Virginia Giugno
I migranti la chiamano ‘Mama’
Nel porto di Pozzallo, nell’estrema punta sudoccidentale della Sicilia protesa verso Malta, dove a ritmo incessante giungono barconi carichi di profughi dalle coste africane, una donna affronta giorno dopo giorno con entusiasmo e passione l’emergenza dei minori da assistere e proteggere.
Tanti, tanti minori partiti dai sud del mondo senza genitori, salvati nel Mediterraneo o approdati con barconi arrugginiti sulla costa di Pozzallo hanno trovato una ‘mamma’, anzi la ‘mama’, come centinaia di questi sfortunati protagonisti di un esodo biblico chiamano Virginia Giugno. Una 40enne alta e bruna che non avrebbe mai immaginato di vivere una simile esperienza umana ricoprendo il ruolo di coordinatrice della Protezione civile, dopo aver vinto il concorso nel Comune che diede i natali a Giorgio La Pira. E forse l’esempio del sindaco buono di Firenze è il gene che deve avere esaltato la sensibilità di questa donna dal fisico asciutto, i capelli ricci e fluenti, pronta a coccolare i giovani sventurati arrivati da Siria, Egitto, Ghana, da altre frontiere di guerra e miseria, in cerca di futuro, prima diffidenti, poi attaccati a lei come ventose, un filo diretto saldato infine via Facebook o con telefonini dove il suo numero viene segnato alla voce ‘Mama Virginia’ anche quando hanno raggiunto la Germania o la Norvegia. Pensava di dover accudire nella vita solo le sue 2 figlie, una all’università, l’altra al liceo. E invece Virginia Giugno, arruolata come collaboratrice del sindaco di Pozzallo per l’emergenza migranti, si è ritrovata immersa a rotazione, una settimana dopo l’altra, per mesi e mesi, fra Welid, Ayman, Amin e centinaia di altri ‘non accompagnati’ che a ogni sbarco le vengono affidati per decidere come assisterli, se trattenerli nei centri, nelle parrocchie del paese affacciato sullo Ionio, magari iscrivendoli a scuola, assicurando un contatto con case famiglia e istituti per minori.
Una somma di storie s’intreccia a ogni arrivo e lei si muove ogni volta fra banchine affollate, fra camerate stipate di facce disorientate, raccogliendo i piccoli senza genitori, i minori arrivati da soli, per separarli intanto dai maggiorenni, per cominciare a garantire un minimo di protezione da soprusi e profittatori, mettendoli in guardia dai rischi. Come dice lei, per tirarli fuori da capannoni dove non si può costruire niente, «passando invece a strutture ‘ponte’, appunto una parrocchia, una casa famiglia, un centro minori, in attesa di qualcosa che dia sempre più certezze a questi ultimi che pensavo fossero figli di genitori scriteriati o scellerati».
Lei vedeva nei primi tempi questi ragazzi mandati da soli nel pozzo nero del Mediterraneo e pensava a genitori senz’anima, incapaci di tenerseli vicini, ma poi ha capito che è esattamente il contrario, come spiega: «Ho capito che le famiglie investono tutto per consentire a questi ragazzi di fuggire da fame e stenti o dall’arruolamento a 16 anni come soldati armati di fucili che pesano più di loro. Fra la morte per fame o guerra e il rischio di giocare la vita nella roulette del Mediterraneo, i genitori puntano sul viaggio della speranza raggranellando tutto quello che possono e mettendo i loro figli nelle mani dei trafficanti. Una scommessa. A noi consegnata».
E lei ne raccoglie il destino, a volte, con tormento, perché le è successo di dovere scegliere, come davanti a un bivio, a quali ragazzi offrire una opportunità, il posto migliore, i docenti più preparati e quali penalizzare per mancanza di fondi, di strutture. Come è accaduto col ragazzo che le è rimasto nel cuore, Promise Aberun, 16 anni, il più socievole, sempre allegro, felice quando gli ha spiegato che avrebbe potuto studiare, ospite in una casa vera, senza brande, con istitutori di prim’ordine, con tanti giochi e tanti libri. «Si era liberato un posto in un ottimo centro. Ma in quel momento avevo 107 minori a me affidati. E dovevo sceglierne uno, uno soltanto per regalargli il futuro». E scelse Promise. Poi... «Poi un giorno, un brutto giorno, li hanno portati al mare, in gita, e Promise è annegato, il corpo ritrovato 3 giorni dopo. Ecco, l’avevo scelto io. Ed è come se l’avessi mandato io su quella spiaggia, fra le onde che se lo sono portato via».Un velo triste sfuma in ‘Mama Virginia’, la gioia che torna ad accendersi nei suoi occhi quando Welid, Ayman, Amin e tanti altri l’abbracciano costringendola a sorridere, come fa specchiandosi in loro. «Mi sembravano tutti uguali.
Stesso colore, stessa espressione. Come fossero solo numeri, pratiche, fastidi. No, non è affatto così. E loro mi hanno insegnato cos’è la vita. Possono insegnarlo a tutti noi che, stolti, discutiamo e litighiamo spesso per idiozie, aggrappati al niente che ci sembra tutto».
I Centri dell’immigrazione
Le strutture del Ministero dell’Interno che accolgono e assistono gli immigrati irregolari sono di 3 tipologie:
- Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA)
- Centri di accoglienza (CDA) e Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA)
- Centri di identificazione ed espulsione (CIE).
I Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA) sono strutture allestite nei luoghi di maggiore sbarco, dove gli stranieri vengono accolti e ricevono le prime cure mediche, vengono fotosegnalati, viene accertata l’eventuale intenzione di richiedere protezione internazionale e vengono smistati verso altri centri. I centri attualmente operativi in Sicilia sono quelli di Lampedusa (Agrigento) e Pozzallo (Ragusa), oltre a quelli situati a Cagliari, Elmas (Centro di primo soccorso e accoglienza, con funzioni di CARA) e Otranto (Centro di primissima accoglienza).