiche o per difetti gravi. Sono pure ritenuti non commerciabili per il consumo diretto i vini che contengono un'acidità volatile troppo elevata. Con il r. decr. legge 16 luglio 1936, n. 1606, è vietata la vendita di vini aventi tale acidità, espressa in acido acetico per litro, superiore a un decimo della gradazione alcoolica in volume per cento.
È pure vietato (art. 52) il taglio dei vini con vinelli, con secondi vini, con vini d'uva secca, con vini di frutta diversa dall'uva, e con vini non genuini in genere. Come pure il taglio dei mosti con succhi di frutta diverse dall'uva, o con sciroppi di uve secche.
La difesa dei vini tipici è affidata alla citata legge 10 luglio 1930, n. 1164, e relativo regolamento 20 novembre 1930, n. 1836. Il concetto informatore di tale legge è quello di affidare la tutela d'un vino tipico a consorzî costituiti fra coloro che producono o commerciano quel determinato vino. L'art. 2 della legge precisa però che "sono considerati vini tipici i vini genuini pregevoli e quelli speciali, i quali, avendo origine accertata per località di produzione, per terreno, per vitigni e per sistemi di preparazione abbiano caratteri organolettici costanti e tali da conferire loro particolare finezza". Al Ministero per l'agricoltura e foreste spetta la delimitazione del territorio di produzione dei vini tipici.
Ciascun consorzio dovrà adottare un marchio o segno distintivo proprio, che verrà trascritto a norma della legge 30 agosto 1868, n. 4577.
Composizione chimica. - La composizione chimica del vino deriva anzitutto da quella della materia prima, l'uva (v.), variamente modificata dai processi di trasformazione del frutto zuccherino della vite in un liquido alcoolico qual'è il vino. A dare nella forma più sintetica un'idea abbastanza precisa di questa composizione, e dei cambiamenti originatisi in seguito alla vinificazione, valga il prospetto alla pagina seguente, che figura nel classico trattato di Fr. v. Babo ed E. Mach, successivamente modificato e integrato da C. Mensio, e qui aggiornato in base agli studi più recenti di enochimica.
Analisi. - S'indicano qui per sommi capi i metodi ufficiali d'analisi del vino in Italia (stabiliti nel 1934 dal Ministero dell'agricoltura e delle foreste).
Determinazione del peso specifico. - Si esegue sul vino limpido alla temperatura di 15° con la bilancia di Westphal.
Determinazione della gradazione alcoolica. - Metodo per distillazione: si opera su 100 cmc. di vino; la distillazione viene protratta fino a che siano raccolti 75 cmc. di distillato; il volume del liquido si riporta a 100 con acqua distillata e si determina il peso specifico del liquido per mezzo della bilancia di Westphal, calcolando la forza alcoolica mediante le tavole di Windisch.
Metodo ebullioscopico. - Si usa ricorrendo ad appositi apparecchi, detti appunto ebullioscopici o ebulliometrici (es., Malligand, Salleron, ecc.), fondati sul principio che ciascuna miscela idroalcoolica bolle a una temperatura ben determinata. I risultati così ottenuti (sempre che si usino le necessarie cautele) sono abbastanza attendibili, quando si tratti di vini asciutti con gradazione fra circa 9° e 12°.
Determinazione dell'estratto secco. - Può farsi col metodo diretto (specialmente per vini contenenti meno di 30 gr. d'estratto per litro), facendo evaporare a bagno-maria 50 cmc. di vino in una capsula a fondo piatto di circa 35 mm. di diametro e riducendo il liquido a consistenza sciropposa. Più frequentemente si segue il metodo indiretto adottando la formula Tabarié: Dv + 1 − Da − De = 0, in cui Dv è la densità del vino; Da la densità del distillato alcoolico; De la densità della soluzione acquosa dell'estratto. Da quest'eguaglianza si ha: De = 1 + Dv − Da. Mediante le tavole di Ackermann (se si tratta di vini asciutti o quasi) o di Windisch (se di vini dolci) si trova il valore dell'estratto.
Determinazione dell'acidità. - Acidità totale. - È un saggio che serve a determinare gli acidi liberi titolabili con la potassa al tornasole, ma in realtà essi non sono tutti gli acidi del vino. All'uopo 25 cmc. di vino si neutralizzano con soda quartinormale. L'acidità si calcola in acido tartarico e s'esprime in grammi per litro, moltiplicando per o,75 il numero di cmc. di alcali quartinormiale adoperato.
Acidità volatile. - S'intende quella che può essere spostata dal vino in ebollizione mediante una corrente di vapor d'acqua. Essa è prevaletemente costituita da acido acetico, ma contiene anche piccole quantità di altri acidi organici volatili. Si determina distillando 50 cmc. di vino (o 25 cmc. se il vino è inacidito), immettendo a un certo punto nel palloncino una corrente di vapore, indi titolando con una soluzione di soda decinomiale e usando come indicatore la fenolftaleina. L'acidità volatile si esprime in grammi d'acido acetico moltiplicando per o,006 il numero di cmc. adoperati per la neutralizzazione.
Acidità fissa. - S'ottiene detraendo dall'acidità totale quella volatile espressa in acido tartarico (per trasformare l'acidità acetica in acidità tartarica s'usa il coefficiente 1,25).
Determinazione degli zuccheri. - Nei vini comuni (come nei mosti) si truvano solo zuccheri riduttori; però in vini speciali (come spumanti, vermut, ecc.) il saccarosio può esistere in dosi notevoli, perchè aggiunto artificialmente. Nel primo caso basta determinare gli zuccheri riduttori; nel secondo caso occorre determinare anche quelli non riduttori.
Determinazione degli zuccheri riduttori. - Nei vini s'effettua ordinariamente per via chimica, seguendo il metodo volumetrico di Fehling-Soxhlet. Si opera su 100 cmc. di vino, neutralizzandoli con potassa caustica, indi evaporandoli a bagno-maria fino a ridurli a 25-30 cc. Al residuo s'aggiunge un leggiero eccesso di soluzione di acetato basico di piombo, si lascia depositare il precipitato fomatosi e si spiomba con soluzione di solfato sodico col 10% di carbonato sodico, infine si filtra. ll filtrato si versa in una buretta e da questa si lascia cadere goccia a goccia nel liquido di Fehling bollente. La titolazione è finita quando ogni riflesso azzurro del liquido è scomparso, e questo è divenuto di color rosso mattone (dovuto all'ossidulo di rame separatosi per la riduzione avvenuta). per il calcolo degli zuccheri (grammi di zucchero per litro di vino) s'usa la formula:
dove 0,0515 esprime i grammi di zucchero invertito corrispondenti a 10 cmc. di liquido di Fehling; a il numero di cmc. di liquido zuccherino necessario per ridurre i 10 cmc. suddetti; n la diluizione totale subita dal vino per ottenere la soluzione zuccherina.
Determinazione degli zuccheri non riduttori (saccarosio). - Volendo dosare insieme con i precedenti anche il saccarosio, una parte del filtrato dopo l'aggiunta del solfato sodico viene sottoposta all'inversione mediante acido cloridrico e si scalda in bagno d'acqua a 68-70° per 1/4 d'ora. Si raffredda rapidamente, si neutralizza con carbonato sodico secco, si porta a volume e si filtra. Poi si determinano gli zuccheri col Fehling; e dagli zuccheri totali per litro si sottraggono gli zuccheri riducenti, multiplicando la differenza per o,95 per ottenere il saccarosio.
Determinazione delle ceneri. - S'evaporanoo 50 cmc. dí vino in capsula fino a consistenza sciropposa, e si prosegue il disseccamento su cartone d'amianto; indi si passa la capsula direttamente sulla fiamma, si carbonizza l'estratto, s'estrae con acqua, filtrando con filtro senza cenere, si brucia il carbone, e nella stessa capsula s'aggiunge l'estratto acquoso col filtro; s'evapora a bagnomaria, si dissecca, indi si calcina al rosso scuro. Dopo raffreddamento, si riprende la cenere con qualche goccia di soluzione di carbonato ammonico, si porta ancora a secco, si calcina di nuovo, si raffredda in essiccatore e si pesa.
Determinazione dell'alcalinità delle ceneri. - Le ceneri di 50 cmc. di vino, umettate con acqua e addizionate di1-2 gocce di soluzione (1‰) di metilarancio, vengono trattate con 25 cmc. di HCl N/10; il tutto si fa bollire per 1/4 d'ora circa. Dopo raffreddato, si titola con soluzione alcalina N/10 fino a colorazione gialla, e quindi con HCl N/10 fino a colorazione rossa. Se per 50 cmc. di vino si sono impiegati in totale a cmc. di acido cloridrico N/10 e b d'idrato potassico N/10, l'alcalinità delle ceneri di 1 litro di vino espressa in cmc. di alcali normali è data dall'equazione X = 2 (a − b).
Determinazione della glicerina. - Questa determinazione si basa sopra successive estrazioni, prima con alcool a 96° del residuo di 100 cmc. di vino, intimamente impastato con sabbia quarzosa e latte di calce e poi con alcool ed etere anidro dell'estratto ricavato dalla prima estrazione alcoolica. Il peso della glicerina si riferisce a un litro di vino. Se p è il peso della glicerina trovata, un litro di vino ne conterrà gr. p × 11,11.
Determinazione dell'acido tartarico totale. - Si applica di norma il metodo di Halenke e Möslinger, fondato sulla proprietà che ha il cloruro di potassio a forte concentrazione, e in presenza del 20% di alcool, di provocare nel vino la precipitazione dell'acido tartarico sotto forma di bitartrato. La precipitazione s'effettua in presenza di un acido debole perciò si aggiunge acetato di potassio. I risultati si riferiscono a un litro di vino.
Determinazione dell'intensità colorante. - Consiste nel confrontare mediante il colorimetro di Duboscq il vino in esame con una soluzione tipo (1% di rosso Bordeaux), facendo variare nei due cilindri di vetro, di cui è munito il colorimetro, lo spessore delle colonne, attraversate dalla luce, fino a raggiungere la colorazione e illuminazione uniforme nelle due metà del campo. Gli spessori delle due colonne liquide, attraversate dalla luce, sono inversamente proporzionali alle rispettive intensità di colore. Una scala graduata, su un lato dello strumento, dà lo spessore delle colonne.
Ricerca delle materie coloranti estranee. - Fra le più comuni sofisticazioni dei vini, va compresa l'aggiunta di materie coloranti estranee, derivanti dal catrame o, se rossi, di coloranti vegetali diversi dall'enocianina, e, se bianchi, di caramello.
Vini rossi. - I coloranti artificiali derivati dal catrame possono essere di natura acida o basica. I metodi che si seguono per la loro ricerca sono quello di Arata per i coloranti di natura acida, quello di Girard per i basici. Il primo consiste nel fissare su lana, previamente sgrassata con etere, la materia colorante del vino e quella artificiale, eventualmente aggiunta, in presenza di pochi cmc. di soluzione al 10% di bisolfato potassico. Col metodo Girard si estrae la materia colorante basíca con alcool amilíco dal vino, reso fortemente alcalino per ammoniaca.
Vini bianchi. - I vini bianchi possono essere stati colorati con caramello, che si ricerca con il metodo di Jägerschmidt, che consiste nel trattare il vino con albumina, la quale viene poi separata completamemc per ebollizione a fuoco diretto.
Ricerca degli acidi minerali. - Si esegue per accertare nel vino la presenza di acido solforico, che, fra gli altri acidi, più frequentemente si aggiunge al vino. Risponde bene il metodo Quartaroli che consiste nel determinare la variazione di conducibilità elettrica, che viene a verificarsi in un vino, addizionato di acidi minerali, allorché si aggiungono piccole quantità di alcali. I. a ricerca si esegue con il ponte di Wheatstone (modificazione Kohlrausch).
Determinazione dei solfati. - Si dosano da aliquote parti di vino (100 cmc.), precipitandoli a caldo e in presenza di acido cloridrico con soluzione di cloruro di bario.
Determinazione dei cloruri. - Si segue il metodo ponderale, oppure il volumetrico.
Metodo ponderale. - l cloruri contenuti nel vino si precipitano con soluzione di nitrato di argento, dopo averne incenerito una parte aliquota (50 cmc.) e averne ripreso le ceneri con acqua acidulata con acido nitrico.
Metodo volumetrico. - Lisciviate ripetutamente le ceneri del vino con soluzione di acido nitrico, il liquido di lisciviazione si titola con il metodo tli Wolhard, trattandolo con soluzione in eccesso di nitrato di argento N 10 che precipita tutto il cloro. L'eccesso della soluzione di nitrato di argento N 10 a sua volta si titola con soluzione N 10 di solfocianato ammonico, in presenza, quale indicatore, di allume ferrico ammoniacale.
Ritcerca e determinazione degli antifermentativi. - Nella tecnica enologica, per la conservazione dei vini vengono adoperati diversi tipi di antifermentativi, di cui i più in uso sono: l'anidride solforosa, l'acido salicilico e l'acido borico.
Determinazione dell'anidride solforosa. - Si seguono due procedimenti secondo che si tratta di vini bianchi o di vini rossi.
Per i vini bianchi si determina l'anidride solforosa totale e quella libera. Nel dosaggio dell'anidride solforosa totale va applicato il metodo di Ripper-Schmitt, consistente nella titolazione con soluzione a titolo noto (N/50) di iodio, in presenza di salda d'amido e di acido solforico (10 cmc. 1:4) dell'anidride solforosa che si libera da parte aliquota di vino (50 cmc.) per azione di 25 cmc. di potasia caustica al 58‰.
Il dosaggio dell'anidride solforosa libera si esegue direttamente versando nel vino una data quantità di soluzione titolata di iodio (N 50), che ossida l'acido solforoso. L'eccesso di iodio non consumato nell'ossidazione si titola con soluzione d'iposolfito, titolata rispetto allo iodio.
Nei vini rossi si determina l'anidride solforosa totale e quella combinata.
Per il dosaggio dell'anidride solforosa totale si utilizza il metodo di Haas. Esso si basa sull'ossidazione, sempre a mezzo dello iodio, dell'anidride solforosa, che s'effettua dopo distillazione in corrente di anidride carbonica di 100 cmc. di vino, aggiunto di 5 cmc. di acido fosforico sciropposo, e nel precipitare il prodotto dell'ossidazione dell'anidride solforosa, l'acido solforico, come solfato di bario, con soluzione di cloruro di bario.
Il dosaggio dell'anidride solforosa combinata (metodo Mathieu-Billon) consiste nell'allontanare dapprima l'anidride solforosa libera esistente nel vino ossidandola con soluzione titolata di iodio, il cui eccesso, a sua volta, si scompone con soluzione di arsenico sodico di egual concentrazione; indi nello spostare dal vino per distillazione, in corrente di anidride carbonica, l'anidride solforosa combinata, che si raccoglie su soluzione di iodio, dove, come per la determinazione dell'anidride solforosa totale nei vini rossi, a sua volta, viene ossidata ad acido solforico, che si precipita a solfato di bario, con cloruro di bario.
Ricerca dell'acido salicilico. - L'acido salicilico si estrae dal vino previamente acidulato con 4 o 5 cmc. di acido solforico diluito, con miscela a parti eguali (50 cmc.) di etere solforico e di etere di petrolio, e si caratterizza dopo aver distillato il liquido etereo e averne ripreso il residuo con pochi cmc. di acqua distillata, con soluzione di cloruro ferrico o anche di allume ferrico ammoniacale, i quali reagiscono con l'acido salicilico, dando una colorazione violacea.
Ricerca dell'acido borico. - Si ricerca nelle ceneri del vino, riprese con soluzione cloridrica, con carta alla curcumina che, per la presenza di acido borico, si colora in rosso aranciato; a conferma, per azione di qualche goccia di soluzione al 2% di carbonato sodico, la carta passa ad azzurro nerastro.
Giudizio sulla genuinità d'un vino. - Se la ricerca di sostanze estranee illecitamente aggiunte a un vino è relativamente facile applicando i metodi sopraindicati, non altrettanto può dirsi per le adulterazioni, che consistono nell'aggiunta di altre sostanze, facenti parte della composizione dei vini naturali. La più comune e abbondante di esse è l'acqua, ed è perciò che la frode dell'annacquamento è fra le più antiche e diffuse. In minor misura si praticano le aggiunte abusive di alcool e di zuccheri. Per scoprire tali frodi si seguono varî metodi, non sempre però facili né sicuri. Uno dei migliori sarebbe quello di confrontare la composizione del vino sospetto con quella di vini sicuramente genuini della stessa annata, della stessa località di produzione, nonché ottenuti dagli stessi vitigni. Ma non è sempre possibile disporre di tali dati analitici. Ecco perché spesso si ricotre ad altri indizî, di valore però soltanto limitato.
Giudizio sull'annacquamento del vino. - Esso può basarsi su varî metodi.1. Ricerca dei nitrati: poiché i vini genuini sono normalmente privi di nitrati, mentre molte acque ne contengono quantità sensibili, questo può essere un buon indizio; non però sicuro, perché varie acque sono poverissime di tali sali, e, d'altronde, questi scompaiono se aggiunti ai mosti prima della fermentazione. 2. Quantità di estratto secco: lo scarso tenore d'estratto secco, detratto lo zucchero (meno di gr. 21 per litro nei vini rossi, meno di 16 gr. nei vini bianchi) può essere un altro indizio di annacquamento; ma in vini molto ricchi d'estratto tale frode può essere praticata moderatamente senza che possa in questo modo scoprirsi. 3. Somma alcool + acidità totale (regola del Gautier): poiché nei vini per lo più questi due componenti sono fra loro in rapporto inverso, la somma alcool per 100 in volume + acidi (in acido solforico per litro) oscilla di solito entro certi limiti (per lo più fra 12,5 e 19). Se è inferiore a 12,5, il vino può sospettarsi annacquato; ma è facile eludere questo controllo. 4. Rapporto e regola di Halphen: consiste nel rapporto fra l'acidità fissa per litro espressa in acido solforico, aumentata di o,7, e il grado alcoolico in volume per Ioo cmc. Questo rapporto nei vini genuini dovrebbe essere maggiore di 1, 160-0,07 g (dove g è il grado alcoolico del vino). Ma tale regola, dedotta dall'analisi di vini francesi, è di scarso valore per quelli italiani. Venne anche sperimentata la solubilità nel vino del cremortartaro (D. Pagnotta, U. Pratolongo); la conducibilità elettrica dei vini (L. Casale): ma nessuno di questi metodi ha valore assoluto; ed è perciò ancor meglio, se possibile, il confronto con la composizione di vini di sicura genuinità.
Giudizio sull'aggiunta di alcool. - Si può basare sul peso specifico; quando questo sia inferiore al normale, si può sospettare che si sia fatta tale aggiunta. Oppure sul rapporto fra glicerina e alcool: se esso è inferiore al 7% v'è possibilità d'aggiunta di alcool, ma questa non può escludersi anche con una maggiore percentuale di glicerina. Lo stesso si dica per il rapporto fra l'alcool in peso per litro di vino e il peso dell'estratto ridotto (cioè detratto lo zucchero e il solfato di potassio): se tale rapporto è inferiore a 4,5 si può ritenere che non sia stato aggiunto alcool.
Giudizio sull'aggiunta di zuccheri. - Se è stato aggiunto saccarosio, poiché i vini naturali non ne contengono, è facile svelarlo (sempre prima che esso fermenti del tutto) con un saggio polarimetrico, il quale, dopo l'inversione, darà una deviazione a sinistra: se è stato aggiunto glucosio, si avrà una deviazione a destra. Ma se gli zuccheri sono del tutto fermentati, riesce assai difficile rilevarli: si possono però in tal caso ricercare le impurità del glucosio (destrina, ecc.).
Bibl.: Trattati d'enologia generale e di enochimica: E. Pollacci, Monografia sulla vinificazione, ossia la teoria e la pratica dell'enologia, Genova 1871; A. Carpenè, Sunto teorico-pratico di enologia, Torino 1876; O. Ottavi, Enologia teorico-pratica, Casale 1882; E. Comboni, Trattato di enochimica, Milano 1882; J. Wortmann, Die wissenschaftlichen Grundlagen der Weinbereitung und Kellerwirtschaft, Berlino 1905; P. Dutoit e M. Duboux, L'analyse des vins par volumétrie physicochimique, Losanna 1912; P. Pacottet, Vinification, Parigi 1908; A. Marescalchi, Manuale dell'enologo e del cantiere, Casalmonferrato 1913; F. A. Sannino, Trattato completo di enologia, 2ª ed., Torino 1920; F. v. Babo e E. Mach, Handbuch des Weinbaues und Kellerwirtschaft, II: Kellerwirtschaft, 5ª ed., Berlino 1922; C. Mensio e C. Forti, Enologia, Torino 1928; F. Carpentieri, Enologia teorico-pratica (12ª ed. dell'Enologia di O. Ottavi), Casalmonferrato 1931; G. Paris, Principii teorici di tecnica agraria, I: L'industria enologica, Perugia 1931; II: I metodi d'analisi e di investigazione del mosto d'uva, del vino e dei prodotti tartarici, Perugia 1934. - Sui singoli argomenti riguardanti l'enologia e le industrie affini si potranno utilmente consultare la Biblioteca agraria Ottavi e i Manuali Marescalchi, che si pubblicano a Casalmonferrato.
Vini medicinali.
Detti anche tinture vinose; preparazioni farmacologiche ottenute per soluzione o per macerazione (meno spesso per lisciviazione) per la massima parte da sostanze vegetali secche, tagliuzzate e polverizzate (fresche per le piante antiscorbutiche che perderebbero i loro principi attivi con l'essiccazione), adoperando vini rossi per le tinture di sostanze astringenti e tanniche la cui azione è aumentata dal tannino del vino; vini bianchi quando dette sostanze contengono principî (per es., oppio), che precipitano con l'acido tannico; soluzioni liquorose contenenti oltre il 15% di alcool (per es., marsala) per le sostanze contenenti abbondanti quantità di resine e facilmente alterabili. Nel commercio e nelle varie farmacopee si trovano numerosi tipi di vini medicinali. La farmacopea italiana (5ª ed., 1929), registra solo i seguenti: vino di boldo (vinum boldi: estratto fluido di boldo parti 50, vino di marsala 900, tintura di arancio amaro 50); vino di china (vinum cinchonae: estratto fluido di china parti 50, vino di marsala 950); vino di china ferruginoso (vinum cinchonae ferratum: estratto di malato di ferro parti 20, vino di china 980); vino di condurango (vinum condurango: estratto fluido di condurango parti 50, vino di marsala 940, tintura d'arancio amaro 10); vino di cascara sagrada (zinum rhamni purshianae: estratto fluido di cascara sagrada deamarizzato parti 200, vino di marsala 750, tintura d'arancio amaro 50); vino con rabarbaro (vinum rhei: estratto fluido di rabarbaro parti 50, vino di marsala 900, tintura d'arancio amaro 50).