I mezzi di comunicazione internazionali, nel riferirsi al contesto messicano, ricorrono sempre più spesso all’associazione tra violenza politica e narcotraffico. Altrettanto avviene negli ultimi rapporti di organismi del calibro della Commissione inter-americana di diritti umani, Human Rights Watch e Amnesty International, o di istituzioni quali il Congresso nordamericano e il parlamento europeo. In tutti questi casi è evidente come la percezione della violenza in Messico, prima circoscritta ai cartelli della droga, comincia ad abbracciare le istituzioni dello stato incaricate di combatterla. Se già da tempo la comunità internazionale ha espresso preoccupazione per l’aumento delle cosiddette ‘vittime collaterali’, quali sono ora i fattori che spingono sempre più ad interpretare come politica una violenza che potrebbe continuare ad essere letta e trattata – rifacendosi alla versione ufficiale del governo messicano – come problema di pubblica sicurezza?
La feroce competizione per il controllo del mercato illegale tra i principali raggruppamenti criminali viene richiamata comunemente come causa degli omicidi (130.000), delle sparizioni (26.000) e dell’esodo massivo di persone (circa un milione) a partire dal 2006, anno in cui l’ex presidente della repubblica federale, Felipe Calderón Hinojosa, del Partido de Acción Nacional (PAN) rappresentante la destra messicana, dichiarò guerra al narcotraffico. Tuttavia, le numerose prove dell’infiltrazione del crimine organizzato negli apparati dello stato, e il coinvolgimento di membri delle forze armate e della polizia in pratiche di tortura, assassinio e sparizione forzata di presunti delinquenti (ma anche di attivisti politici, difensori di diritti umani e giornalisti), ha minato seriamente la credibilità di una versione politica ufficiale basata sulla chiara e definita separazione tra governo e criminalità.
L’attuale governo si è riproposto fin dall’inizio del suo mandato di fronteggiare il problema dimostrando la solidità istituzionale e rimuovendo dall’agenda politica il tema della violenza, per concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle riforme strutturali concordate con il resto delle forze politiche nel segno del ‘Patto per il Messico’. Tuttavia, l’incremento della violenza e il sospetto di nuovi scandali di corruzione, che vedono implicati tanto il presidente quanto il suo gabinetto, hanno reso opaca la sua strategia.
In generale, si potrebbe affermare che la violenza politica, nel contesto messicano attuale, è il prodotto sia della crescente criminalizzazione della povertà e del dissenso sociale, sia della ferrea volontà dei cartelli della droga di garantire e proteggere direttamente i propri interessi, agendo dall’interno degli apparati statali. Sono tragicamente numerosi gli episodi a dimostrazione di quanto detto ed alcuni di questi meritano di essere citati per il modo in cui palesano a livello internazionale la questione della violenza politica nel contesto della lotta al narcotraffico. La sparizione il 26 settembre 2014 degli studenti della scuola normale rurale di Ayotzinapa, Guerrero (sud-est del Messico) è senza dubbio, uno di questi.
A distanza di quasi dieci anni dalla dichiarazione ufficiale di guerra ai cartelli della droga, si sono registrati numerosi episodi di violenza quali sequestri, stragi e inumazioni clandestine di centinaia di cadaveri non identificati, come nel caso del sequestro e assassinio di 72 migranti centroamericani a san Fernando, Tamaulipas (nord del Messico), nell’agosto del 2010. Tuttavia, l’attacco, il sequestro e la successiva sparizione dei 43 studenti di Ayotzinapa mostra – forse come nessun altro episodio – il grado di infiltrazione mafiosa che esiste in alcuni stati della repubblica federale messicana. I reati in questione, infatti, non sono stati commessi da elementi deviati delle forze dell’ordine, ma rivelano l’azione coordinata delle autorità civili, della polizia municipale e del cartello ‘Guerreros Unidos’.
Recentemente il gruppo inter-disciplinare di esperti indipendenti – istituito dalla Commissione inter-americana di diritti umani, per fare chiarezza sull’accaduto e capire dove sono stati occultati gli studenti scomparsi – ha provato che l’ex governatore dello stato di Guerrero, Ángel Aguirre, e il gabinetto di sicurezza nazionale, che include i ministri di interni e difesa, era venuto a conoscenza di ciò che stava accadendo. Questo fatto non implica necessariamente che le collusioni raggiungano livelli così alti, però alimenta seriamente il dubbio sulla capacità dello stato di garantire sicurezza ai propri cittadini. Dubbio ancor più legittimo considerato che le prime reazioni ufficiali si sono avute non prima di un mese dall’accaduto e solo in seguito a numerose manifestazioni in Messico e in altri paesi.
Nel 2010 il governo statunitense concesse asilo politico ad un giornalista messicano, Jorge Luis Aguirre, quando fu dimostrato che le minacce di morte, dirette a lui e alla famiglia, provenivano direttamente dal governo dello stato di Chihuahua. Il giornalista affermò, dinnanzi al Comitato di giustizia del Senato nordamericano, che in Messico, quando giornalisti o cittadini criticano un cartello della droga in realtà criticano il governo locale e quando denunciano il governo locale stanno, generalmente a loro insaputa, criticando un cartello. I casi degli studenti di Ayotzinapa e delle decine di giornalisti esiliati (come Aguirre) o uccisi (55 dal 2010), sono le nefaste ma immediate ripercussioni che la situazione di violenza politica generalizzata ha sull’esercizio delle libertà democratiche fondamentali di espressione e di manifestazione pacifica del dissenso.