VIRTÙ
. Valore, eccellenza di buona qualità; potenza, vigore, forza, qualità connaturata; retta e costante volontà di fare il bene; armonia di vita. Nella terminologia filosofica e in genere nella lingua italiana si è conservato sempre vivo assieme al significato di ὰρετή, quello di δύναμις; a volte i due significati si sono fusi in uno, come nel concetto di "virtù" proprio dell'uso del Rinascimento italiano (v. rinascimento, XXIX, p. 353), che a sua volta si è andato attenuando in quello del "virtuoso", dove l'energia, il valore, l'eccellenza di abilità e coraggio si sono ridotti ad abilità pratica, a tecnicismo raffinato. La storia del concetto di virtù si identifica con la storia dell'etica e delle dottrine morali; ma ha una parte tutta speciale nella storia della filosofia greca e in quella della filosofia scolastica, che hanno sviluppato una ricca casistica della virtù e delle virtù (ὰρετή, ἔξις).
Dopo la scepsi etica dei sofisti, che nella tradizione vengono appunto chiamati "maestri di virtù" ma si limitavano a questo proposito a forme solo pratiche, Socrate pose il problema della virtù e della possibilità d'apprenderla, cioè del suo carattere, pratico o gnoseologico: e lo risolse nel senso della stretta dipendenza della virtù dal sapere, onde la conoscenza è momento intrinseco della stessa volontà (v. socrate, XXXI, pp. 1024, 1025), pur non fornendo nessuna definizione precisa e unitaria di "virtù". Il concetto socratico di virtù fu sviluppato unilateralmente dai cinici. Per Platone "in ciascuna cosa cui è attribuita una data funzione ci deve essere pure una virtù" e la virtù dell'anima è la "giustizia"; la virtù è oggetto di conoscenza scicntifica, filosofica, anzi, tutte le virtù si possono ridurre all'unica virtù della conoscenza; sono quindi insegnabili. Platone ammette che dall'unica virtù della conoscenza siano deducibili quattro virtù fondamentali: saggezza, valore o coraggio, prudenza (σωϕροσύνη), giustizia (Rep., 440 segg.); di qui ha origine la dottrina delle quattro virtù cardinali che impronterà di sé tanta parte della storia dell'etica e del concetto di "virtù". Nel Timeo, Platone accenna a un altro concetto di virtù, come disposizione (ἕξις) dell'animo, acquisibile per educazione o connaturata (Tim., 86 E). A questo concetto si riallaccia la teoria aristotelica della virtù etica (ἀρετή), che è definita "una qualità della volontà che tiene il giusto mezzo adeguato alla nostra natura secondo una determinazione razionale che sarà data dal saggio"; la ἀρετή in generale designa invece per Aristotele l'eccellenza, la perfezione di ogni sorta d'essere, d'atto, di funzione. Dalla dottrina della δύναμις (potenza) s'è invece sviluppata la dottrina delle "virtù" come "facoltà" insite nelle cose e nelle persone (capacità, attitudine, disposizione naturale). Mentre Aristotele svolgeva la sua dottrina etica attraverso la distinzione tra virtù dianoetiche e virtu etiche, gli stoici costruivano sul loro concetto fondamentale dell'identità di ragione e natura una grandiosa e ricchissima casistica, in sostanza eclettica, delle virtù e dei vizî, riassumentesi a sua volta nell'antitesi "saggezza-stoltezza", e articolantesi nella dottrina delle passioni superate dalla virtù. Così pure gli epicurei, facendo perno sulla saggezza (ϕρόνησις); ma è stata l'analisi stoica delle virtù e dei vizî a fornire materia e argomenti a tutta la letteratura moralistica.
Il cristianesimo farà propria la dottrina delle quattro virtù cardinali, aggiungendo loro quelle teologali (v. appresso).
Il concetto di virtù della filosofia del Rinascimento si assomma nelle definizioni spinoziane: "Virtus est ipsa humana potentia, quae sola hominis essentia definitur, hoc est, quae solo conatu, quo homo in suo esse perseverare conatur, definitur" (Ethica, IV, prop. XX, dem.); "Per virtutem et potentiam idem intelligo; hoc est, virtus quatenus ad hominem refertur, est ipsa hominis essentia seu natura, quatenus potestatem habet quaedam efficiendi, quae per solas ipsius naturae leges possunt intelligi" (Ethica, IV, def. VIII): che nella casistica etica si ricongiungono alle dottrine stoiche col loro fatalismo naturalistico.
Una descrizione analitica e sottile delle "virtù" e dei vizi ci offrono i moralisti francesi, dal Montaigne e dal Rochefoucauld in poi; mentre il Gueulinx sistema e riordina sulla traccia del pensiero cartesiano la dottrina tradizionale e la casistica morale pure tradizionale.
Per Kant la virtù si identifica con "la buona intenzione morale" (Fondaz. della metafisica dei costumi, XXXVII), conforme allo spirito della più profonda tradizione cristiana. Con l'elaborazione di questo concetto cessa la casistica e la determinazione della virtù e delle virtù e dei vizî, come cessa la casistica del bene e del male astrattamente concepiti e definibili astoricamente.
Virtù teologali.
Oltre alla nozione generica di virtù (v. sopra) la virtù teologica aggiunge la "nozione specifica" di "virtù soprannaturale", ossia di "abito infuso da Dio, che ordina l'uomo alla felicità soprannaturale". A questa infatti non può l'uomo pervenire se non per la virtù divina, giusta quella partecipazione della divinità, di cui parla il Principe degli Apostoli (IIª Petri, 1, 4) propria della grazia santificante, in che si radicano le virtù teologali e le altre virtù infuse e perciò eccedente ogni proporzione o esigenza di natura creata.
La virtù teologale ha pertanto come propria causa efficiente Iddio stesso, ccioè non l'azione o efficacia naturale delle potenze dell'anima, come le virtù acquisite, ma un'azione soprannaturale divina. E questa non dà solo la "buona disposizione" che è propria di ogni abito virtuoso, ma dà la facoltà fisica altresì di operare gli atti della stessa virtù soprannaturale. Di più, e soprattutto, la virtù teologale ha Dio sia quale oggetto proprio "di attribuzione", come parlano i teologi, sia quale ragione obbiettiva, ovvero causa movente precipua, o motivo formale: onde per essa la mente umana va unita con Dio, come suo ultimo fine, e per un motivo che è Dio stesso o una divina perfezione.
Questa nozione propria delle virtù teologali ce ne fa accertare il numero, in quanto esse hanno per oggetto Dio, nostro ultimo fine. Infatti, come ragiona S. Tommaso (1, 2, q. 62, a. 3; Quaest. disp. De virtutibus in communi, a. 12), acciocché noi ci moviamo rettamente al fine, è necessario che il fine sia conosciuto e desiderato. Ora il desiderio del fine richiede due cose: cioè la fiducia di ottenere il fine, perché nessun uomo saggio si muove a ciò che non può conseguire; e l'amore del fine, perché non si desidera se non una cosa amata. E perciò le virtù teologali sono tre: la fede, che perfeziona l'intelletto, per cui conosciamo ciò che dobbiamo credere intorno a Dio; la speranza per cui confidiamo di ottenerlo e la carità per cui lo amiamo, le quali perfezionano la volontà.
Come il numero, così l'ordine, la successione e la gradazione delle virtù stesse ci è provata dogmaticamente dall'esplicita testimonianza di S. Paolo (I Cor., XIII, 13): Nunc autem manent fides, spes et caritas: tria haec: maior autem horum est caritas. E a questa dottrina si conforma tutta la susseguente tradizione della Chiesa, per cui "la fede è il principio, ma il fine della vita è la carità", secondo la nota frase di S. Ignazio martire.
Per la ragione stessa che le iirtù teologali rendono le potenze spirituali dell'anima ben disposte rispetto a Dio, nostro ultimo fine, è chiaro che la fanno aderire a Dio sopra ogni cosa, super omnia, come richiede l'infinita perfezione di Dio e la ragione stessa dell'ultimo fine. Perciò il bene proprio delle virtù teologali non è in un giusto mezzo, come quello delle virtù morali; è invece, massime per la carità, in accessu ad summum, giusta la frase di S. Tommaso, essendone la misura Iddio medesimo: giacché nessuno può mai credere a Dio, sperare in Dio e soprattutto amarlo più di quanto convenga. Vi può tuttavia essere eccesso, per parte nostra, nell'esercizio degli atti; perché, come dice pure S. Tommaso (Summ. theol., I-II, q. 64, a. 4), "dobbiamo portarci a Dio credendo in lui, sperando e amando, secondo la misura della nostra condizione"; onde, per esempio, la speranza procede in mezzo fra la presunzione e la disperazione; la fede tra le contrarie eresie e le opposte correnti dell'infedeltà. Quindi è che la carità, com'è connessa con la grazia santificante, o amicizia con Dio, non può essere senza la fede e la speranza; ma la fede e la speranza, se non si pecca con colpa direttamente contraria a loro, cioè per infedeltà e disperazione, possono in un peccatore essere senza la carità, benché non abbiano la perfetta ragione di virtù, cioè di emettere debitamente perfetti e cari a Dio i loro atti (S. Tommaso, I-II, q. 65, aa. 4 e 5).
Bibl.: Oltre a S. Tommaso che ne tratta in compendio nella Summa Theol., (I-II, q. 62 segg.), e più largamente nelle Quaestiones disputatae De virtutibus, ne parlano tutti i teologi a proposito della grazia e degli abiti o virtù per essa infuse nell'anima. Ved., a es., S. Schiffini, Tractatus de virtutibus infusis, Friburgo in B. 1904; F. Calcagno, Considerazioni sulle virtù teologiche, Roma 1932.
Iconografia.
Sin dagl'inizî del Medioevo, per eredità dell'antecedente iconografia classica, le virtù presso gli scrittori (Erma, Tertulliano) sono personificate da vergini. Nella Psichomachia di Prudenzio queste vergini combattono contro i vizi: la Fede contro l'Idolatria, la Pudicizia contro la Libidine, la Pazienza contro l'Ira, l'Umiltà contro la Superbia, la Carità contro l'Avarizia, la Concordia contro la Discordia. Il testo di Prudenzio fu fonte d'ispirazione per tutta l'iconografia romanica (pavimento di Pavia, di Cremona, Hortus deliciarum di Herrade di Landsberg, ecc.); e corrispondono alle virtù guerriere di Prudenzio, con qualche variante, le Virtù che combattono i vizî scolpite sulle facciate delle chiese d'oltralpe del secolo XII e XIII (Parigi, Amiens, Aulnay, Reims, ecc.). A volte invece esse sono rappresentate con attributi pacifici, e trionfano, senza battaglia dei vizî contrapposti; a volte, mancando i vizî, stanno a parallelo delle arti e dei mestieri, come figurazioni della buona attività umana. Sono, con altre aggiunte, principalmente le tre teologali e le quattro cardinali, ispirate a S. Ambrogio da Platone, e suggerite specie da Rabano Mauro all'iconografia medievale. Numerose le rappresentazioni nei secoli XIII e XIV: nella porta maggiore di S. Marco a Venezia, nei musaici dell'interno, nell'acquasantiera di S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, nella porta del Battistero fiorentino (Andrea Pisano), negli affreschi della chiesa inferiore di S. Francesco d'Assisi, nel tabernacolo dell'Orsanmichele, nella cappella degli Scrovegni, dove Giotto si dimostra profondo osservatore nel dare nuovi attributi alle sue virtù. Nel Trecento italiano furono di frequente evocate sulle tombe (tomba di S. Pietro Martire in S. Eustorgio di Milano; tombe angioine a Napoli, ecc.), e così ancora nel sec. XV (monumenti di Paolo II, di Sisto IV e di Innocenzo VIII a S. Pietro). Nel Seicento acquistano, come tutte le personificazioni, una grande diffusione e popolano i soffitti (Palazzo Gallarati-Scotti a Milano, affrescato del Tiepolo) e i sepolcri. Una solenne raffigurazione ottocentesca è nel monumento Demidoff del Bartolini a Firenze.
Bibl.: H. von der Gabelentz, Die kirchliche Kunst im italienischen Mittelalter, Strasburgo 1907; F. Kraus, Geschichte der christlichen Kunst, Friburgo in B. 1908; É. Mâle, L'art religieux du XIIIe siècle en France, 4ª ed., Parigi 1919; id., L'art religieux de la fin du moyen-âge en France, 2ª ed., ivi 1922; K. Künstle, Ikonographie der christlichen Kunst, Friburgo in B. 1928; L. Bréhier, L'art chrétien, Parigi 1928.