VIRGILIO
. Publio Virgilio Marone (Publius Vergilius Maro) fu, per il senso sublime dell'arte e per l'influenza che esercitò nei secoli, il massimo poeta di Roma; nonché l'interprete più completo e più schietto del grandioso momento storico che dalla fine di Giulio Cesare conduce alla fondazione del Principato e dell'Impero compiuta da Augusto. Le circostanze a noi note della sua vita e dei suoi tempi hanno quasi tutte qualche importante riflesso nell'opera sua.
Al pari della maggior parte fra i poeti della precedente generazione, che si sogliono designare con l'epiteto di poetae novi o "neoteri" (νεώτεροι), anche Virgilio era originario dell'Italia settentrionale (Gallia Cisalpina). Nacque il 15 ottobre del 70 a. C. nei dintorni di Mantova sul Mincio, ad Andes, località che la tradizione identifica con Pietole, da famiglia di agricoltori che ivi possedevano i loro terreni: "presso all'acqua dove in lenti giri il Mincio si espande e di tenere canne riveste le rive" (Georg., III, v. 14). Fece i primi studî nella vicina Cremona, poi a Milano, dov'erano le scuole migliori della Gallia Cisalpina; e di qui, fra il 55 e il 50 a. C., passò a Roma a coltivare eloquenza sotto la guida d'un reputatissimo maestro di retorica, Epidio, dal quale si recavano i figli delle più cospicue e ricche famiglie, come il giovane nipote di Cesare, Ottavio, futuro Ottaviano Augusto (più giovane di Virgilio, ma assai precocemente avviato per la carriera degli studî e degli onori) e altri, coi quali egli ebbe modo di stringere fin d'allora amichevoli relazioni. Evidentemente anche Virgilio era destinato a entrare nell'arringo della vita pubblica: e ciò dimostra ch'egli non era, probabilmente, di origine così modesta, così misera, come la leggenda antica e moderna, per meglio legarlo all'umiltà della terra, ha voluto e vuole far credere. L'eloquenza, secondo le consuetudini della Repubblica, doveva servire a incamminare anche il giovane mantovano per la via allettevole delle ambizioni e degli honores; ma in buon punto lo trattennero le condizioni politiche sfavorevoli (la guerra civile fra Cesare e Pompeo, scoppiata quand'egli era appunto sui vent'anni, nel 49 a. C.; con la conseguente dittatura di Cesare) e soprattutto poi le sue stesse vocazioni poetiche e meditative, che allora, quand'era sui vent'anni, naturalmente prorompevano nel suo spirito e s'imponevano su ogni altra ragione o illusione.
Delle sue vocazioni d'allora, e in generale delle sue condizioni, abbiamo documento in una serie di componimenti giovanili, la cui autenticità è oggetto di dubbî e di controversie complicate e non sempre ragionevoli; che si sogliono indicare col titolo complessivo di "Appendice Virgiliana" (usato per la prima volta da Giuseppe Scaligero nella sua edizione del 1573), perché costituiscono una specie di supplemento a confronto con la triade delle opere mature e insospettabili, Bucoliche, Georgiche, Eneide. Queste tre opere, come vedremo, si susseguono nella vita del poeta ininterrottamente da quando egli era sui trent'anni (40 a. C.) fino alla morte (19 a. C.). Ora è certo che, in ogni caso, Virgilio cominciò a poetare anche prima di essere trentenne; e cominciò sotto l'impressione e la guida degl'immediati predecessori, vale a dire dei poetae novi, da cui storicamente e naturalmente egli dipendeva. Infatti, ancora nelle Bucoliche (del 40 a. C. circa) si professava ammiratore d'uno dei tipici corifei della scuola neoterica, Elvio Cinna (Buc., IX), e si rappresentava come compagno di Cornelio Gallo (Buc., VI, X); insieme col quale sappiamo d'altra parte (cioè dalla tradizione biografica) ch'egli fu discepolo del dotto poeta ellenistico Partenio, legatissimo a Cinna. Ma specialmente è naturale che, sulle prime, egli sentisse il fascino del più vivo e geniale fra tutti i neoteri, Catullo, il quale, morto in quegli anni, era in grandissima voga. Questi gl'ispirò il gusto degli epigrammi salaci, delle invettive violente, delle frecciate satiriche. Di tal genere sono, per la maggior parte, certi piccoli carmi che si trovano nell'"Appendice Virgiliana" e che formano un gruppo intitolato Catalepton, cioè "Versi spiccioli". Da Catullo e dagli altri neoteri egli doveva anche imparare, di necessità, l'uso dei poemetti mitologici o epillî (come la Zmyrna di Cinna, Peleo e Tetide di Catullo stesso, ecc.), che più erano caratteristici della scuola: la maniera dotta, lo stile alessandrineggiante dei ricercati bozzetti descrittivi e delle tenere rappresentazioni d'amore. Di tal genere appunto sono due epillî, che si trovano parimenti nell'"Appendice Virgiliana" e la cui composizione coincide in ogni caso con gli anni della più intensa preparazione letteraria di Virgilio, fra il 48 e il 45 a. C.: il Culex (La zanzara) e la Ciris (L'airone bianco).
Il Catalepton comprende quattordici carmi in vario metro, che probabilmente furono riuniti dagli eredi del poeta dopo la sua morte, cioè dagli amici carissimi Vario e Tucca, a cui è da attribuire un quindicesimo componimento, che serve di chiusa e di giustificazione alla raccolta, presentata come residuo dei primi tentativi poetici virgiliani: illius haec quoque sunt divini elementa poetae ∣ et rudis in vario carmine Calliope. La maggior parte di essi si riferiscono a circostanze dell'età giovanile, circostanze talora oscurissime, concernenti persone e cose che non hanno lasciato nessuna traccia di sé, tal'altra ben identificabili in rapporto, per esempio, con le scuole d'eloquenza e col passaggio del poeta alla filosofia.
Il Culex è dedicato a un giovinetto insigne, di nome Ottavio (Octavi venerande;...sancte puer), in cui, come gli epiteti stessi dimostrano, conviene riconoscere il futuro Ottaviano: poiché questi nel 48 a. C., quando ancora era "Ottavio" e ancora non era uscito di "puerizia ", veniva innalzato agli onori sacerdotali del pontificato. Tale il momento storico e l'ordine d'idee a cui deve riferirsi l'epillio: il quale, se ha apparenze giocose, mira però, sostanzialmente, a problemi mistici concernenti la sorte dell'anima e il culto dei Mani, in piena coerenza con la dedica al giovinetto sacerdote. Vi si narrano le vicende d'una zanzara (culex), che salva la vita a un pastore e da questo viene miseramente uccisa. Argomento di per sé assai futile, e quasi scherzoso; ma pure dotato di più profonda e seria significazione allegorica, e derivato non tanto dalla fantasia quanto da sottili cognizioni mitografiche. In fondo, la favola della zanzara serve a spiegare in maniera dotta e precipuamente etiologica (come piaceva ai poeti alessandrini e neoterici) l'origine - αἴτιον - d'uno speciale culto dei morti esistente in Illiria; e questo apre poi la via a svolgere una visione dell'oltretomba non dissimile da quella famosa che Virgilio, al colmo della sua attività poetica, ha introdotta nel VI dell'Eneide.
La Ciris è parimenti dedicata a un giovane amico e condiscepolo, Messalla Corvino: che con ogni probabilità s'identifica col più insigne e noto rappresentante di tal nome; nel momento in cui questi, verso il 45 a. C., si recava, come Orazio, per ragioni di studio ad Atene (dove poi egli era per entrare nell'esercito repubblicano di Bruto e combattere, comandante della cavalleria, nella battaglia di Filippi). Vi si racconta la passione di Scilla figlia di Niso, re di Megara, la quale, presa d'amore per il condottiero nemico, Minosse, tradisce la propria patria e il padre, ma anziché raccogliere lo sperato premio del tradimento, viene da Minosse stesso abbandonata alla furia dei flutti e infine dagli dei impietositi è trasformata nell'uccello di nome ciris. Argomento mitologico dunque, attinto dagli insegnamenti di Partenio (che fu autore di Metamorfosi), elaborato con molta finezza psicologica e non senza intendimenti dottrinali. Né manca un proemio, in cui il poeta esprime la propria soddisfazione d'essere di recente entrato nella scuola epicurea, e la speranza di potere in seguito comporre qualche poema di schietto contenuto filosofico.
Questi sono gli scritti più significativi in relazione con l'indirizzo neoterico, e sono anche quelli la cui autenticità trova più sicuro appoggio sia nelle testimonianze della tradizione esterna, storico-biografica (specialmente rappresentata da Svetonio) sia nella considerazione interna di tutto ciò che riguarda la data di composizione, l'ambiente delle cose e delle persone.
L'"Appendice Virgiliana" comprende altre opere, fra cui un poemetto scientifico concernente i fenomeni vulcanici, l'Aetna: ma intorno all'autenticità di questo già gli antichi (come si apprende da Svetonio) sollevavano qualche dubbio. Vi sono poi due carmi, d'ispirazione campestre, la Copa (L'ostessa) e il Moretum (L'agliata), che, per l'ispirazione campestre e per il valore poetico, vengono nella comune opinione più volentieri accolti come di Virgilio: sennonché la loro attribuzione a Virgilio è di origine piuttosto tardiva, e quindi non ha nessun serio fondamento nella tradizione.
All'influenza di Catullo e dei neoteri, la quale ebbe naturale e indubbia efficacia sulla prima formazione poetica di Virgilio, si mescolava anche a poco a poco quella dell'altro grande poeta dell'età cesariana, Lucrezio, il cui poema, De rerum natura, era venuto alla luce di recente (intorno al 53 a. C.) dopo la morte dell'autore. Questo forniva a Virgilio un più vigoroso e appropriato nutrimento, tanto più appropriato, quanto più maturavano in lui, nel frattempo, le facoltà del pensiero speculativo; lo riempiva di entusiasmo per le concezioni elevate; lo spingeva a sciogliersi dalla piccolezza delle nugae per tendere piuttosto verso la poesia delle grandi idee. Non era più soltanto influenza artistica, come quella Catulliana, ma anche ideale e filosofica. Lucrezio, in momenti di terrori e di ansie politiche, recava la parola veramente adatta: invitava gli uomini a rifugiarsi nei templi sereni della filosofia epicurea; li attraeva ispirando compianto per la società cieca e straziata e offrendo alle anime esulcerate il balsamo della dottrina. Del grande appello lucreziano il giovane Virgilio risentì tutta la potenza. E, quasi affascinato dalle soavi parole, s'indusse allora ad abbandonare le vie dell'eloquenza, dell'ambizione e degli onori, per seguire i dettami epicurei, per dedicarsi agli studî filosofici e scientifici, cioè proprio agli studî della natura (de natura rerum). "Addio, vuote ampollosità degli oratori, parole gonfie di non attico rimbombo, e voi, scolastica genia pasciuta d'inane ridondanza; addio, tamburi assordatori della gioventù... Noi alziamo le vele verso i porti della felicità, cercando la dotta parola del gran Sirone, e da ogni affanno riscatteremo la vita. Addio anche a voi, Camene, addio ormai, dolci Camene (poiché, se vogliamo confessare il vero, ci foste pur dolci): e tuttavia visitate di nuovo le nostre carte, ma discretamente e di rado" (Catal., V).
Così, verso il 45 a. C., poco prima dell'uccisione di Cesare, egli usciva dal tumulto di Roma; e si recava nei tranquilli dintorni di Napoli, nella scuola di Sirone, che, insieme con Filodemo, era uno dei maggiori maestri greci di epicureismo, venuti dalla Siria in Italia. È notevole che in quei medesimi difficili anni, fra l'uccisione di Cesare e la battaglia di Filippi, l'appello della poesia lucreziana e della filosofia epicurea trasse colà, intorno a Sirone e a Filodemo, anche altri elettissimi ingegni, che al pari di Virgilio erano destinati a illustrare l'età augustea: Lucio Vario Rufo, Quintilio Varo, Plozio Tucca, e infine Orazio. Con questi il nostro poeta si legò da allora in durevole amicizia, inspirata a espliciti precetti epicurei e fondata sopra un'intensa comunanza d'ideali etici e artistici; amicizia che troviamo efficacemente descritta, in tutto il suo valore affettivo e dottrinale, nella celebre satira d'Orazio in cui si racconta il viaggio a Brindisi, del 37 a. C. (Sat., I, 5, v. 40 segg.). Al soggiorno di Napoli, poi, il Mantovano rimase particolarmente affezionato, e ivi trascorse gran parte della vita, anche quando, più tardi, le mutate condizioni dei tempi e i naturali sviluppi della sua coscienza erano per discostarlo dalle basi dell'epicureismo.
Nella scuola epicurea di Napoli, mentre da un lato con zelo di neofita s'immergeva negli austeri studî scientifici intorno alla "natura delle cose", d'altro lato concepiva quasi a scopo di distrazione, di lusus, i componimenti pastorali che portano il titolo di Bucoliche (designati anche, nell'uso dei successivi grammatici e nei manoscritti, col nome di Egloghe). Questi furono, nel medesimo tempo, il frutto caratteristico e geniale dell'influenza esercitata sul suo spirito dall'epicureismo: quasi la sublimazione e la trasfigurazione in linguaggio poetico, in forma fantastica, dei genuini precetti di vita insegnati dalla scuola ("vivi privatamente", "vivi in segreto"), per cui egli era tratto a evadere fuori dal cerchio della realtà dolorosa, fuori dalla vita sociale, in un mondo isolato, individualistico ed egoistico, esente da bisogni e da ambizioni, come appunto è quello dei pastori da lui immaginati, cioè il mondo fittizio dell'"Arcadia". La moda della poesia pastorale, sull'esempio alessandrino di Teocrito, apparteneva alle tendenze e ai gusti dei poetae novi; e si affermava allora da più parti. Infatti sappiamo che Messalla Corvino, il nobile personaggio cui è dedicata la Ciris, trovandosi in Atene con l'esercito repubblicano di Bruto poco prima della battaglia di Filippi, componeva addirittura in greco idillî di tal genere, alla maniera di Teocrito, e li inviava come dono e suggerimento a Virgilio. Ma per Virgilio la poesia pastorale non doveva essere, e non fu, una semplice moda, un esercizio di finezze artistiche, un'imitazione di Teocrito; bensì qualcosa di profondamente attuale e connesso con la sua indole e con le sue esperienze. Essa rappresentava per lui, più che per qualsiasi altro, l'oasi di pace, il porto tranquillo, il riparo costruito con opportuni veli di sogno contro gli orrori della realtà, di quella realtà storica e politica della quale riceveva suo malgrado gli assalti. Subito dopo la battaglia di Filippi, le conseguenze della guerra civile venivano proprio a colpire lui direttamente, nelle sue cose e negli affetti suoi più cari: poiché i triumviri, com'è noto, ordinavano grandi confische di terre a favore dei loro veterani nei municipî d'Italia che avessero parteggiato per la causa repubblicana; e fra questi era Cremona, e non bastando Cremona, anche la vicina Mantova, che pur era innocente (secondo il grido dell'Egloga IX, v. 28: Mantua, vae, miserae nimium vicina Cremonae), soggiaceva, vittima di più grave sopruso, all'iniqua spoliazione. Così Virgilio vedeva Marte empio infuriare nelle sue dolci campagne, e restava privo dei poderi paterni.
Questi fatti gl'ispirarono alcune delle egloghe più appassionate (la I e la IX) ed influirono anche, in generale, sulle rimanenti: non tanto perché quasi tutte furono composte con lo scopo contingente di ottenere il favore di Ottaviano e di altri illustri patroni che avevano autorità nelle cose della Gallia Traspadana, come Alfeno Varo, Cornelio Gallo, e specialmente Asinio Pollione (a te principium, tibi desinet: accipe iussis carmina coepta tuis), quanto perché su tutte venne a spandersi, allora, l'ombra cupa del dolore. Insomma, l'esperienza delle brutali vicende politiche, dalle quali il poeta fu sorpreso e coinvolto là dove aveva sperato di essere al riparo da ogni affanno, nel tranquillo porto della filosofia, servì a formare in lui quella inconfondibile concezione della vita come dominata dal dolore, dall'ingiustizia, dall'arbitrio, che è propria delle Bucoliche e che, pur modificandosi, costituirà il punto di partenza per le opere successive. Non solo i poveri contadini, come Melibeo e Meri (delle citate egloghe I e IX), costretti ad andarsene lontano abbandonando le amate campagne all'empia soldatesca, ma anche le altre creature (che più spiccano nelle altre egloghe) sono vittime di acerbo destino. Chiunque abbia qualcosa di caro, uomini o donne innamorate, padri o madri di figli fiorenti, soffrono nei loro affetti: da Coridone, che implora senza speranza l'amore di Alessi (nell'Egloga II), a Gallo, che geme per il tradimento e l'abbandono di Licoride (X); dalla madre di Dafni, che singhiozza prostrata sul cadavere del giovane imprecando contro la crudeltà degli dei (V), alla schiera d'infelici che sfilano sotto l'assillo delle rispettive passioni nella leggendaria visione di Sileno (VI). La violenza cieca del caso spadroneggia e sconvolge ogni cosa: Fors omnia versat (IX, v. 5). Questa è la vita: la vita vera, che viene a urtare contro il mondo idillico della pace, della serenità e della giustizia, simboleggiato dai pastori d'Arcadia, a cui l'anima di Virgilio ricorreva, d'ora in ora, col sogno e con la speranza. La speranza culminava, per esempio, nella famosa visione messianica dell'Egloga IV, scritta per la nascita di un misterioso puer, quando (a quel che si ritiene, secondo la più probabile cronologia) la cosiddetta pace di Brindisi fra Ottaviano e Antonio, alla fine del 40 a. C., prometteva di ricondurre - ma per breve tempo, ahimé - il sereno sullo stato romano in tempesta. Da un tale urto fra la realtà e il sogno, fra l'umana tragedia e l'idillio, scaturisce in massima parte la poesia delle Bucoliche.
Probabilmente alla poesia pastorale Virgilio si avviò, dapprima, con alcuni saggi che non furono compresi nella raccolta definitiva. Di questa preparazione è traccia nell'"Appendice Virgiliana", dove sono tre Priapea, cioè tre brevi carmi d'argomento agreste, dedicati al dio degli orti; per non dire delle Dirae, cioè "Imprecazioni" la cui autenticità è controversa, ma che pur sembrano cadere negli anni tra il 42 e il 41 a. C. ed essere composte nell'Italia meridionale come un primo immediato grido di sdegno e di maledizione per le confische dei campi, le quali, a opera dei triumviri, ancor prima che nel Cremonese e nel Mantovano, s'erano iniziate nella ricca Campania.
Le Bucoliche constano di dieci composizioni, disposte con criterio artistico od occasionale, che non corrisponde all'ordine cronologico (l'ordine cronologico, per lo più, non si lascia ricostruire con sicura esattezza). La maggior parte, non tutte, hanno forma di dialoghi o di canti amebei, e si sogliono intitolare dal nome dei personaggi che vi agiscono o che vi sono descritti: I. "Titiro e Melibeo" (dialogo fra due pastori, di cui il primo, per favore di Ottaviano, può conservare i proprî campi, mentre l'altro è costretto a fuggire ramingo); II. "Alessi" (soliloquio di Coridone che espande le sue pene d'amore per il giovinetto Alessi); III. "Menalca e Dameta" (gara poetica fra due pastori); IV. "Pollione" (canto in onore di Asinio Pollione, sotto il cui consolato sta per nascere il misterioso fanciullo, apportatore di una nuova era di felicità al genere umano); V. "Dafni" (due pastori cantano, rispettivamente, la morte e l'apoteosi del mitico protettore della pastorizia); VI. "Sileno" (il vecchio dio dell'ebbrezza è sorpreso, nel sonno, da alcuni giovani pastori, che lo costringono a cantare i suoi canti entusiastici, sulle origini del mondo, su avvenimenti varî del mito, ecc.); VII. "Tirsi e Coridone" (gara di poesia fra pastori); VIII. "Gl'incantesimi" (canti alterni di due pastori, uno dei quali descrive le arti magiche usate da una donna per richiamare a sé l'amante perduto); IX. "Licida e Meri" (dialogo, in cui Meri racconta la sventura del padrone, il cantore Menalca, che ha dovuto abbandonare il proprio podere, invaso dai soldati); X. "Gallo" (lamenti del poeta Cornelio Gallo, tradito dalla sua Licoride).
Molte questioni si sono agitate e si agitano (talora anche inopportune, per l'erronea impostazione dei concetti) sul carattere delle Egloghe, sulla maggiore o minore idealizzazione della vita pastorale (a confronto con Teocrito), sui rapporti con la realtà storica e biografica, specialmente sulla tendenza di Virgilio a mescolare col mondo della leggenda o dell'immaginazione il mondo politico contemporaneo, introducendo fra i pastori o travestendo da pastori personaggi dell'alta società. Vi sono egloghe nelle quali un siffatto travestimento (che del resto era stato praticato anche da Teocrito) è del tutto palese e quasi dichiarato dall'autore stesso; e altre, in cui è più astruso e riposto, ma pure avvertibile ugualmente da segni indubbî. In ogni modo, bisogna riconoscere alle Bucoliche virgiliane (per lo meno a una parte di esse) un certo carattere allegorico; se anche si debba procedere con molta cautela nell'interpretare tali allegorie per non cadere nelle aberrazioni a cui spesso esegeti antichi e moderni sono variamente arrivati, soprattutto nei riguardi della celebre egloga IV (nella quale la tradizione cristiana vide annunciata la venuta del Redentore) e della V (dove la morte di Dafni dovrebbe simboleggiare la morte di Giulio Cesare). Così, per es., è certo che nelle vicende dei campi confiscati e invasi da Marte empio, nelle figure di Titiro e di Menalca, il poeta ha raffigurato sé stesso e le proprie personali contingenze. Ma fino a un certo punto soltanto; e noi non possiamo tradurre senz'altro gli elementi della figurazione poetica in elementi di storia né servircene del tutto ai fini della biografia virgiliana.
Composte fra il 41 e il 39 a. C., le Bucoliche apparvero come la rivelazione di un nuovo grande poeta. E in particolare attrassero su Virgilio l'ammirazione e l'amicizia di Mecenate e di Ottaviano, i quali cominciarono a cercare in lui l'interprete dei loro sentimenti e dei loro disegni. Intanto, con lo schiarirsi dell'orizzonte politico, con l'estendersi dell'autorità di Ottaviano, che già prima della vittoria di Azio (31 a. C.) e del titolo di Augusto, si volgeva assiduamente a favorire la pacificazione sociale, a ripristinare la serietà dei costumi e l'amore del lavoro e specialmente l'agricoltura, anche le disposizioni del poeta per spontaneo impulso venivano mutando. Così egli non tardava a concepire un'altra opera, più vasta, la quale non aveva come le egloghe carattere di semplice distrazione e di lusus, anzi era fatta con intendimento quasi didascalico: le Georgiche, poema complesso e organico, in cui si descrive o si esalta ogni aspetto dell'agricoltura e dell'amore alla terra, la coltivazione dei campi, la coltura degli alberi e particolarmente della vite, l'allevamento del bestiame, la coltura delle api. Dice il poeta stesso che tale opera fu a lui suggerita e quasi imposta da Mecenate (tua, Maecenas, haud mollia iussa, III, v. 41): e ciò non può essere negato, quantunque si debba osservare che il maggiore e più vero suggerimento derivava all'autore dal suo proprio genio poetico, dalla sensazione profonda ch'egli ebbe dei bisogni, delle aspirazioni e delle tendenze fatali dell'epoca.
Appena era entrato nella scuola epicurea, Virgilio aveva sentito l'ambizione di comporre qualche poema di carattere scientifico, come il De rerum natura di Lucrezio, su questa o su quella parte della fisica. Un poemetto di tal genere l'Aetna, gli è anche attribuito dalla tradizione, ma con dubbî che, come si è detto, appaiono abbastanza fondati: sembra essere stato scritto in ambiente epicureo, fra il 45 e il 40 a. C. Ora, con l'andare degli anni, l'indole sua e lo svolgimento storico lo inducevano ad assumersi un compito, il quale, pur essendo in apparenza didascalico, cioè naturalistico e quasi scientifico, aveva già, sostanzialmente, ispirazione e carattere diverso: per cui, invece degli astrusi problemi dell'universo, egli veniva a cantare le umili cose della vita e, del lavoro umano. "Me accolgano, più d'ogni cosa dilette, le Muse di cui, preso da grande amore, reco le sacre insegne; e mi mostrino le vie del cielo e gli astri, le eclissi del sole e le varie fasi della luna, donde i tremori della terra, e per qual forza alti si gonfino i mari", ecc... "Ma se gelido il sangue mi scorre intorno ai precordî, così ch'io non possa con la mente assurgere a questi aspetti della natura, almeno mi sia lecito cantare le campagne e le acque irrigue delle valli", ecc. "Felice colui che seppe conoscere le cagioni delle cose e ridurre sotto i suoi piedi le paure tutte e il fato inesorabile e il vano terrore dell'avido Acheronte! Ma felice anche chi conosce gli dei agresti, e Pane, e il vecchio Silvano, e le Ninfe sorelle..." (Georg., II, v. 475 segg.).
Non a caso il poeta delle Georgiche ha introdotto un'evidentissima allusione al poeta del De rerum natura in questo passo in cui esprime la propria insoddisfatta aspirazione a cantare le vie del cielo e gli astri, ecc. Seguire in tutto e per tutto Lucrezio nell'ardua indagine della natura, diretta a liberare gli uomini dal terrore degli dei e della morte, egli in fondo non poteva. Lo trattenevano gli affetti della sua anima, che non aveva nulla dell'implacabile furore lucreziano, anzi era istintivamente imbevuta di mitezza, di riverenza, di religiosità: per cui mentre da un lato avrebbe voluto con spregiudicata ragione perlustrare le cose della natura, dall'altro si curvava con pio atteggiamento davanti al mistero e adorava gl'idoli dell'immaginazione e della credenza popolare.
Così Virgilio si distaccava, consapevole o no, dalle basi dell'epicureismo, pur continuando, in generale, a coltivarne i principî di vita, d'una vita ritirata e tranquilla, nei dolci ozî del golfo di Napoli (infatti il poema dei campi si chiude con questo preciso ricordo autobiografico: illo Vergilium me tempore dulcis alebat ∣ Parthenope studiis florentem ignobilis otii...). Se badiamo al fondo della concezione, le Georgiche sono, in certo modo, il rovesciamento delle Bucoliche; e nel medesimo tempo rappresentano, da parte dell'autore, un più pieno raggiungimento della personalità poetica e spirituale. L'idea culminante è ancor sempre quella della pace, a cui il poeta si era ispirato nei componimenti pastorali: ma non più la pace egoistica che l'individuo fuggiasco si crea in qualche solingo rifugio protetto dalle tempeste degli altri (la pace dell'"Arcadia" o, che è lo stesso, del "Giardino di Epicuro"); bensì la pace operosa, comunicata fra gli uomini, consacrata nell'osservanza delle leggi e degl'istituti civili (la "pace di Augusto"). E, in mezzo alla pace, il ritorno alla terra: ma non perché questa sia sede di placidi incanti e di teneri amori, bensì perché sia coltivata e santificata con dura fatica, perché sia bagnata con sudore e con lacrime e divenga fonte di sane energie. Il mondo irreale, fittizio, evanescente, dei pastori arcadici, si allontana più che mai, per cedere il posto alla vera realtà, che è fatta di cose comuni, dure, aspre, rozze, di lavoro, di sforzo, di azione.
Naturalmente la concezione virgiliana della vita è ancora dominata dal senso del dolore: non più, però, da quello dell'ingiustizia, dell'arbitrio, del caso. Mali d'ogni sorta, difficoltà, sventure incombono sugl'infelici mortali: nulla si ottiene dalla terra che non sia pagato con sudore e con pianto; le forze misteriose della natura minacciano d'ora in ora la vita e gli affetti e l'opera umana, piombano sull'uomo e su tutto ciò che all'uomo è caro, sugli animali, sulle piante, sui seminati, sui raccolti e sovvertono tutto, costringendo a riprendere con pena infinita l'opera sconvolta. Ma nella insopprimibile realtà del soffrire il poeta questa volta ha scoperto qualcosa che è la ragione e lo scopo provvidenziale del soffrire: il dolore come redenzione morale e come condizione indispensabile per creare qualsiasi cosa di grande; il dolore come mezzo per cui acquista valore ideale e dignità e pregio d'essere vissuta la vita. Su tutti gli ostacoli e le avversità si erge la grandezza morale dell'uomo: perché "tutte le cose il lavoro vince con la sua inflessibile tenacia" (labor omnia vincit improbus: I, v. 145). E, vincendo, costruisce. Costruisce, anzitutto, questa immensa continua opera, fondamento primo di civiltà, "la divina gloria dei campi" (divini gloria ruris); e poi, più complessa, più spirituale e più alta, quell'altra gloria in cui convergono tutte le idee, gli sforzi, i progressi civili, la divina gloria di Roma: "tal vita (umile e agreste) condussero un tempo gli antichi Sabini; tal Romolo e Remo; così crebbe a potenza l'Etruria, e infine, più di tutte sublime, è sorta Roma, che nelle sue mura i sette colli ha racchiusi" (II, v. 532 segg.). Quindi, oltre i campi solcati dalla dolente umanità, già si scopre lo stato; oltre il perenne lavoro compiuto con l'aratro, si scopre l'altro immane lavoro compiuto con le armi e con le leggi, con le tradizioni e con le istituzioni, con l'azione e col pensiero. Questo significava uscire del tutto e per tutto da quella specie d'indifferenza e di agnosticismo che aveva dominato nella precedente posizione idillica di Virgilio. Significava prepararsi all'Eneide: cioè al poema della storia, il quale infatti succederà, dopo poco, al poema dell'agricoltura.
Le Georgiche sono diffuse in quattro libri, che complessivamente comprendono poco più di duemila esametri. Nel libro I si cantano i lavori campestri, con speciali istruzioni sui pronostici del cielo; nel II la coltivazione degli alberi, in particolare quella della vite; nel III l'allevamento del bestiame, con riguardo alle malattie epidemiche; nel IV la coltura delle api. Sia nella sua interezza sia nelle singole parti, l'argomento era tutt'altro che nuovo. Vi si riconoscono, insieme coi frutti dell'esperienza agricola personale di Virgilio, influenze e derivazioni d'un gran numero di fonti, sia in verso sia in prosa, greche e romane: di Esiodo, di Arato, di Nicandro, di Eratostene, di Catone, e specialmente di Varrone (i cui Rerum rusticarum libri erano stati pubblicati poco prima, nel 37 a. C). Ma pure la trattazione virgiliana è, sotto tutti gli aspetti, segnata di vivissima impronta originale. Come nel De rerum natura di Lucrezio, così qui ci accorgiamo subito che la materia didascalica ha perduto ogni didascalicità, perché è profondamente pervasa dalla passione, dal sentimento, dall'afflato lirico dell'autore. Questo si manifesta soprattutto nei proemî, negli epiloghi, nelle digressioni: per es., nella rappresentazione dei prodigi che accompagnarono la morte di Giulio Cesare e nella preghiera agli dei di salvare per il bene dello stato il giovane Ottaviano (I, vv. 463-514), nella famosa celebrazione dell'Italia magna parens frugum (II, vv. 136-176), nelle lodi della vita agricola (II, vv. 458-542), nella lugubre descrizione della moria degli animali nel Norico (III, vv. 478-566), nel meraviglioso racconto del duplice episodio mitologico di Aristeo e di Orfeo ed Euridice, con cui ha termine il poema (IV, vv. 315-558). D'altronde i proemî, gli epiloghi, le digressioni non adempiono una funzione puramente ornamentale: sono l'espressione più splendida, più accentuata di quell'armonia interiore che percorre tutta l'opera, e che a tutta l'opera comunica il fiato della poesia, togliendole ogni arido carattere di trattazione precettistica.
Alle Georgiche Virgilio lavorò con lenta industre fatica, per parecchi anni, fra il 37 e il 30 a. C.: le condusse a compimento proprio quando Ottaviano, vincitore di Antonio nella battaglia d'Azio, procedeva per mezzo della guerra alessandrina alla conquista dell'Egitto e alla sistemazione dell'Oriente. Anzi, il poema si chiudeva allora con un elogio dell'amico carissimo Cornelio Gallo, compagno di Ottaviano nella guerra stessa alessandrina e primo governatore dell'Egitto, elogio che (secondo una testimonianza cui non abbiamo ragione di negare fede) fu poi da Virgilio in successiva edizione cancellato e sostituito con l'episodio mitologico di Aristeo e di Orfeo, dopoché Cornelio Gallo, nel 26 a. C., caduto in disgrazia per gravi sospetti di ribellione, era costretto a darsi la morte.
Negli anni che immediatamente seguirono al compimento delle Georgiche, mentre Ottaviano tornava vittorioso in Italia a inaugurare col titolo di Augusto la nuova storia di Roma e dell'Impero, cioè proprio fra il 29 e il 27 a. C., veniva concepita l'Eneide. Certo, gli eventi e le impressioni memorabili di quegli anni, il ritorno di Ottaviano dalle vittorie d'Azio e d'Oriente, la generale pacificazione da lui compiuta e solennemente espressa con la chiusura del tempio di Giano, la consacrazione della sua autorità col nuovo titolo di "principe" e di "Augusto", le idee di potenza, di gloria, di missione civile ed eterna che si riverberavano sull'Urbe (onde Orazio s'ispirava per le sue cosiddette "Odi romane" e Tito Livio per le sue storie) furono i motivi che più direttamente indussero il cantore dei campi a slanciarsi per le ardue vie del poema eroico. Con ciò egli sviluppava germi di epopea che già prima si erano agitati nell'innata grandezza del suo spirito; per cui soltanto occorreva che i tempi fossero maturi. Infatti nelle Georgiche, alludendo all'impulso interiore che lo chiamava a levarsi di terra verso maggiori altezze, aveva promesso un poema su Augusto (quando ancora non era Augusto, bensì Cesare Ottaviano), un poema simboleggiato nell'allegorica espressione d'un gran tempio di marmo. "È da tentare la via onde anch'io possa elevarmi di terra e volar vittorioso per le bocche degli uomini. Primo io in patria, se la vita mi basti, condurrò dai vertici dell'Elicona le Muse; primo a te, Mantova, offrirò le palme della gloria, e nella verde campagna alzerò un tempio di marmo, presso l'acqua dove in lenti giri il Mincio si espande e di tenere canne riveste le rive. Nel mezzo starà Cesare, che dominerà il tempio" (III, vv. 8 segg.). Ora, tuttavia, nel mettersi all'opera, Virgilio sentiva come non dovesse fare argomento diretto ed esplicito del suo canto le gesta stesse del principe, le quali erano troppo legate alla contingenza storica. E, con la sublime avvedutezza del genio, trasferì in modo radicale tutto il presente e il contingente, cioè le gesta di Augusto e le aspirazioni e le glorie del novello impero, in una visione più larga, che comprende l'immensità del passato e del futuro, e s'illumina della luce sacra proiettata dal mito, dalla religione, dal fato, dalle predizioni e disposizioni eterne. Per questo, al posto di Augusto nell'azione del poema (nel mezzo del bel "tempio di marmo") è sottentrata una figura mitica, Enea: ossia colui che, in primo luogo, era considerato come il progenitore del principe e della casa giulia (e ciò serviva a mescolare la gloria dell'antenato a quella del discendente), ma poi e soprattutto appariva come il fondatore e il rappresentante ideale dello stato romano (e ciò permetteva di far gravitare intorno a Roma l'interesse tutto del poema). Quindi, in sostanza, vero e vivo protagonista dell'opera, assai più che Augusto e assai più che Enea stesso, veniva a essere lo spirito eterno di Roma. E per mezzo di Roma, ch'è intesa come idea, come forza morale, come fonte del benessere e della civiltà umana, la poesia ha potuto sciogliersi, anche nell'Eneide, da tutti i rapporti contingenti, per assurgere alla sua propria sfera, che è quella degl'interessi universali.
Nel concepire l'Eneide, Virgilio, che pur era stato in certo modo l'erede e il continuatore dei poetae novi, si riavvicinava alla tradizione della poesia arcaica; si rimetteva sulla linea dell'antica poesia epica romana, di Ennio, di Nevio, dei carmi convivali, che avevano avuto il compito di esaltare gli eroi della patria e particolarmente avevano mescolato ai fatti storici gli aspetti leggendarî, anzi alle glorie cotidiane dei prodi aveva proprio congiunto questo stesso mito grandioso, di Enea e delle origini dell'Urbe. In Virgilio le cose presenti e le passate, la storia e la leggenda, la realtà e l'idea appaiono fuse con procedimento fantastico di gran lunga più radicale, più interno ed efficace che non nei suoi predecessori: poiché tutti gli elementi storici, come le gesta di Ottaviano e le glorie e le aspirazioni del novello impero, invece di essere esposti direttamente e continuamente come materia narrativa, sono inseriti soltanto per via indiretta, in forma di digressioni profetiche e favolose, e rappresentano lo spirito animatore di quell'unico argomento che è costituito dalla leggenda di Enea e della sua venuta in Italia. Perciò Virgilio ha superato nettamente la concezione annalistica di Ennio, la consuetudine di raccontare i fatti nella loro estensione e successione cronologica (come era proprio del vecchio tipo degli Annales), e ha attinto, piuttosto, alla maniera dei poemi omerici, in cui l'ordine materiale è sovvertito, con caratteristico balzo di fantasia, in modo da dare rilievo soltanto a ciò ch'è vivo, a ciò ch'è essenziale, a ciò che è capace di effetto drammatico. Senza dubbio Virgilio ha guardato a Omero come a suo massimo modello. Infatti, pur dandoci un poema di soli dodici libri, assai più breve dell'Iliade e dell'Odissea (brevità che evidentemente gli era suggerita dai principî dell'arte nuova, alessandrina e alessandrineggiante), ha cercato che da solo esso corrispondesse a entrambi i poemi omerici: i primi sei libri in cui si narrano le peregrinazioni di Enea dalla distruzione di Troia all'approdo in Italia, dovevano assomigliarsi all'Odissea; gli altri sei, che contengono il racconto delle vicende di guerra per la conquista del Lazio, dovevano assomigliarsi all'Iliade.
La divisione dell'Eneide in due parti è nettamente segnata dal contesto; poiché al proemio del I libro corrisponde un altro proemio nel libro VII, dove l'autore annunzia il più grave compito che lo attende (maius opus moveo, VII, v. 38). Come nell'Odissea, così nell'Eneide l'azione incomincia con un intervento di dei; e incomincia quando già sono in gran parte svolte le peregrinazioni dell'eroe: le quali vengono perciò drammaticamente rievocate sulla bocca dell'eroe stesso. La trama è abbastanza semplice. Enea coi Penati di Troia distrutta, col vecchio padre Anchise e il figlioletto Ascanio (detto anche Iulo, come capostipite dei "Giulî") e con altri profughi, assistito dalla madre Venere ma perseguitato da Giunone, erra da lungo tempo sui mari in cerca della nuova patria promessagli dai Fati, quando, già vicino alla meta, una tempesta lo sbatte naufrago sulle coste dell'Africa. Qui stava sorgendo la futura rivale di Roma, Cartagine. Alla regina Didone, che ospitalmente lo accoglie, egli fa il racconto della distruzione di Troia e delle precedenti avventure. E subito un'avventura nuova si apre: l'amore che viene a legare l'eroe troiano alla bella regina di Cartagine. L'amore fiorisce, finché Enea, ammonito dai Fati, deve riprendere il mare, e Didone disperata si toglie la vita. Questi episodî erano già, almeno in parte, alla base del Bellum Poenicum di Nevio; in cui la guerra fra Roma e Cartagine (1ª guerra punica) veniva riallacciata ai precedenti mitici dell'incontro di Enea con Didone; di per sé stessa poi l'avventura d'amore si prestava anche a essere trattata con intendimenti alessandrini, specialmente con imitazione del famoso episodio di Medea nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Staccatosi da Didone, il fuggiasco arriva in Sicilia, dove dà sepoltura al padre Anchise; poi a Cuma, dove visita la Sibilla e discende nell'oltretomba per attingere la definitiva certezza del suo destino e le chiare predizioni della futura grandezza di Roma. Qui gli sono mostrate, fra l'altro, le anime dei discendenti che renderanno eterno il nome suo e dell'Urbe, dai re albani e da Romolo fino ad Augusto e ai nipoti d'Augusto. Con tale visione, culminante, ha termine la prima parte dell'opera; e comincia la seconda. Infatti l'eroe approda finalmente alle rive del Tevere, dove sta per ottenere il promesso regno insieme con la mano di Lavinia, figlia del re Latino. Sennonché Lavinia è assegnata dalla madre sua Amata - in dissidio col padre - a Turno, re del vicino popolo dei Rutuli. Da questa rivalità d'amore e da più gravi disegni dei Fati scoppia la guerra, a cui partecipano, dividendosi le une contro le altre, tutte le genti d'Italia; per Enea è il re Evandro, profugo dell'Arcadia, che abita la rustica dimora del Palatino, dove sorgeranno un giorno i più fastosi palazzi di Roma; per Turno è, fra gli altri, il feroce Mezenzio, principe etrusco. La guerra, che ha alterne vicende, gentili episodî di prodezza e pietose scene di strage (onde muoiono, ad es., sia il giovinetto figlio di Evandro, Pallante, sia quello di Mezenzio, Lauso, e gl'inseparabili Eurialo e Niso, e la vergine Camilla), si chiude nell'ultimo canto col duello in cui Turno cade vinto dalle armi di Enea e dal Fato.
È facile riconoscere, o congetturare, nell'Eneide un'infinità di derivazioni da autori sia greci sia latini, specialmente da Omero; ma anche dai ciclici, da Stesicoro, dai tragici, dagli orfici, da Apollonio Rodio, da Timeo, da Nevio, da Ennio, da Catone, da Varrone, ecc. I poemi omerici hanno suggerito il tipo generale della composizione (pur corretto con influenze alessandrine), l'uso dei principali espedienti tecnici, in particolare le caratteristiche forme del meraviglioso, che si manifestano nell'apparato della mitologia, nell'intervento delle divinità, e simili. Ma d'altra parte proprio per l'aspetto religioso, mitologico e ideologico, Virgilio ha pur saputo imprimere alla sua opera il suggello della romanità: ha voluto che la sua Eneide fosse il poema della fede e della storia antichissima d'Italia; ha cercato di adeguarsi in tutto e per tutto ai principî della restaurazione religiosa e morale che si veniva allora svolgendo nel nome di Augusto. Per questo egli ha attinto largamente alle fonti romane e italiche, ai costumi, ai riti, alle memorie sacrali e storico-leggendarie delle diverse genti della penisola, soprattutto servendosi delle Origines di Catone e delle opere antiquarie di Varrone. Esplicite testimonianze c'informano che a tale preparazione egli si dedicò con cure infinite. Ed è mirabile, poi, come sia riuscito a trasformare e ravvivare poeticamente la complessa materia erudita. Nonostante le svariate derivazioni tecniche e dotte, nonostante le spiccate analogie di composizione con Omero, Virgilio è, anche nell'Eneide, poeta originalissimo, e soprattutto è poeta dei proprî tempi. L'Eneide non può considerarsi come un poema di stile omerico, bensì come un poema essenzialmente moderno. Poema "moderno" esso è, non soltanto perché vi sono mescolati e applicati i principi estetici dell'arte neoterica e alessandrina (come quello della "brevità"), ma specialmente perché vi sono incanalate le correnti dell'anima nuova, d'un'epoca che stava già sulla soglia del cristianesimo. Virgilio ha compiuto il miracolo rarissimo di far fiorire la poesia eroica dal seno di una coscienza matura, nutrita di esperienza storica e di filosofia. La differenza rispetto al modello omerico non potrebbe essere più profonda. Omero mirava, più che altro, alla rappresentazione dei fatti esterni, pur illuminandoli con un alto patetico senso di umanità; Virgilio invece rivolge l'attenzione ai moventi psicologici, ai travagli spirituali, alle leggi misteriose eterne che governano i fatti e il divenire della storia. Qui noi ritroviamo il nostro poeta nei suoi aspetti più personali e suggestivi; lo ritroviamo tormentato dal senso del dolore, ansioso di pace, di rivelazione. È importante vedere com'egli abbia combinato questo suo spirito, fondamentalmente antieroico ed elegiaco, con la necessità e col proposito di cantare, in forma epica, le glorie di Roma. Davanti alle imprese di guerra e di conquista egli non tanto si esalta, quanto invece si duole per i patimenti e per gli strazî, che quelle comportano: sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt ("la storia è lacrime, e l'umano soffrire commuove la mente", I, v. 262). L'eroe stesso che egli colloca alla testa di ogni azione, il pius Aeneas, è interprete genuino della sua anima; e ne mostra l'impronta persino nel costante attributo di "pio": eroe che aborre dalla guerra e da ogni azione crudele o violenta (non solo nei rapporti coi nemici, da lui a malincuore combattuti, ma nei rapporti con Didone, da lui a malincuore e pur crudelmente abbandonata), aborre da queste cose, e soltanto vi si presta per sentimento religioso, per obbedire al Destino, per eseguire una suprema missione di cui è investito; poiché i Fati comandano di procedere, contro tutti gli ostacoli, e fondare Roma. Il poema è pieno di lacrimevoli morti (i giovinetti Lauso e Pallante, Eurialo e Niso, ecc.) e di compianto per le rovine che la violenza semina fra gli uomini. È ancora, in certo senso, come le Bucoliche e le Georgiche, il poema del dolore. Ma più che mai sopra il campo insanguinato della vita e della storia l'autore vede risplendere ora una luce, che è la luce del vero eroismo: la violenza dominata dall'idealità dello scopo, santificata dallo spirito di sacrificio, quasi incoronata dalla dignità morale del soffrire e dell'immolarsi per un fine più alto.
Per questo, nella trama del poema (la quale è diretta da una logica sapiente), egli, più che qualsiasi altro genere d'idee e di episodî, ha copiosamente introdotto idee ed episodî di sacrifici eroici, consapevoli; per questo ha plasmato le figure immortali di quei giovani caduti: Pallante, Lauso, Camilla, anime generose, amanti della gloria e prodighe della vita; e un posto sopra tutti cospicuo ha dato all'indimenticabile coppia, Eurialo e Niso, celebrandoli come simbolo della giovinezza romana serenamente votata al sacrificio per la patria. L'eroicità, che non èpiù sentita negli aspetti materiali e orrendi della guerra, della conquista, si trasferisce per Virgilio nel campo sublime degli scopi ideali, morali e civili. Lo scopo più alto, e comprensivo, che si esprime sia nei suddetti episodî sia nell'azione tutta del poema, è la grandezza di Roma e l'impero: per cui infatti (come Dante ha inteso) "morì la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute", per cui, nella notte dei secoli, Enea e i suoi andarono peregrinando e combattendo, e per cui dopo d'allora altri innumerevoli lotteranno e soffriranno. L'Impero è la pace imposta alle genti, la civiltà propagata sul mondo; come infatti nell'infinito dell'oltretomba Anchise disegna e precisa ai nepoti col famoso comandamento: tu regere imperio populus, Romanae, memento, ecc. (VI, 851 segg.).
Certo a Virgilio non sfuggivano i gravi problemi storici e filosofici che con tale concezione si collegavano, e intorno ai quali altri pensatori si erano tormentati: perché a Roma dovesse essere affidata la missione direttiva della storia umana. Ma ormai questa era materia di fede, davanti a cui Virgilio s'inchinò. E fece che il mistero pervadesse da un capo all'altro il poema, col senso meraviglioso del divino, con la voce inesplicabile della Provvidenza, col concetto sublime della predestinazione.
La concezione della vita e della storia, che si era formata nel passaggio dalle Bucoliche alle Georgiche, trova nell'Eneide il suo definitivo coronamento. Alle idee e ai sentimenti epicurei, di un mondo dominato dall'ingiustizia, dall'arbitrio, dal caso, sottentrano, in maniera più che mai decisa, idee e sentimenti religiosi, fondati sul concetto d'una Provvidenza divina. Infatti, staccandosi dall'epicureismo, Virgilio si era di grado in grado avvicinato alle correnti di altre filosofie, a fondo mistico, come il neopitagorismo e il neostoicismo, che prendevano voga per l'appunto in quegli anni, nel rasserenato clima d'Augusto, dove trovavano corrispondenza coi propositi di restaurazione religiosa e morale attuati dall'imperatore. Tutta la compagine dell'opera è veramente costruita e tesa intorno alle idee fondamentali della grandezza di Roma e della predestinazione di Roma al governo civile dei popoli.
Intorno all'Eneide l'autore lavorò intensamente per una decina d'anni, dal 29 a. C. fin quasi al momento della morte (22 settembre del 19 a. C.). L'opera era attesa; desiderata da Augusto; annunziata da Properzio. Ma non poté Virgilio darle l'ultima mano: tanto che vi sono rimaste incoerenze di composizione e, qua e là, alcuni versi incompiuti e provvisorî (che l'autore chiamava "puntelli"). Nel 19 a. C. egli era partito alla volta della Grecia e dell'Oriente con lo scopo di attingere nozioni o ispirazioni che dovevano essergli utili per una generale e definitiva elaborazione. Ammalatosi durante il viaggio di ritorno, moriva appena sbarcato a Brindisi, non senza avere prima disposto che il poema, di cui non si sentiva soddisfatto, fosse dato alle fiamme. Augusto provvide ch'esso fosse pubblicato per cura degli amici più affezionati, Vario e Tucca; mentre al poeta veniva data sepoltura a Napoli, sulla via di Pozzuoli, probabilmente nella villa stessa dove in tranquillo ritiro egli aveva trascorsa gran parte della vita. Sulla tomba sorse il modesto e pur significativo epitafio:
Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nune
Parthenope: cecini pascua, rura, duces.
che la tradizione vorrebbe dettato dal poeta stesso nell'ora della morte, e che in ogni caso risale ad epoca assai antica.
Edizioni. - La prima edizione con intento critico fu fatta nel secolo I d. C. da Valerio Probo; da cui in gran parte dipende la successiva tradizione, rappresentata dai più antichi manoscritti a noi pervenuti, che sono - oltre a qualche frammento papiraceo e a "schede" varie - il Mediceo 39, 1 (M) del sec. IV-V, e il Palatino-Vaticano 1631 (V), pure del sec. IV-V (cfr. G. Funaioli, Il valore del Mediceo nella tradizione manoscritta di Virgilio, in Atti della Società italiana per il progresso delle scienze, IV, Pavia 1933; e, nei riguardi di Probo, A. Rostagni, Recensioni critiche di Probo, in Riv. di Filol. class., n. s., XII, 1934, p. 13 segg.; G. Pasquali, Storia della tradizione, ecc., Firenze 1934). Su tali manoscritti, cui va attribuita speciale importanza a confronto con altri di epoca seriore (che prevalsero presso gli umanisti e poi per molto tempo ancora) sono costituite le più recenti e migliori edizioni critiche: prima di tutte quella di O. Ribbeck, Lipsia 1859-68, 2ª ed., 1894-95, voll. 4 (con famosi Prolegomena), la quale ha servito di base a parecchie altre, di A. Hirtzel. Oxford 1900, di W. Janell,. Lipsia 1920, 1930, 1936, ecc.; ma è ormai sostituita dall'edizione nazionale, di R. Sabbadini, voll. 2, Roma 1930. Quanto all'"Appendice Virgiliana", edizioni principali sono: Ae. Baehrens in Poetae latini minores, II, Lipsia 1880; R. Ellis, Oxford 1907; G. Curcio, Catania 1905-08; F. Vollmer, Lipsia 1909. A queste s'aggiungono varie edizioni parziali, critiche o anche esegetiche. Per il Catalepton: T. Birt, Lipsia 1910; R. Sabbadini, Torino 1918; E. Galletier, Parigi 1920. Per il Culex: F. Leo, Berlino 1891; Ch. Plésent, Parigi 1910. Per la Ciris: G. Nemethy, Budapest 1909; M. Lenchantin, Torino 1930. Per l'Aetna: S. Sudhaus, Lipsia 1898; J. Vessereau, Parigi 1905 e 1924; M. Lenchantin, Torino 1926. Ai fini dell'esegesi hanno molta importanza i commentarî degli antichi grammatici, specialmente quello di Servio (che raccoglie materiale da tutta la tradizione antecedente, fra il sec. I e il V d. C.), nell'ediz. di Thilo-Hagen, Lipsia 1881-87, 1902. V. G. Funaioli, Esegesi virgiliana antica, Milano 1930.
Le moderne edizioni commentate, complete o parziali, sono innumerevoli. Fra le complete ricordiamo: Heyne-Wagner, voll. 5, Lipsia 1830-1841; Conington-Nettleship-Haverfield, Londra 1898; E. Benoist, Parigi 1866-67; Plessis-Lejay, ivi (interrotta); Ladewig-Schaper-Deuticke, Berlino 1912. Fra le parziali: per le Bucoliche, E. Stampini, Torino 1889 (I-V); G. Albini, Bologna 1920; C. Hosius, Bonn 1915, per le Georgiche, E. Stampini, Torino 1900 (I-II); A. Waltz, Parigi 1911; R. Billiard, ivi 1931; per l'Eneide, R. Sabbadini, Torino 1884-88; I. W. Mackail, Oxford 1930. Vi sono anche edizioni commentate a singoli libri, fra cui specialmente importante quella di E. Norden, Lipsia 1916 (2ª ed.) al VI; e di A. S. Pease, Cambridge Mass. 1935, al IV dell'Eneide.
Bibl.: Una recente e sistematica rassegna bibliografica è fornita da F. Peeters, A bibliography of Vergil, New York 1933. Per la vita del poeta fonte principale sono le antiche biografie (prima fra tutte quella di Svetonio, nella redazione di Donato), che si trovano raccolte in I. Brummer, Vitae vergilianae, Lipsia 1912, in E. Diehl, Die vitae Verg. und ihre antiken Quellen; commentate in Nettleship, Ancient Lives of Vergil, Oxford 1879. Trattazioni generali, di carattere soprattutto biografico, o a sfondo storico-letterario: W. Y. Sellar, Virgil, 3ª ed., ivi 1898; A. Bellesort, Virgile, son oeuvre et son temps, Parigi 1920; T. Frank, Vergil, a biography, New York 1922 (trad. ital. Lanciano 1930); N. W. De Witt, Vergil's Biographia litteraria, Oxford 1923; A. Rostagni, V. minore, Saggio sullo svolgimento della poesia virgiliana, Torino 1933. Di carattere più strettamente estetico: C.-A. Sainte-Beuve, Étude sur Virgile, 3ª ed., Parigi 1878; H. W. Prescott, The developemnt of Vergil's art, Chicago 1924; E. Turolla, V. (profilo), Roma 1927; T. Fiore, La poesia di V., Bari 1930; A. Mocchino, V., Milano 1930; A.-M. Guillemin, L'originalité de Virgile, Parigi 1931; E. K. Rand, The magical art of Vergil, Cambridge Mass. 1931. Per quel che riguarda in particolare l'orientamento intellettuale e religioso: V. Ranzoli, La religione e la filosofia in V., Torino 1900. Vengono poi le trattazioni sulle singole opere. Sull'"Appendice Virgiliana" la ricchissima bibliografia e le infinite e complicate controversie sono riassunte in Schanz-Hosius, Geschichte der römischen Litteratur, II, Monaco 1935; ma v. T. Frank, op. cit.; A. Rostagni, op. cit., oltre a trattazioni speciali riguardanti la giovinezza di V.: F. Skutsch, Aus Vergils Frühzeit, Lipsia 1901; T. Birt, Jugendverse und Heimatpoesie Vergils, Lipsia 1910 (ediz. e commento del Catalepton; ecc.); B. Nardi, The youth of Virgil, Cambridge Mass. 1930. Sulle Bucoliche: A. Cartault, Étude sur les Bucoliques, Parigi 1897; J. Hubaux, Le réalisme dans les Bucol. de Virgile, Liegi 1927; L. Hermann, Les masques et les visages dans les Bucol. de Virg., Bruxelles 1930 (con interpretazioni allegoriche per lo più esagerate e inammissibili); E. Norden, Die Geburt des Kindes, Berlino 1924; J. Carcopino, Virgile et le mystère de la IVe éclogue, Parigi 1930; H. Jeanmaire, le messianisme de Virgile, ivi 1930; W. W. Tarn, Alexander Helios and the golden age, in Journal of Roman Studies, XXII (1932), p. 135 segg. Sulle Georgiche: M. Schmidt, Die Komposition von Vergils Georgika, Paderborn 1930; e per quel che riguarda la materia agricola: C. Ulpiani, Le Georgiche, Portici 1917; R. Billiard, L'agriculture dans l'antiquité, d'après les Géorgiques, Parigi 1928; P. D'Herouville, À la campagne avec Virgile, ivi 1930. Sull'Eneide, A. Gercke, Die Entstehung der Aeneis, Berlino 1913; R. Heinze, Vergils epische Technik, Lipsia 1915; E. Norden, Ennius und Vergil, ivi 1915; N. W. Fowler, Virgil's gathering of the clans, Oxford 1916; id., Aeneas at the site of Rome, ivi 1917; id., The death of Turnus, ivi 1919; J. Carcopino, Virgile et les origines d'Ostie, Parigi 1919; G. Funaioli, L'oltretomba nell'Eneide, Palermo 1924; A. Cartault, L'art de Virgile dans l'Énéide, Parigi 1926; F. Arnaldi, L'Eneide e la poesia di V., Napoli 1932. Sulle varie opere v. anche la serie degli Studî virgiliani dell'Istituto di studî romani, voll. 2, Roma 1931. Per i miti di Enea e Didone, oltre alle singole voci, v. E. Penquitt, De Didonis Vergilianae exitu, Königsberg 1910.
La tradizione di Virgilio.
Nessun poeta ha esercitato un'azione così continua e profonda al pari di V.; la sua opera ha svolto una funzione formativa per parecchi secoli; anzi, intere epoche culturali si sono nutrite e modellate sulla sua arte: egli ha dominato incontrastato per tutto il Medioevo e il Rinascimento, con un'influenza multiforme e perfino tirannica. Se si pensa che l'Eneide, oltre a costituire il poema della più grande romanità, è stata accettata anche dalla cultura cristiana e ha rappresentato il modello più alto per la poetica del Rinascimento, si dovrà riconoscere che soltanto V., fra tutti i poeti della classicità, ha goduto di una eredità ininterrotta.
L'aspetto prodigioso della sua fortuna non consiste soltanto nella continuità della sua tradizione, quanto nel fatto che sulla sua poesia si sono misurati diversi tipi di cultura, ciascuno con la sua inimitabile mentalità, con le sue particolari esigenze, con un senso inconfondibile e contrastante della realtà spirituale. Certo l'insegnamento e gli ambienti scolastici ne sono stati il primo e decisivo tramite, ché consacrarono solennemente i valori pedagogici, didascalici, formali del massimo poeta latino. Della vita e delle opere di V. scrissero, dapprima, alcuni contemporanei, come l'amicissimo Varo, e Igino, il bibliotecario d'Augusto; poi, nel sec. I d. C., Modesto, Anneo Cornuto, Asconio Pediano, Valerio Probo. Il lavoro storico e specialmente esegetico si sviluppò moltissimo nel sec. II, per merito di commentatori, come Emilio Aspro, Velio Longo, Terenzio Scauro (per non dire di Svetonio, che compose la biografia del poeta, a noi conservata). L'Eneide rimase il poema della maggiore e inappellabile autorità in fatto grammaticale e linguistico. I secoli terzo, quarto e quinto ne segnano la più grande fortuna in senso retorico, oratorio, formale, poiché, anche quando la vita letteraria si limitò alla pura esercitazione stilistica, V. fece testo, trasmettendo attraverso l'imitazione esteriore qualche germe lirico e qualche risonanza del suo più sostanziale contenuto; e sebbene il suo primo trionfo sia celebrato dal gusto della più decadente latinità, tuttavia quest'attività scolastica e formalistica ha avuto il merito di stabilire in modo definitivo la coscienza del genio virgiliano. Ne furono gli apologisti ed esegeti Elio Donato, Servio, T. Cl. Donato, Macrobio, Fulgenzio; ne accompagnarono, Servio sopra tutti, la lettura per tutto il Medioevo, fino al Rinascimento, nel quale cominciarono ad essere sottoposti al rigore della critica. La biografia del primo costituì la principale conoscenza storica di V., e gli stessi umanisti l'accettarono e l'alterarono perfino; il commento di Servio rappresentava una fonte minuta e feconda per appagare la piccola curiosità medievale intorno al sapere degli antichi; non solo, ma esso stesso fu assunto a modello offrendo lo schema più autorevole ai chiosatori medievali. Accanto all'Eneide si moltiplicarono i commenti alle Bucoliche e alle Georgiche: sono più recenti quelli che vanno a torto sotto il nome di V. Probo, mentre di E. Donato ci sono giunti tre capitoli dell'esposizione sulla Bucolica; testimoniano dell'assiduo lavorio esegetico gli Scolii Veronesi e gli Scolii Bernensi, estratti di note dovute a T. Gallo, Gaudenzio e G. Filargiro, che risalgono al sec. V.
Siamo ancora, nonostante le molte storture e le eterogenee incrostazioni, in presenza d'un'interpretazione fedele, anche se modesta e marginale, in rapporto del resto alla coscienza sempre più limitata e annebbiata che si aveva della civiltà romana. Il documento, invece, che riveste singolare interesse come la prima dispiegata affermazione d'una mentalità più decisamente medievale è l'opera di Fulgenzio, tra il sec. V e il VI, il De continentia Vergiliana, attraverso cui l'Eneide subisce un'interpretazione allegorica e morale, che trasporta il poema in un piano astratto e universalistico, agevolando così la penetrazione di V. negli ambienti ecclesiastici e ortodossi. L'Eneide è intesa come una complessa metafora della vita umana: del resto anche in Dante ci sono residui di questa valutazione, e lo stesso Petrarca che insisteva sui valori poetici del poema non ne escludeva i sensi anagogici ed eterocliti. Anche attraverso a questa mistificazione di natura squisitamente medievale e cattolica, V. è stato assai produttivo, ché sulla traccia di Fulgenzio si estendeva la medesima violenza a tutta la poesia latina, compreso l'Ovidio moralizzato. In questo processo di cristianizzazione dell'opera virgiliana ha influito in modo singolare la quarta egloga con il suo tono profetico e visionario, con la sua solenne promessa d'un'età pacificatrice e redentrice, che fu scambiata come sicuro presagio dell'avvento di Cristo. Nei misteri francesi, ad es., V. è messo nel corteo dei profeti, assieme alla Sibilla, e non è senza significato che negli Uffizi latini d'Orléans sia intercalato qualche suo verso, che ricompare perfino nell'Auto spagnolo dei Re Magi. Dante, mosso da un più cauto senso storico, ha temperato l'interpretazione, ma nell'episodio di Stazio ne ha tuttavia celebrato il valore anticipatore, quasi inconscio ma non meno profetico. S'intende allora come la stessa personalità storica ed empirica di V. apparisse in una luce di magia, deformante e paradossale; ma la vita portentosa di V., poeta e profeta, saggio e mago, vate e taumaturgo, che cronache e poemetti rielaborano, è anch'essa frutto d'una mentalità colta, fors'anche monastica, scesa al livello della credulità popolaresca: alcuni episodî sono riferiti da Corrado di Querfurt, da Gervasio di Tilbury, da Alessandro Neckam, da Giovanni di Salisbury; molti ne entrarono nella letteratura romanzesca ed enciclopedica, come nell'Image du monde, nel Romax de septs sages, nel Cleomadès, nel Renart le Contrefait, fino alle elaborazioni minori: Les faitz merveilleux de Virgile, il Virgilio mantovano, la leggenda di Barliario.
Ma V. e la sua opera sono qui abbassati a puro contenutismo narrativo, senza che la sua poesia operi come elemento stilistico. Viceversa, pur nello stesso clima culturale, anzi ai primi grandi e corali inizî di questa letteratura romanzesca ed erotica, l'Eneide ha risposto al senso originalissimo dell'avventuroso, dell'esotico, del meraviglioso, del sentimentale, di cui è pervaso il Roman d'Eneas, composto verso il 1160 da un francese di Normandia, libero e immaginoso rifacimento del poema latino, con un travestimento cavalleresco, cortese, quasi ariostesco, che ha trasfigurato completamente il testo originale: ancora una volta V. subiva una metamorfosi e appagava un gusto artistico completamente nuovo (e non si dimentichi che l'Enide di Enrico di Veldeke si rifà al poema francese, attraverso cui immette nella letteratura tedesca, la materia cortese).
E così a Dante la conoscenza di V. perveniva ricca di sensi e consolidata da una tradizione secolare, ma anche violentata da interpretazioni mistificatrici e soprattutto da una insufficiente adesione al testo lirico. S'intende come la personalità di V., la cui poesia non conosceva tramonti, costituisse per Dante la più luminosa guida nel regno dell'arte e del sapere: e V. fu per lui maestro di stile, modello insuperato di eccellenza formale, ma anche il simbolo dell'umana ragione, colui che con le sole forze dell'intelletto aveva raggiunto il più alto vertice della terrena perfezione. Tutti gli aspetti più intrinseci e vitali della tradizione virgiliana si chiariscono e si organizzano nella coscienza dantesca; ma con un più profondo e congruo riconoscimento dell'umanità spirituale e politica di V. e con un più potente sentimento della sua romanità. Dante classicheggiante e nazionalista ritrova le sue fonti ideali nell'Eneide, ed è per suo tramite che giunge alla concezione laica dello stato e dell'impero: in ciò maestro del Petrarca e dello stesso Cola di Rienzo. È del resto su questo piano nazionalista che il Petrarca componeva la sua Africa: con Dante e con Petrarca V. ristabilisce la continuità ideale fra la storia di Roma e il giovane spirito italiano. Ma nel ricomporre la sua fisionomia spirituale e psicologica, Dante intuì i caratteri più riposti dell'anima virgiliana: la pensosa mitezza, il senso trepidante e quasi doloroso del divino, la purezza dell'esperienza sentimentale, la concezione della vita come una grande e insonne fatica; ma soprattutto ne sentì il valore lirico e stilistico, che nel contemperamento dell'espressione solenne e studiata con l'aderenza profonda alle cose rappresentava il modello d'ogni poesia colta. Dante rimane il più geniale interprete di V.: e subito il culto per Dante fu accomunato a quello di V., da Giovanni del Virgilio a Benvenuto da Imola, fino allo spagnolo Enrique de Villena che nello stesso anno traduceva l'Eneide e la Divina Commedia.
L'Umanesimo e il Rinascimento hanno approfondito la conoscenza critica, filologica, quasi scientifica; hanno misurato la loro poetica sul magistero di V.; ma soprattutto vi hanno derivato nuovi filoni poetici. Il più produttivo e il più tipico è quello bucolico, e non tanto come imitazione pedissequa secondo le Egloghe di Dante, di Giovanni del Virgilio, Petrarca, Boccaccio, quanto in senso estetizzante, mitico, sentimentale, come l'Ameto del Boccaccio e l'Arcadia del Sannazzaro fino alle grandi imitazioni straniere, spagnole soprattutto: danteschi e virgiliani furono i grandi italianisti castigliani, dal marchese di Santillana a Juan de Mena, al Boscán, a Garcilaso, che è fra i pochi poeti moderni che hanno sentito la dolce malinconia sognatrice di V. Ma è l'Italia che nel Cinque e Seicento ha discusso V.: si può dire che la cultura critica ed estetica si è sviluppata in funzione di V. e in rapporto all'intelligenza del poema epico. I maggiori aristotelici, gli scrittori più universalistici, i temperamenti più critici si sono misurati sulla lettura dell'Eneide: da A. Decembrio (Politio litteraria) al Pontano (Actius), allo Scaligero, al Castelvetro, fino alla tenace meditazione del Tasso: Maffeo Vegio aggiungeva un tredicesimo libro, apoteosi conclusiva della grande esperienza di Enea. L'Eneide risolveva in particolar modo il problema dell'unità del soggetto e del protagonista senza tuttavia annullare la varietà del contenuto, e appagava, con un equilibrio che per la poetica del Rinascimento aveva del prodigioso, le esigenze del "verisimile" e del "fantastico". Risulta complessivamente che la cultura italiana ha sentito V. come poeta della propria tradizione: le stesse traduzioni rivelano in questo senso la maggiore aderenza della lingua italiana all'espressione latina, da quella sommaria di Andrea Lancia, che traduceva un riassunto latino dell'Eneide composto poco prima da un prete Nastagio, all'opera antologica di Guido da Pisa, fino alla traduzione completa di Giampolo di Meo degli Ugurgieri da Siena.
Dopo altri tentativi fatti nel Quattrocento (bella la traduzione delle Bucoliche di Bernardo Pulci), il poema di Enea si travestiva nel facile verso di G. A. dell'Anguillara e riviveva con un senso lieve e sonoro nell'endecasillabo del Caro. E non è senza significato che anche nel Sette e Ottocento, pur mutato il clima letterario, forti personalità poetiche si siano rivolte alla diretta interpretazione di V.: dall'Alfieri al Leopardi, al Prati fino al Pascoli. È però ovvio che nelle letterature moderne V. non ha più funzione formativa e determinante, ma a lui si sono adeguati per affinità singoli poeti nella solitudine della loro personalità: da Milton a Schiller, da Victor Hugo a Pascoli.
Bibl.: Per la fortuna, si veda la bibliogr. di M. Schanz, Geschichte des römischen Literatur, II, Monaco 1935, pp. 98-113. È fondamentale e tuttora insuperata la geniale monografia di D. Comparetti, V. nel Medioevo, Livorno 1872, 2ª ed. (invariata), Firenze 1896 (trad. tedesca di H. Dütschke, Lipsia 1875; trad. inglese di E. F. Benecke, Londra 1895). Inoltre: M. B. Ogle, The later tradition of V., in Classical Journal, XXVI (1930), p. 63 segg.; J. S. Morgan, K. Mckenzie e C. G. Osgood, The tradition of V., Princeton 1930; Ch. de Trooz, La critique de V. dans les commentaires de Servius, in Musée Belge, XXXIII (1929), p. 249 segg.; G. Funaioli, Esegesi virgiliana antica (Prolegomeni alla ediz. del Commento di G. Filargiro e di T. Gallo), Milano 1930. - Per il Medioevo, oltre all'opera del Comparetti, si scorrano gl'indici di M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, I-III, Monaco 1911-31. Inoltre H. C. Coffin, Allegorical interpretation of V. with special reference to Fulgentius, in Classical Review, XV (1920), p. 33 segg.; G. Riedel, Commentum Bernardi Silvestris super sex libros Eneidos V., Greifswald 1924; O. F. Long, The attitude of Alcuin toward V., in Studies in onore di B. L. Gildersleeve, Baltimora 1902; E. T. Sage, Some mediaeval conceptions of V. and their origins, in Classical Journal, XXV (1930), p. 593 segg.; H. Lohmeyer, V. im deutschen Geisteleben bis auf Notker III, Berlino 1930; W. Valentine, The Medieval Church and V., in Classical Review, XXV (1931); J. W. Spargo, V. the necromancer. Studies in Virgilian legends, negli Studi di letter. comparata dell'università di Harvard, X (1934). - Per l'Italia è utile l'opera di V. Zabughin, anche se priva di organicità: V. nel Rinascimento, voll. 2, Bologna 1921-25. Per Dante si ricorra all'opera di N. Zingarelli, che registra la bibl. speciale, ma sono sempre insostituibili le pagine che chiudono l'opera del Comparetti. Si veda ancora: F. Ghisalberti, Le chiose virgiliane di Benvenuto da Imola, in Studi virgiliani della R. Accad. Virgiliana, Mantova 1930, p. 77 segg.; E. G. Parodi, I rifacimenti e le traduzioni italiane dell'Eneide anteriori al Rinascimento, in Studi di filologia romanza, II (1887); V. Zabughin, l'oltretomba classico medievale dantesco nel Rinascimento, Roma 1922; A. C. Brinton, Maphaeus Vegius and his thirteenth book of the Aeneid, Stanford 1930 e J. van Jezeren, in Hermeneus, IV (1932), p. 99 segg. Per il valore di V. nella formazione spirituale del Rinascimento, cfr. K. Burdach, Riforma, Rinascimento, Umanesimo (trad. di D. Cantimori), Firenze 1935. - Per l'influenza nelle letterature moderne: E. G. Gardner, V. in Italian poetry, Londra 1931; H. Heiss, V.s Fortleben in den rom. Liter., in Erbe der Alten, XX (1931); F. Buff, Miltons Paradise lost in seinem Verhältnis zur Aeneide, Ilias und Odyssee, Monaco 1904; W. P. Mustard, Classical echoes in Tennyson, New York 1904; A. Dorrinck, Die latein. Zitate in den Dramen der wichtigsten Vorgänger Shakespeares, Strasburgo 1909; K. Frey, Die klass. Götter-und Heldensage in den Dramen von Marlowe, Strasburgo 1909; K. C. M. Sills, V. in the age of Elizabeth, in Classical Journal, VI (1910); Ch. Macpherson, Über die Vergilübers. des J. Dryden, Berlino 1910; E. Nitschie, V. and the English poets, New-York 1919; A. S. C. Brinton, Vergilian allusion in the new English poets in Classical Journal, XXI (1925); E. H. Riley, Milton's tribute to V., in Classic. St. Philol., XXVI (1929); F. Olivero, Accenni virgiliani nella letter. inglese nei secoli XVII e XVIII, in Annali Magistero del Piemonte, IV (1930); H. R. Fairclough, The influence of V. upon the forms of English vers, in Classical Journal, XXVI (1930). - Per la Germania: W. Rudkowski, G. A. Bürger als Überestzer V.s, Breslavia 1907; M. Schuster, Das Altertum und d. deutsche Kultur, Vienna 1926; H. Jobst, Über den Einfluss der Antike auf die Dichtung. A. von Platens, Monaco 1928; P. Horn, Schillers frei Übersetzer des 2. und 4. Gesangs der Aeneide, Marburgo 1923; E. Semrau, Dido in der deutschen Dichtung, Berlino 1930; J. Jarislowsky, Schillers Übertragungen aus V., Jena 1928; E. Schultz-Gerhard, Schiller and V., in Classical Review, XXIV (1931).