Abstract
Viene esaminata la struttura del delitto di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario. In particolare, si analizza la fattispecie in esame al fine di mettere in rilievo le peculiarità che la contraddistinguono e ne giustificano l’autonomia ed il maggior rigore sanzionatorio rispetto alle ipotesi generale di cui agli artt. 336 e 337 c.p.
L’art. 338 c.p. punisce con la pena della reclusione da uno a sette anni «chiunque usa violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una rappresentanza di esso, o ad una qualsiasi pubblica Autorità costituita in collegio, per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o per turbarne comunque l’attività».
Il secondo comma stabilisce poi che soggiace alla medesima pena chi «commette il fatto per influire sulle deliberazioni collegiali di imprese che esercitano servizi pubblici o di pubblica necessità, qualora tali deliberazioni abbiano per oggetto l’organizzazione o l’esecuzione dei servizi».
Trattasi questa di disposizione che, nella sua attuale fisionomia, trova il suo antecedente nell’art. 188 del codice Zanardelli (come segnalano Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, V, Torino, 1982, 490, nonché, più di recente, Pasella, R., Violenza e resistenza a pubblico ufficiale, in Dig. pen., XV, Torino, 1999, 250) che puniva infatti «chiunque usa violenza o minaccia per impedire o turbare le adunanze o l’esercizio delle funzioni di corpi giudiziarii, politici o amministrativi, o delle loro rappresentanze, o di altreAutorità, di ufficii o istituti pubblici, ovvero per influire sulle loro deliberazioni».
Non si tratta di una norma innovativa, riprendendo essa il disvalore dell’ipotesi generale di cui agli artt. 336 e 337 c.p., salvo apprestare una tutela rafforzata a determinati organi della p.a. per l’indubbio maggior rilievo ad essi riferibile, non tanto per il ruolo rivestito, quanto in relazione ai poteri esercitati.
L’interesse tutelato dalla norma è, secondo il condivisibile e più diffuso orientamento, il normale funzionamento della p.a. ed, in particolare, la libertà di azione e di determinazione dei suoi organi contro ogni forma di coartazione (Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati, in Commentario sistematico, II ed., Milano, 2002, 42; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, Bologna, 2002, 287; Sforzi, M., Violenza, minaccia o resistenza all’autorità, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 927;Seminara, S., sub 338, inComm. breve cod. pen. Crespi-Forti-Zuccalà, Padova, 2003, 982; Bondi, A., I delitti di violenza, minaccia, resistenza a un agente politico, in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., Reati contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 2004, 319; Pasella, R., sub art. 338 c.p., in Dolcini, E.-Marinucci, G., a cura di, Codice penale commentato, Milano, 2011, 3492). In tale prospettiva, la norma tutela non il singolo pubblico agente in quanto tale, personalmente considerato, ma l’organo visto nella sua astrazione.
Trattasi di punto di vista che rilegge l’oggettività giuridica della fattispecie de qua in un’ottica costituzionale, incentrando la stessa proprio sulla regolarità dell’attività amministrativa e sulla necessità che quest’ultima non sia condizionata ab externo ed in modo indebito nella sua libertà di azione e di determinazione.
La valorizzazione di bene facente capo alla p.a., e che si rivela assorbente rispetto agli interessi privati facenti capo ai soggetti che esercitano la funzione, permette di cogliere l’autonomia del delitto rispetto alle ipotesi generali di cui agli artt. 336 e 337 c.p. e, al contempo, di giustificarne la collocazione nell’ambito del titolo relativo ai delitti contro la p.a. (Pasella, R., Violenza, cit., 250).
Deve invece dirsi ormai superata l’impostazione tradizionale che incentrava l’interesse, più che nel buon andamento della p.a., nel prestigio della stessa in senso lato (lo stesso Manzini, V., op. cit., 490, pur riconoscendo quale bene tutelato anche il prestigio della p.a., sottolinea come la norma garantisce particolarmente la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione dei pubblici ufficiali impersonalmente considerati e delle imprese esercenti servizi pubblici o di pubblica necessità; analogamente v. Riccio, G., Violenza o minaccia e resistenza alla pubblica amministrazione, in Nss. D.I., XX, Torino, 1957, 980). Il concetto di prestigio si rivela oltremodo generico ed evanescente e, in quanto tale, incapace di concretizzare un interesse tutelato compatibile con i principi costituzionali e tale da giustificare, al vaglio del principio di ragionevolezza, l’autonomia dell’ipotesi in oggetto, rispetto ai reati comuni di violenza privata e di minaccia, ed il più rigoroso trattamento sanzionatorio (cfr., fra gli altri, Pasella, R., Violenza, cit., 251; Forte, G., Violenza o minaccia contro un organo della P.A., in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., a cura di, Trattato di diritto penale, pt. spec., II, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 2008, 600).
Trattatasi di reato comune che può essere realizzato da chiunque, sia esso un privato (in questa ottica la giurisprudenza ha ritenuto responsabili del reato gli intermediari di un’associazione mafiosa, i quali, anche avvalendosi di emissari o portavoce, esercitavano pressioni su quattro giudici popolari componenti il collegio giudicante di una Corte d’assise, allo scopo di orientarne il giudizio in senso favorevole ad un imputato appartenente all'associazione medesima: in tal senso, cfr. Trib. Palermo, 6.2.2002, in Foro it., 2002, II, 504), un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio (Manzini, V., op. cit., 490; Riccio, G., op. cit., 980; Romano, M., op. cit., 42). Dibattuto è invece se possa considerarsi soggetto attivo il componente dell’organo collegiale cui la condotta attiva si rivolge (in senso negativo v. Seminara, S., op. cit., 982; Romano, M., op. cit., 42; Bondi, A., op. cit., 320; nel senso che può essere soggetto attivo del reato anche una delle persone che fanno parte del corpo medesimo, agendo lo stesso in questo caso come privato estraneo al corpo e che offende l’interesse della p.a., v. Riccio, G., op. cit., 980).
Soggetto passivo del reato è naturalmente la p.a. quale titolare dell’interesse tutelato.
Trattasi, tuttavia, di soggetto passivo in senso mediato posto che la condotta attiva si rivolge contro una delle sue articolazioni.
Soggetto passivo diretto è infatti l’organo considerato impersonalmente, nonché i suoi singoli componenti ove destinatari diretti della violenza o minaccia. Sul punto ha chiarito la giurisprudenza che il delitto in esame è configurabile anche nei casi in cui l’agente abbia minacciato un solo componente dell’organo collegiale, anche in assenza dello stesso organo collegiale riunito, venendo in rilievo la volontà dell’agente di minacciare, attraverso il singolo componente, l’intero organo collegiale allo scopo di impedirne o turbarne l'attività (Cass. pen., 17.1.2012, n. 5611).
In base all’estensione del secondo comma, possono essere soggetti passivi anche organi di imprese private, caratterizzate dall’esercizio di un pubblico servizio o di pubblica necessità.
Per corpo, sia questo politico, amministrativo o giudiziario, deve intendersi un'autorità collegiale che eserciti una delle suddette funzioni, in modo da esprimere una volontà unica tradotta in atti che siano riferibili al collegio e non ai singoli componenti che alla formazione di tale volontà concorrono (Cass. pen., 14.1.2000, in Cass. pen., 2001, 890, che ha escluso dalla nozione un Comando provinciale dell’Arma dei Carabinieri; Cass. pen., 18.5.2005, n. 32869; più di recente v. Cass. pen., 5.4.2012, n. 18194, che ha escluso dai soggetti passivi l’assessore comunale, in quanto quest’ultimo non è organo collegiale, né ha una sua rappresentanza, nel senso che non gli è attribuito il potere di agire in nome e per conto del collegio).
Corpi politici sono quelli che svolgono una funzione politica, come i seggi elettorali e le commissioni degli uffici elettorali politici. Devono, viceversa, escludersi dalla categoria in quanto già tutelati dal diverso e ben più grave delitto di cui all’art. 289 c.p., le assemblee legislative, le assemblee regionali, il Governo e la Corte Costituzionale (cfr. Manzini, V., op. cit., 491; Riccio, G., op. cit., 980; Seminara, S., op. cit., 982; in tal senso si esprimeva già la Relazione ministeriale sul progetto di codice penale, II, 146).
Corpi amministrativi, vale a dire quelli che esercitano una funzione amministrativa, sono invece il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, i vari consigli superiori e commissioni centrali, i consigli e le giunte provinciali, regionali e comunali. In sostanza vi rientrano tutte le collettività che, a vario titolo, fanno parte dello Stato o dell’amministrazione statale indiretta, mediante le quali essa normalmente funziona (Cass. pen., 3.12.1996, in CED Cass., n. 207865) o che per legge hanno cura di pubblici affari amministrativi (riconduce nella categoria l’ordine degli avvocati e i relativi consigli Cass. pen., 13.7.1989, in Resp. civ. prev., 1990, 829; la Cassa marittima meridionale, Cass. pen., 2.4.1986, in Riv. pen., 1987, 276).
Corpi giudiziari sono tutte le magistrature collettive costituite per l’amministrazione della giustizia, permanenti o temporanee, comuni o speciali, considerate indipendentemente dai collegi che di essa fanno parte.
Le rappresentanze di corpi sono le collettività (nel senso che la rappresentanza può costituirsi in un singolo emissario v. Romano, M., op. cit., 45) che per legge o per mandato dei corpi stessi, ne costituiscono una rappresentanza, in quanto ne fanno parte e sono dotate di una qualsiasi funzione pubblica, sia essa permanente o temporanea, discrezionale o esecutiva, di iniziativa, di inchiesta, di esecuzione ecc. Devono trattarsi di collettività che non costituiscono dei corpi esse stesse.
Si è peraltro precisato in giurisprudenza che, ai fini della individuazione di una rappresentanza, occorre che ad essa sia attribuito il potere di agire in nome e per conto dell’organo che essa rappresenta (Cass. pen., 18.5.2005, in CED Cass., n. 231661).
Autorità costituite in collegio devono intendersi i pubblici uffici collegiali indipendentemente che essi appartengano a corpi politici, amministrativi o giudiziari dotati di funzioni deliberative o consultive e che possono agire soltanto con una attività collettiva (sul punto cfr. Pasella, R., Violenza cit., 253; Riccio, G., op. cit., 980). Quelli monocratici sono invece tutelati dagli artt. 336, 337 c.p. (Manzini, V., op. cit., 492).
In sostanza, quello che rileva è che si tratti di organo inteso come entità unitaria, considerato nell’integrità della composizione nella quale normalmente svolge le proprie funzioni, in modo da esprimere una volontà unica tradotta in atti riferibili al collegio e non ai singoli componenti che concorrono alla formazione di tale volontà.
Infine, per imprese esercenti servizi pubblici o di pubblica necessità devono intendersi quelle che realizzano ogni attività, accessoria ad una pubblica funzione, volta al soddisfacimento di fini di utilità sociale ed esercitata direttamente dallo Stato, da altri enti pubblici o anche da privati.
Sono tutelate dalla norma solo le deliberazioni collegiali riguardanti l’organizzazione e l’esecuzione dei servizi. In assenza di una deliberazione collegiale il fatto può integrare solo il reato previsto dall’art, 610 c.p. (in tal senso v. Manzini, V., op. cit., 493; Riccio, G., op. cit., 980; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 289; Seminara, S., op. cit., 983).
In relazione alla condotta materiale del reato occorre distinguere a seconda che la condotta sia realizzata contro un corpo, una rappresentanza, una pubblica Autorità costituita in collegio ovvero contro le delibere degli organi collegiali delle imprese. Nel primo caso la condotta consiste nell’usare violenza o minaccia nei confronti del soggetto passivo finalizzate ad impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o anche, più semplicemente, a turbarne comunque l’attività, nel secondo caso, invece, si fa riferimento alla condotta di violenza o minaccia finalizzata ad influire sulla emanazione della delibera collegiale.
Tralasciando l’analisi dei concetti di violenza o di minaccia (per la disamina dei quali si veda la specifica trattazione dedicata agli artt. 336 e 337 c.p. e, in dottrina, da ultimo, Gatta, G.L., La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013, 17 ss.), va in questa sede evidenziato che assumerà rilevanza ogni condotta violenta o minacciosa che sia non solo diretta ma anche idonea a realizzare l’intento espresso nella norma.
È stato così affermato che integra il delitto in esame la minaccia, pure contenuta in un’espressione allusiva, che sia in concreto idonea ad incutere il timore di subire un danno ingiusto, non rilevando se il destinatario resista alla minaccia. Si è poi precisato che l’idoneità del comportamento intimidatorio deve essere valutata con riguardo alle circostanze di fatto e quindi, innanzitutto, in relazione al contesto socio-ambientale, sicché anche semplici raccomandazioni o sollecitazioni possono assumere un significato fortemente minaccioso, se inserite in una situazione caratterizzata da rilevanti fenomeni di condizionamento violento o intimidatorio della libertà degli organismi pubblici e delle volontà delle persone (cfr. Cass. pen., 4.11.2005, n. 3828).
Non è inoltre necessario che la violenza o la minaccia siano esercitate contro l’intero corpo o collegio, bastando a concretare il reato anche la condotta che riguardi un solo elemento della collettività ma che si rifletta in modo diretto ed immediato sul funzionamento dell’intero organo (Cass. pen., 14.10.1994, in CED Cass., n. 201076).
Si è in questa prospettiva ritenuta la sussistenza del reato nella condotta di alcuni soggetti appartenenti a “Cosa Nostra” che avevano avvicinato dei giudici popolari del collegio di Corte d’assise, impegnato in un dibattimento, con il pretesto della preoccupazione umanitaria per le precarie condizioni di salute dell’imputato, in cui favore avevano sollecitato la concessione di un permesso per cure, determinando l’astensione di detti giudici popolari dalla partecipazione al collegio giudicante (Cass. pen., 4.11.2005, cit.). Si è invece escluso il reato nel caso in cui l’aggressione al singolo magistrato non fosse tale da incidere sul funzionamento dell’intero collegio (Cass. pen., 18.5.2005, in CED Cass., n. 231661).
Allo stesso modo, la violenza esercitata sulle cose potrà considerarsi mezzo idoneo al delitto quando si presenti come violenza al corpo o al collegio (Manzini, V., op. cit., 494).
Per l’integrazione del reato non occorre che il turbamento, l’impedimento o l’influenza siano effettivamente realizzate (Seminara, S., sub art. 338, in Comm. breve cod. pen. Crespi-Stella-Zuccalà, Padova, 2003, 983; in giurisprudenza cfr. Cass. pen., 14.10.1994, in CED Cass., n. 201076).
Il reato viene a configurarsi a prescindendo dal fatto che la condotta si sia realizzata prima o durante lo svolgimento dell’attività funzionale da parte del corpo, del collegio ecc., tutelando la norma ad ampio raggio la libertà di azione degli organi della p.a.
Trattasi di reato a dolo specifico dove la violenza o la minaccia non sono punite in quanto tali ma allorché siano idonee a realizzare un pericolo per il bene giuridico tutelato.
In tali termini non può che rilevarsi nel caso in esame l’uso di una tecnica di anticipazione della tutela penale, caratterizzata dal fissare la soglia del penalmente rilevante già in relazione alla direzione della condotta verso un obiettivo che non è necessario sia concretamente realizzato.
In quest’ottica, le condotte di violenza o minacce, che non perseguono gli obiettivi fissati dalla legge, non integrano il reato in oggetto. Si pensi così alle violenze o alle minacce dirette a protestare o censurare, o ai semplici clamori o ancora agli oltraggi, a prescindere che esse abbiano avuto come conseguenza l’impedimento, il turbamento o la coartazione del corpo o dell’organo (in tal senso v. Seminara, S., op. cit., 983).
La locuzione «per impedirne» fa riferimento alla libertà di agire in genere e si ricomprende tanto la possibilità di intraprendere l’esercizio funzionale, quanto lo svolgimento dell’attività, qualunque carattere essa abbia.
Il turbamento fa invece riferimento alla produzione di condizioni oggettive o soggettive tali da alterare il normale e tranquillo andamento delle adunanze o lo svolgimento delle funzioni. In altre parole, l’alterazione del normale svolgimento dell’esercizio delle funzioni.
La locuzione «influire sulle deliberazioni» prevista al comma secondo della norma concerne ogni tipo di pressione o coartazione della volontà dispositiva dell’organo (Romano, M., op. cit.,45).
Ai fini dell’integrazione del reato, è necessaria anche la rappresentazione e la volizione di tutti gli altri elementi della fattispecie, vale a dire la coscienza e volontà dell’agente di dirigere la minaccia o la violenza a un corpo o ad uno degli altri soggetti passivi del reato per realizzare uno degli scopi fissati dalla norma.
Essendo il turbamento, l’impedimento o l’influenza oggetto del dolo specifico non è necessario che gli stessi si realizzino concretamente quali conseguenza della condotta. Ciò comporta che il reato si consuma già nel momento in cui sia realizzata la condotta avente i requisiti oggettivi sopra individuati (analogamente v. Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 289). Ne consegue che anche laddove l’agente non riesca a realizzare lo scopo prefissato il reato dovrà considerarsi consumato.
Nel caso in cui la condotta si esprima nei termini della minaccia è necessario ai fini della consumazione che la stessa sia percepita dal soggetto cui è rivolta, assumendo in tal modo i connotati della idoneità (analogamente, v. Bondi, A., op. cit., 343).
Senz’altro deve ritenersi ammissibile il tentativo in quanto, da una parte, si tratta di reato con condotta naturalisticamente frazionabile, e, dall’altra, sussiste una indiscutibile esigenza di tutela del bene finale anche in relazione a quegli atti idonei ed univocamente diretti a realizzare il delitto.
Il delitto in esame si distingue da quello di cui all’art. 336 c.p. perché quest’ultimo si dirige contro la persona dei singoli pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio, mentre il primo è diretto contro gli organi pubblici impersonalmente considerati (Seminara, S., op. cit., 982; Pasella, sub art. 338, cit., 3492). Inoltre, mentre il delitto di cui all’art. 336 fa riferimento solo ai fatti diretti alla coartazione, l’art. 338 c.p. prende in considerazione anche fatti diretti alla semplice perturbazione dell’attività funzionale (Manzini, V., op. cit., 490; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 258).
Va infine evidenziato che l’ipotesi in commento, a differenza di quanto accade in relazione alle fattispecie di cui agli artt. 336 e 337 c.p., prende in considerazione unitariamente le condotte di violenza o di minaccia prima o durante il compimento dell’atto espressione dell’ufficio o del servizio.
In relazione al reato di lesioni personali, in giurisprudenza si afferma comunemente che il delitto in oggetto assorbe solo quel minimo di violenza che si concreta nelle percosse, precisando che qualora la violenza trasmodi, divenendo causa di lesione personale, l’agente deve rispondere anche delle lesioni cagionate (Cass. pen., 20.11.1969, in CED Cass., n. 114361).
Artt. 336, 337 e 338 c.p.
Bondi, A., I delitti di violenza, minaccia, resistenza a un agente politico, in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, 319; Del Giudice, A., Violenza e resistenza a pubblico ufficiale, in D.I., XXIV, Torino, 1921, 1140ss.; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale,pt. spec., I, Bologna, 2002, 287; Forte, G., Violenza o minaccia contro un organo della P.A., in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., a cura di, Trattato di diritto penale, pt. spec., II, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 2008, 600 ss.; Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, V, Torino, 1982, 490; Pasella, R., Violenza e resistenza a pubblico ufficiale, in Dig. pen., XV, Torino, 1999, 250; Pasella, R., sub art. 338 c.p., in Dolcini, E.-Marinucci, G., a cura di, Codice penale commentato, Milano, 2011, 3492;Riccio, G., Violenza o minaccia e resistenza alla pubblica amministrazione, in Nss. D.I., XX, Torino, 1957, 980; Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati, in Commentario sistematico, II ed., Milano, 2002, 42; Seminara, S., sub 338, inComm. breve cod. pen. Crespi-Forti-Zuccalà, Padova, 2003, 982; Sforzi, M., Violenza, minaccia o resistenza all’autorità, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 927.