Violenza
La violenza è la tendenza abituale a usare la forza fisica o psicologica al fine di imporre la propria volontà. Dalla violenza intesa come forma estrema di aggressione, in tempi più recenti il termine è passato a significare ogni forma di influenza, condizionamento o controllo delle potenzialità pratiche e intellettuali degli esseri umani. Sono state proposte diverse spiegazioni causali del fenomeno: a quella classica basata sull'istinto, che vede la violenza come manifestazione di aggressività primordiale insita nella storia naturale del genere umano, la ricerca psicologica e sociologica più recente tende a sostituire un'interpretazione multicausale che fa riferimento ai fattori sociali e culturali, alle istituzioni e ai prodotti dell'attività umana, configurando la violenza come manifestazione oggettiva di processi di autoritarismo, repressione, esclusione e segregazione.
l. Definizione
L'attuale significato della parola violenza è molto vasto, certamente più di quanto prescriva la precisione del linguaggio scientifico. Innanzitutto per violenza si intende sia un tratto della personalità, cioè una disposizione più o meno costante a essere violenti, sia un'azione violenta. Nel primo caso il concetto di violenza è sovrapponibile a quello di aggressività (v.). Un'altra fonte di confusione va individuata nell'abitudine degli studiosi americani di scuola comportamentistica di riferirsi quasi sempre ai comportamenti violenti, prendendo poco in considerazione o non prendendola affatto la vasta gamma di puri e semplici stati mentali che non possono non essere definiti violenti e senza i quali non si potrebbero comunque avere azioni violente. La violenza è fondamentalmente un modo di pensare, sentire, mettersi in rapporto con gli altri. I comportamenti violenti non nascono in un vuoto psicologico ma derivano da pensieri, sentimenti, atteggiamenti, desideri violenti. Nella misura in cui si intende poi per violenza un'azione dannosa nei riguardi degli altri e contro la loro volontà, oppure la disposizione a compiere azioni di questo tipo, sorge anche il problema di come esattamente vadano intesi questi 'altri'. La violenza infatti si esercita a volte verso oggetti inanimati, che certamente non soffrono per il danno subito e non possiedono una volontà. Questo tipo di violenza può avere varie spiegazioni, una delle quali è indubbiamente il fenomeno chiamato dagli psicologi 'spostamento dell'aggressività'. Succede spesso che un individuo vorrebbe dirigere il proprio comportamento violento verso chi ha provocato la reazione aggressiva ma è in qualche modo inibito nei suoi riguardi, per es. perché si tratta di qualcuno (essere umano o animale) più forte di lui e quindi temuto, oppure di qualcuno a cui è legato affettivamente. In tali casi è possibile che l'azione violenta venga spostata su un altro individuo o su un oggetto inanimato; in altri la violenza esercitata nei riguardi di un oggetto ha lo scopo di danneggiare il suo proprietario. Oppure il fatto che un oggetto non risponda alle aspettative di un individuo o gli produca dolore fisico può suscitare nei confronti dell'oggetto stesso una reazione violenta che potremmo definire di tipo animistico. Una distinzione accettata da tutti gli studiosi è quella fra violenza emozionale e violenza strumentale. La violenza emozionale è quella che consegue a uno stato di collera e ha come scopo la sofferenza di chi lo ha causato; può esercitarsi anche su oggetti inanimati, secondo le modalità a cui si è fatto riferimento. La violenza strumentale è una violenza a freddo, che ha come obiettivo non la sofferenza dell'individuo su cui viene esercitata, ma l'acquisizione di un oggetto (per es. denaro) o di uno status sociale. Importante è infine il concetto di violenza difensiva, che permette di distinguere chi dà inizio all'azione aggressiva da chi invece semplicemente reagisce a tale azione per difendere l'incolumità fisica, il benessere psicologico o i diritti suoi o di altri.
Nel 1986, in occasione dell'Anno internazionale della pace promosso dall'ONU, un gruppo di studiosi di vari paesi (psicologi, psichiatri, etologi, neurobiologi, antropologi e sociologi) si è riunito all'Università di Siviglia per effettuare una messa a punto delle conoscenze scientifiche disponibili sul problema della violenza. Ne è derivato un documento scientifico intitolato Dichiarazione di Siviglia sulla violenza, fatto proprio nel 1989 dall'UNESCO che ha creato una rete internazionale per la sua diffusione. Nella Dichiarazione di Siviglia si critica la concezione istintivistica dell'aggressività umana, secondo cui essa sarebbe determinata da fattori biologici e perciò inevitabile. Questa concezione deriva da tre principali orientamenti teorici della biologia e della psicologia ormai superati dalla ricerca. Il primo di questi orientamenti è incentrato sul concetto di istinto (v.). Per istinto si intende tradizionalmente uno schema comportamentale fisso, rigido, determinato geneticamente e quindi ereditario, caratteristico di una determinata specie, che non può essere modificato dall'esperienza e che è già pronto alla nascita dell'animale o all'inizio di quel periodo della sua vita in cui deve entrare in funzione. All'istinto si contrappone tradizionalmente l'apprendimento (v.), cioè la capacità di modificare il comportamento sulla base dell'esperienza. Per lungo tempo la dicotomia istinto/apprendimento ha dominato la psicologia, ma negli ultimi decenni del 20° secolo il concetto di istinto è entrato in crisi per quel che riguarda gli animali superiori. Da un lato, è sempre più messa in evidenza la capacità degli schemi comportamentali di modificarsi con l'esperienza. Si è rilevato che gli schemi comportamentali hanno spesso un nucleo centrale innato che assicura il loro funzionamento subito dopo la nascita o all'inizio di un determinato periodo della vita dell'animale, in modo da garantire un livello sufficiente di adattamento alle condizioni ambientali in cui l'animale deve vivere. Successivamente, a questo nucleo innato si aggiungono parti acquisite con l'esperienza che migliorano il funzionamento dello schema comportamentale e quindi aumentano il livello di adattamento alle condizioni ambientali. L'integrazione fra parti innate e parti acquisite di un sistema comportamentale è tale che spesso è difficile stabilire dove finiscono le une e dove cominciano le altre. Dall'altro lato, i risultati di molte ricerche hanno dimostrato l'esistenza di 'limiti biologici' dell'apprendimento. Si è visto cioè che vengono favoriti quei tipi di apprendimento che risultano utili per la sopravvivenza dell'animale nel suo ambiente naturale, mentre altri tipi che non sono utili per la sopravvivenza si verificano con difficoltà o non si verificano affatto, nonostante sembrino perfettamente alla portata delle capacità cognitive dell'animale. Questa duplice serie di risultati ha portato al superamento della netta dicotomia istinto/apprendimento e al riconoscimento di una profonda compenetrazione e di una sostanziale continuità fra i due meccanismi. Nel 1959 l'etologo inglese R.A. Hinde ha teorizzato questo superamento sostituendo al dualismo 'innato/acquisito' il dualismo 'ambientalmente stabile/ambientalmente labile'. Hinde ha considerato ambientalmente stabili i caratteri biologici il cui sviluppo è poco influenzato dalle condizioni ambientali, e ambientalmente labili i caratteri biologici il cui sviluppo è molto influenzato da tali condizioni. Esisterebbe un continuum fra i due tipi di caratteri, con gradi diversi di dipendenza dalle condizioni ambientali. Sul piano psicologico, ambientalmente stabili devono considerarsi i comportamenti tradizionalmente definiti istintivi e ambientalmente labili quelli tradizionalmente definiti appresi.
In conclusione la maggior parte degli psicologi e degli etologi è oggi d'accordo nel ritenere assolutamente inadeguato l'uso del concetto di istinto nella specie umana. Di fatto nella nostra specie non esistono sistemi comportamentali che non possano in qualche modo essere modificati dall'esperienza. Il secondo degli orientamenti teorici della biologia e della psicologia da cui è derivata la concezione istintivistica dell'aggressività umana riguarda un modo sbagliato di enunciare la teoria dell'evoluzione. Si sostiene ancora spesso che nella lotta per la vita vince il più forte, intendendo per più forte il più aggressivo. In realtà la teoria dell'evoluzione, enunciata correttamente, parla di sopravvivenza del più adatto, e precisamente del più adatto alle condizioni ambientali nelle quali deve vivere. L'enunciazione scorretta della teoria dell'evoluzione ha indotto molti a pensare che ci sia stata una selezione naturale dell'aggressività maggiore di quella di qualsiasi altro aspetto del comportamento. Questo non è assolutamente vero. Le ricerche degli psicologi comparati e degli etologi hanno dimostrato che nelle specie animali sociali altrettanto importante dell'aggressività è la cooperazione. La selezione naturale opera in modo da garantire un equilibrio fra l'aggressività e la cooperazione. Nelle specie che vivono in gruppi organizzati gerarchicamente gli individui dominanti manifestano tanto una notevole aggressività quanto una forte capacità di cooperare con gli altri e di svolgere certe funzioni utili alla sopravvivenza del gruppo.
La teoria dell'evoluzione, quindi, non offre alcun sostegno alla tesi secondo cui l'alto livello di aggressività nella specie umana sarebbe l'inevitabile risultato della selezione naturale. A questo proposito, d'altronde, è opportuno chiarire che è molto diffusa anche una versione scorretta del concetto di determinazione genetica. I geni, infatti, possono influenzare ma non possono in nessun caso determinare direttamente i caratteri psicologici. I geni controllano la produzione di enzimi al livello cellulare e forniscono solo un potenziale che interagisce con le condizioni ambientali. È in ogni caso assurdo, quindi, parlare di determinazione genetica dell'aggressività. Infine, un valido sostegno alla concezione istintivistica dell'aggressività umana è venuto dai cosiddetti modelli energetici del sistema nervoso. Si tratta di costruzioni teoriche sorte in epoca positivista che hanno mutuato dalla fisica i loro concetti fondamentali. Quantunque diversi nei vari autori, questi modelli hanno tutti in comune l'idea di un'energia psichica prodotta incessantemente dall'organismo, continuamente accumulata e scaricata.
Il modello energetico del sistema nervoso più elaborato è quello di K. Lorenz (1950). L'etologo austriaco ha distinto vari tipi di energia psichica, che ha chiamato 'energie specifiche d'azione'. A ogni comportamento istintivo corrisponde una particolare energia specifica d'azione e senza un'adeguata quantità di questa energia disponibile non è possibile alcun comportamento istintivo. L'esecuzione del comportamento porta all'esaurimento dell'energia corrispondente e quindi è necessario che si accumuli nuova energia perché l'esecuzione del comportamento sia di nuovo possibile. In generale ogni comportamento istintivo è innescato da particolari stimolazioni ma, se si è accumulata troppa energia, allora il comportamento si manifesta anche in assenza di queste stimolazioni. Si hanno così quelle che sono state chiamate 'attività a vuoto', in quanto si tratta di comportamenti che si verificano completamente al di fuori di un qualsiasi contesto che li giustifichi. I modelli energetici del sistema nervoso hanno portato alla sua massima espressione il carattere di inevitabilità della reazione aggressiva. Secondo la loro logica, infatti, l'organismo produce continuamente energia aggressiva che prima o poi deve essere scaricata. Come s'è detto, se si accumula troppa energia aggressiva l'individuo è costretto a comportarsi in modo aggressivo anche in assenza delle specifiche stimolazioni che di solito innescano le reazioni aggressive. Sempre secondo questa concezione, per evitare accumuli eccessivi di energia aggressiva, che potrebbero portare a scariche pericolose quali l'omicidio o la guerra, sarebbero consigliabili scariche periodiche in situazioni ritenute socialmente innocue, come i giochi competitivi, gli sport competitivi e la visione di spettacoli violenti al cinema e alla televisione. Queste situazioni servirebbero da salutari valvole di sicurezza e avrebbero una funzione catartica. Negli ultimi decenni del 20° secolo i modelli energetici del sistema nervoso sono stati ripetutamente invalidati dalla ricerca psicologica, etologica e neurofisiologica. La conclusione è tassativa: non esiste alcuna energia psichica, e in particolare non esiste alcuna energia aggressiva. Molte ricerche sono state effettuate anche sul presunto effetto catartico delle varie situazioni in cui si pensava che l'energia aggressiva si potesse scaricare in modo innocuo. I risultati di queste ricerche hanno dimostrato che tali situazioni non solo non fanno diminuire l'aggressività dell'individuo, come è previsto dai modelli energetici del sistema nervoso, ma la fanno aumentare. I modelli energetici del sistema nervoso sono stati sostituiti da quelli informazionali, secondo cui i sistemi comportamentali sono attivati da specifiche informazioni provenienti dall'ambiente esterno o dall'interno dell'organismo. I comportamenti che derivano da questa attivazione modificano l'ambiente (esterno o interno); informazioni su queste modificazioni arrivano al cervello e, con un meccanismo di feedback, i sistemi comportamentali vengono disattivati. Numerose ricerche condotte su studenti universitari hanno dimostrato che circa la metà di loro crede che la violenza e la guerra siano necessità biologiche e di conseguenza non è disposta a impegnarsi in attività di tipo pacifista. Le ragioni di questo atteggiamento sono ovvie: se qualcosa è inevitabile, è inutile sprecare tempo ed energie per evitarlo.
Si possono d'altronde facilmente capire le ragioni della grande diffusione della concezione istintivistica dell'aggressività umana. In primo luogo appare molto più facile accettare le spiegazioni semplici dei fenomeni, piuttosto che quelle complesse, e sostenere che la violenza è determinata da uno specifico istinto è una spiegazione molto semplice. Sostenere invece che essa è determinata da innumerevoli cause, come la ricerca scientifica va sempre più mettendo in evidenza, è una spiegazione complessa che richiede un notevole lavoro intellettuale per essere compresa. In secondo luogo la concezione istintivistica dell'aggressività umana porta a una deresponsabilizzazione morale. Se c'è un istinto aggressivo che non può fare a meno di manifestarsi, allora l'individuo aggressivo è moralmente giustificato, perché si trova di fronte a forze incontrollabili che inevitabilmente lo trascinano e di cui non può essere ritenuto responsabile. La terza ragione è di tipo ideologico. La concezione istintivistica dell'aggressività giustifica un modello competitivo di vita per cui ciascuno vede negli altri dei nemici, dei concorrenti. Così viene impedita una cooperazione effettiva fra gli individui a vantaggio dei sistemi di potere della nostra società. Inoltre la concezione istintivistica esime dall'affrontare e risolvere le più scottanti questioni sociali: miseria, ingiustizia, disoccupazione ecc. sono considerate conseguenze inevitabili della natura umana.
Nella Dichiarazione di Siviglia invece si sostiene che le cause della violenza sono socioculturali e non biologiche e che quindi la violenza non è inevitabile. Nel nostro cervello ci sono strutture che, se attivate da determinati tipi di stimolazioni, portano a reazioni aggressive. Ma queste reazioni non sono automatiche. Le parti più evolute della nostra corteccia cerebrale sono in grado di analizzare le stimolazioni e decidere se dare oppure non dare una risposta aggressiva. Questa possibilità di controllo dell'aggressività è già evidente nei Primati superiori. Se in certe specie di scimmie vengono stimolate elettricamente determinate zone del cervello che producono le reazioni aggressive, dette reazioni si verificano o non si verificano a seconda del contesto in cui la scimmia si trova. Di fondamentale importanza è la valutazione dei costi e dei benefici di una reazione aggressiva. In gruppi organizzati gerarchicamente, per es., l'animale reagisce aggressivamente alla stimolazione elettrica se in quel momento si trova vicino a un membro del gruppo di rango inferiore al suo e quindi presumibilmente più debole, mentre non reagisce aggressivamente nel caso in cui si trovi vicino a un membro del gruppo di rango superiore al suo e quindi presumibilmente più forte.
Ancora maggiore, ovviamente, è il controllo dell'aggressività nella specie umana a causa del maggior sviluppo della corteccia cerebrale, ed è chiaro che l'entità di questo controllo dipende fondamentalmente dal tipo di personalità. La nostra violenza è una conseguenza del nostro sviluppo psicologico e quindi delle condizioni socioculturali che lo hanno influenzato e in primo luogo dell'educazione. Numerose ricerche hanno messo in evidenza l'influenza di esperienze dirette o indirette di violenza durante l'infanzia sulla formazione di personalità aggressive. Fondamentale a questo riguardo è l'ambiente familiare. Le esperienze dirette di violenza sono costituite dai maltrattamenti che il bambino subisce, di tipo sia fisico sia psicologico (rifiuto, colpevolizzazione ecc.). Le esperienze indirette sono costituite dai litigi in famiglia, dai maltrattamenti subiti dalla madre da parte del padre, o subiti dagli altri fratelli oppure da animali domestici, dalle scene di violenza alle quali il bambino assiste a scuola e nel quartiere, oppure che vede al cinema e alla televisione.
Importanti sono anche gli stili di educazione familiare. Sia un'educazione autoritaria sia un'educazione permissiva tendono a produrre personalità aggressive. Nel primo caso, il bambino subisce continue ed eccessive frustrazioni, dovute alle proibizioni e alle punizioni, e le frustrazioni producono spesso aggressività. Nel secondo caso, lo sforzo sistematico dei genitori di evitargli del tutto le frustrazioni fa sì che il bambino non abbia la possibilità di abituarsi ad affrontarle; quando purtroppo la vita provvederà a offrirgliene abbondantemente, il bambino si troverà impreparato. Risultati negativi dà anche un'educazione incoerente, che passa continuamente dall'autoritarismo al permissivismo. In questo caso il bambino manca di punti di riferimento stabili, indispensabili per la regolazione dei propri comportamenti, sviluppa insicurezza e con essa aggressività. Migliori risultati dà la cosiddetta educazione autorevole, che non fa uso degli autoritarismi di tipo militaresco, ma fornisce al bambino giuste regole da osservare e non gli evita sistematicamente le frustrazioni, ma lo aiuta ad affrontarle e superarle.
Anche l'ambiente fisico ha importanza per lo sviluppo dell'aggressività del bambino. Fra tutte le specie animali la nostra è quella in cui per un più ampio periodo di tempo il piccolo dipende dai genitori e, più in generale, dagli adulti. Questo lungo periodo di dipendenza è molto adattativo, perché assicura al bambino una notevole sicurezza affettiva e un buon apprendimento sociale. Arriva però il momento in cui il bambino deve cominciare a costruirsi la propria autonomia e quindi a liberarsi gradualmente dalla dipendenza dalle figure parentali. Questo processo, indispensabile per la creazione di un Io sicuro, presuppone la possibilità per il bambino di esplorare l'ambiente, che dovrebbe essere preferibilmente ricco e stimolante, e in questa esplorazione di misurare le sue forze e diventarne consapevole. Non c'è bisogno di far rilevare quanto sia difficile questo processo in una città moderna, che la pericolosità del traffico automobilistico rende quanto mai inadatta a favorire l'esplorazione del bambino. Inoltre mancano perlopiù gli spazi in cui egli può incontrare i suoi coetanei, giocare e socializzare con loro. Le città moderne sono certamente strutturate in modo da favorire il traffico degli autoveicoli e non lo sviluppo psicologico dei bambini. Si aggiunga a ciò il fatto che il modello di vita competitivo che domina la nostra società stabilisce un nesso non corretto fra aggressività e autoaffermazione.
L'educazione deve tendere alla costruzione di personalità in cui si verifichi un equilibrio fra socialità e autonomia individuale. Purtroppo il nostro modello di vita dà per scontato che l'autoaffermazione dell'individuo nei gruppi dei quali fa parte debba realizzarsi tramite l'aggressività. Bisogna rendersi conto che in una società in grado di esprimere valori diversi da quella attuale, in cui la cooperazione fosse considerata più importante della competizione, cambierebbe anche il tipo di autoaffermazione dell'individuo, che presumibilmente sarebbe basata più sulla razionalità che sull'aggressività. Occorre chiarire, infine, che non bisogna considerare con semplicismo la dinamica dello sviluppo della personalità umana. Quest'ultimo è un processo assai complesso e i fattori che lo influenzano sono molti e interagiscono fra di loro. Ciò significa che, a seconda dei casi, lo stesso fattore può produrre effetti diversi. Quindi i risultati delle ricerche mettono in evidenza solo aspetti tendenziali della dinamica dello sviluppo della personalità.
Sulla base di quanto detto finora è evidente che la prevenzione della violenza consiste fondamentalmente in un opportuno orientamento dei fattori socioculturali che influenzano lo sviluppo psicologico dell'individuo. È auspicabile che l'umanità modifichi il suo sistema di valori e che si instauri un maggior controllo sociale sulle conseguenze del nostro attuale modello di vita che influenzano direttamente lo sviluppo psicologico dei bambini e, più in generale, lo psichismo di tutti i membri della nostra società. Si tratta di aspetti della nostra cultura che favoriscono in vari modi lo sviluppo e la manifestazione dell'aggressività: giochi e sport competitivi, spettacoli di violenza al cinema e alla televisione. Particolarmente importante è il problema della televisione, poiché innumerevoli ricerche hanno dimostrato il suo ruolo determinante nell'aumentare il livello di aggressività, soprattutto nei più giovani.
La ricerca psicologica negli ultimi anni del 20° secolo ha d'altronde messo in luce che già in bambini di un anno si manifestano comportamenti di cooperazione e di altruismo. Questo sta a significare che gli esseri umani nascono con tendenze all'aggressività e con tendenze alla cooperazione e all'altruismo: sono evidentemente le scelte culturali della società in cui devono vivere, e soprattutto l'educazione, che decidono quali tendenze vengono favorite e quali inibite. In questa prospettiva assume un'importanza fondamentale ogni aspetto dell'educazione che favorisce lo sviluppo della capacità empatica del bambino, cioè della sua capacità di immedesimarsi negli altri sul piano sia cognitivo sia emozionale. L'empatia costituisce la base di una giusta socialità. Gli 'altri' naturalmente vanno considerati in maniera molto estesa. Più precisamente, gli altri sono soprattutto gli esseri capaci di soffrire o, meglio ancora, quelli che il bambino ritiene tali.
A questo proposito è importante richiamare un aspetto del problema della violenza che è stato particolarmente analizzato dalla ricerca psicologica negli ultimi trent'anni del 20° secolo, soprattutto negli Stati Uniti: la crudeltà dei bambini nei riguardi degli animali. Numerosi studi hanno dimostrato che i bambini e gli adolescenti che manifestano comportamenti aggressivi verso gli animali frequentemente presentano disturbi psicologici e, in particolare, atteggiamenti e comportamenti aggressivi anche nei confronti delle persone. È stato dimostrato inoltre che questi bambini e questi adolescenti più facilmente possono diventare adulti violenti e pericolosi. Tra l'altro, nel 1987, nella revisione del DSM-III (Diagnostic and statistical manual of mental disorders) dell'American psychiatric association, per la prima volta la crudeltà dei bambini nei riguardi degli animali è inserita tra i sintomi del disturbo della condotta. È opportuno ricordare che il disturbo della condotta, che di solito è diagnosticato per la prima volta nell'infanzia o nell'adolescenza, viene definito, per usare le parole del manuale citato, come "una modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i diritti fondamentali degli altri o le principali norme o regole societarie appropriate per l'età vengono violate". Inoltre numerose ricerche hanno dimostrato che nelle famiglie violente, cioè in quelle famiglie in cui per es. il padre picchia la moglie e/o i figli, frequentemente succede che, se nella famiglia c'è un animale domestico, anch'esso subisce violenze più o meno gravi da parte di uno o più membri del gruppo familiare, talvolta dei bambini stessi. Appare quindi evidente che la crudeltà dei bambini verso gli animali deve essere considerata un importante indicatore potenziale di una situazione personale e familiare patogena e di futuri comportamenti antisociali. Per questo motivo negli Stati Uniti alcune associazioni che si occupano della protezione dei bambini e degli animali cercano di addestrare i loro operatori a riconoscere eventuali segnali di abuso nelle famiglie che visitano nei riguardi sia dei bambini sia degli animali, per poi segnalarli alle autorità competenti.
Sembra quindi superfluo sottolineare quanto sia importante che educatori, psicologi, giuristi e funzionari delle forze dell'ordine prendano seriamente in considerazione i comportamenti crudeli di bambini e adolescenti verso gli animali. Il riconoscere nel bambino e nell'adolescente questo sintomo dovrebbe, tra l'altro, sollecitare la messa a punto di interventi educativi per eliminare queste forme di violenza e per prevenirne altre, forse più gravi. Va anche sottolineato che il problema della crudeltà dei bambini nei confronti degli animali si inserisce nel discorso più generale sulla violenza a cui abbiamo accennato prima. In una società in cui il modello di vita dominante è quello competitivo, in cui esiste una serie di gerarchie basate sulla quantità di potere che un individuo o un gruppo riesce a esercitare su un altro individuo o gruppo, è ovvio che nei gradini più bassi della scala sociale, al disotto dei bambini, ci siano in genere gli animali. I bambini che manifestano comportamenti crudeli verso questi ultimi non fanno che adeguarsi a questo modello, esercitando a loro volta il potere su chi è più debole di loro. Ma, se è necessario porre in evidenza il legame tra crudeltà verso gli animali e crudeltà verso le persone, è anche utile, come hanno suggerito vari ricercatori, ipotizzare un legame tra sentimenti positivi nei confronti degli animali e sentimenti positivi nei confronti delle persone. Alcuni studiosi infatti stanno cercando di verificare se nei bambini un atteggiamento di empatia, di rispetto e di compassione verso gli animali si possa generalizzare ed estendere alle persone. In questo campo la ricerca è solo agli inizi, ma i risultati finora raggiunti sembrano confermare tale ipotesi. A questo scopo sono stati predisposti, soprattutto negli Stati Uniti, programmi scolastici che mirano appunto a promuovere nel bambino lo sviluppo di un atteggiamento positivo verso la natura in genere e verso gli animali in particolare.
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