TALLI, Virgilio
(Enrico Maria Pilade). – Nacque il 2 agosto 1857 a Firenze in via della Chiesa, a due passi da S. Frediano, da Angiolo, proprietario di una florida azienda di mobili artistici, e da Maria Laura Giovannini.
Il nome lo ereditò da un fratellino nato e morto l’anno prima. Non fu figlio d’arte, con le conseguenti, iniziali difficoltà di accedere alle troupes dell’epoca. Dopo il liceo Dante, in cui amò esercitarsi nella scherma, passò al collegio Cicognini di Prato dal 1871 al 1873, allievo del secondo e terzo corso alle scuole tecniche. Se rimasto, avrebbe qui incrociato l’anno dopo uno studente destinato a diventare leggenda anche nei futuri repertori di Talli, ossia Gabriele D’Annunzio. Abbandonò però ben presto lo studio, attratto dall’avventura del palcoscenico negli spazi amatoriali fiorentini. Filodrammatico nella compagnia di palazzo Rinuccini e poi alla R. Accademia dei Fidenti, lasciò infine la sua città nel 1881, scritturato da Adelaide Tessero, nipote della grande Adelaide Ristori (la madre Carolina era sua sorella). E per anni girò in lungo e in largo come ‘brillante’, ritagliandosi piccole parti in tournées sudamericane, perdendo la testa per una giovane, bionda cavallerizza, Margherita Guillaume, tentato per i suoi occhi azzurri a lasciare la carriera teatrale per imbarcarsi nel circo, come confessò nelle sue divertenti Memorie (1927). Nondimeno, nella ditta Tessero rimase sino al 1885, passando l’anno successivo in quella di Ermete Novelli, e nel 1887-89 con Giuseppe Pietriboni, dal castigato repertorio, dove conobbe la giunonica Ida Carloni, romana e figlia di una maestra di ballo.
Dal 1892 ebbe il nome in ditta con Paladini-Talli, prima donna Carloni, ormai sua moglie dal 1890 (legame destinato presto a spezzarsi) e poi con Reiter-Reinach-Talli, quindi nella Talli-Sichel-Tovagliari, specializzata nei registri comici. Nel 1895 si consociò a Teresa Mariani, nel 1897 a Tina Di Lorenzo e Flavio Andò. E dalla quaresima del 1900 sino al carnevale del 1906 fu alla testa della più celebre ditta nel primo anteguerra, recitando insieme con Irma Gramatica, fascinosa nella sobrietà e nella scarnificazione interpretativa, e Oreste Calabresi, folgorante caratterista. Allo scioglimento della stessa, si unì ad Adolfo Re Riccardi, che disponeva della migliore produzione transalpina.
Al suo magistero febbrile e incalzante, si formarono via via interpreti poi di fama nazionale, come Ruggero Ruggeri, Lyda Borelli, Maria Melato, Annibale Betrone, Sergio Tofano, Dina Galli, da lui rapita alla dialettale ribalta meneghina. Secondo la consuetudine, compito del brillante era dirigere le prove delle farse, per cui si temprò sin dagli esordi nella funzione direttiva. In un certo senso, scelse di apparire negli altri, ovvero di passare in platea, dal palco dove pure era stato a lungo apprezzato quale scettico, elegante e salottiero, ridicoloso, algido e signore delle pause, dispensatore signorile di paradossi e di motti di spirito declamati con la massima serietà e con una pronunzia volutamente leziosa, accompagnata da rallentamenti caricaturali nel gesto. Insomma, il personaggio dell’osservatore ironicamente esterno maturò naturalmente nel direttore che si sposta in sala.
Dal 1912-13, nella ditta Talli-Melato-Giovannini, si limitò così a recitare durante le infinite prove, avendo come pubblico i suoi interpreti, intimoriti dalla bruscaggine beffarda e dal suo sarcasmo tagliente. Per loro, in compenso, modellava tutte le parti, dando ogni battuta. Nel frattempo, perorò invano la causa di una scuola di recitazione sorretta dallo Stato, appoggiata a teatri stabili, in anticipo in qualche modo sull’Accademia Silvio D’Amico aperta nel 1935, sorta proprio per favorire l’avvento del regista in Italia, da lui di fatto già inaugurato. Nel 1919 Renato Simoni ebbe buon gioco a porlo sullo stesso livello di André Antoine e Max Reinhardt.
Arguto, iracondo, estroso e amante dell’improvvisazione, caratteraccio sbrigativo come si autodefinì. Impeto ghibellino il suo, secondo Anton Giulio Bragaglia, suffragato dalla postura, il mezzo sigaro toscano pendente dalla bocca, il bavero del soprabito rialzato, le mani in tasca, e in quella di destra il bastone minaccioso, i gomiti serrati alla vita, la voce resa dagli anni sempre più metallica e appuntita. Mantenne il piglio indipendente e autocrate anche nei riguardi degli autori, specie se alle prime armi, disposti persino nei carteggi a chiamarlo con ammirazione Duce o Toscanini. E costoro lo cercavano in quanto autentico animatore del copione, strumento privilegiato per il lancio, anche vedendo a volte rovesciato il senso dei testi, sfrondati per non perdere l’attenzione della platea.
Lettore onnivoro, non esitò ad affrontare almeno cinquecento partiture all’anno, proposte da ogni parte del Paese, a lungo assoluto protagonista nella giungla delle ditte d’arte. Davanti alla porta del suo camerino e poi del suo ufficio sostarono in attesa i personaggi più importanti, anche sul piano politico, da Felice Cavallotti a Francesco Crispi a Benito Mussolini.
Grande concertatore di talenti, curatore al dettaglio dell’intonazione armoniosa e nell’accordo delle controscene così come nell’accuratissima orchestrazione delle figure minori, preferì sempre spettacoli di complesso a quelli con il protagonista egolatrico. Tant’è vero che negli ultimi anni, nemico feroce del mattatorismo, che contribuì a ridimensionare in favore della compagnia di interpreti fondata sul direttore, si impegnò a valorizzare non solo autori sconosciuti ma anche attori esordienti, quasi presi dalla strada, amalgamandoli e puntando progressivamente a eliminare i ruoli, contro ogni stereotipo o corruzione di mestiere, per valorizzarne le capacità a tutto tondo. Tra costoro, in particolare il grande promiscuo Alberto Giovannini, morto prematuramente nel 1915, il suo prediletto ‘Berto’, primo lutto tragico della sua vita, seguito da quello ancor più immedicabile, ovvero la scomparsa del figlio Enrico, nato nel 1891, tenente di artiglieria, aviatore nella Grande Guerra, deceduto nel 1919 per i postumi di un’infezione procuratasi al fronte, l’unico avuto nello sfortunato matrimonio con la Carloni.
Un gusto eclettico il suo, non condizionato solo dalle ferree ragioni del mercato. A consultare le opere che lo vedono alla ribalta o che gli debbono il debutto, riscontriamo infatti una varietà insolita di tinte, dal verismo al fantastico.
Così il disincanto provocatorio, per i tempi, di La Parigina e I Corvi di Henry François Becque in Italia nel 1890 e nel 1891, l’intimismo sofferto di Come le foglie di Giuseppe Giacosa nel 1900 (in realtà già varata pochi mesi prima da Andò-Di Lorenzo), dove fu un sobrio e non convenzionale Massimo, il mélo psicologista di Sperduti nel buio e di La piccola fonte di Roberto Bracco nel 1901 e nel 1905, il naturalismo di Dal tuo al mio di Giovanni Verga nel 1903, l’ebbrezza poetica della dannunziana La figlia di Iorio nel 1904, in cui inventò ritmo e cadenza pastorali, trionfo ottenuto pur con le tribolazioni dovute al cambio di casting in seguito alla defezione di Eleonora Duse, i labirinti pirandelliani di Così è (se vi pare) nel 1917 (quel Luigi Pirandello che gli si rivolgeva con deferenza dandogli dell’«Illustre Commendatore» e del «Maestro della scena»), in cui Melato non esitò a invecchiarsi per avere la parte della signora Frola. E ancora i protoespressionisti Marionette, che passione! e La bella addormentata di Pier Maria Rosso di San Secondo nel 1918 e nel 1919, nonché La guardia alla luna di Massimo Bontempelli nel 1920, o il lirico Glauco di Ercole Luigi Morselli nel 1919 in cui, spargendo quasi nelle vecchie tavole del teatro Argentina a Roma odor di salsedine, seppe trovare la musica presente nella voce ariosa dei naviganti. Per L’albergo dei poveri di Maksim Gor′kij nel 1905 si avvalse della magica presenza della stessa Duse, pur intimidita dall’autorevolezza del direttore. Repertori internazionali, ma anche molti titoli nostrani: in pratica tutto il nuovo teatro italiano passò grazie a lui, specie nel versante grottesco, con Luigi Chiarelli, Luigi Antonelli, Enrico Cavacchioli, spesso imposti alla resistenza del pubblico sconcertato in un primo momento. E con Chiarelli, del resto, formò dal 1918 al 1920 la Drammatica Compagnia di Roma al teatro Argentina.
Debilitato dalla nefrite e da tempo malato (tra l’altro lo affliggevano anche una fastidiosa sordità e una miopia crescente che di fatto lo allontanarono dal lavoro direttivo, pur continuando sino all’ultimo a seguire giovani attori sulla ribalta del teatro Arcimboldi milanese), amorevolmente assistito negli ultimi trent’anni di vita dalla governante Carlotta Rainoldi, morì a Milano, all’alba del 24 febbraio 1928.
Al suo fianco, tra gli altri, la nuora Raffaella, moglie di Enrico, la nipote, la piccola Maria Laura, oltre alla fedele fantesca. I più grandi interpreti italiani accorsero in giornata a rendergli omaggio, e confusi tra loro gli allievi dell’Arcimboldi, inconsolabili per la sua scomparsa.
Opere. Eleonora Duse, in La lettura, 1924, n. 6, pp. 401-408; La mia vita di teatro, 1, Memorie, Milano 1927. Parte della importante e compulsiva corrispondenza che lo riguarda (che avrebbe lui medesimo voluto sistemare in almeno dieci tomi) si legge in Dal carteggio di Virgilio Talli, raccolto da E. Roggero (con 30 illustrazioni), Milano 1931.
Fonti e Bibl.: S. Benelli, Gli attori celebri. V. T., in Teatro illustrato, 1905, n. 7, p. 2; L. Antonelli, 35 anni di teatro nei ricordi di un maestro, in Il Secolo XX. Rivista popolare illustrata, XV (1916), 11, pp. 929-940; A. Cervi, Senza maschera. Attrici e attori del teatro italiano, Bologna 1919, pp. 101-114; E. Settimelli, V. T., Milano 1921; A.G. Bragaglia, V. T., in Noi e il mondo. Rivista mensile de “La Tribuna”, XVIII (1928), 4, pp. 319-323; S. D’Amico, Mezzo secolo di teatro, in La Tribuna, 26 febbraio 1928; A. Menichi, V. T. fra tradizione e avanguardia. L’incontro con Rosso di San Secondo, in Quaderni di teatro, IX (1987), 35, pp. 149-161.