Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il termine virtuale acquista cittadinanza nel dibattito sui nuovi media e sulle tendenze della società informatizzata alla fine degli anni Ottanta con il diffondersi dell’espressione inglese virtual reality tradotta alla lettera in molte lingue tra cui l’italiano come “realtà virtuale”. Successivamente, nel corso degli anni Novanta assume accezioni differenti, ad esempio nell’espressione comunità virtuali introdotta dallo statunitense Howard Rheingold e conosce una notevole fortuna anche nella denominazione e nel marketing di nuovi prodotti: in questo processo i significati si moltiplicano ulteriormente, fino a ingenerare una certa confusione semantica, proprio mentre diventano oggetto di ambiziose interpretazioni teoriche. Attualmente il termine, con un significato specifico in alcuni contesti linguistici (ad esempio in riferimento agli audiovisivi in 3D e a esperimenti di simulazione elettronica), ha perso rilevanza nel dibattito teorico ed è assai meno usato sia nella divulgazione giornalistica sia nella promozione delle innovazioni.
Parole pigliatutto
Le vicende del termine virtuale, che etimologicamente sta per potenziale (dal latino medievale virtualis) presentano molte analogie con quelle parallele di termini come “digitale” o interattivo e con quelle del successivo multimediale. Espressioni nate estemporaneamente e divenute preda del giornalismo divulgativo e del gergo dell’impresa, che vestono i panni tecnologici ma non al punto da non risultare intuitive, si presentano per un periodo più o meno lungo come sintesi emblematica di un processo innovativo e insieme delle sue implicazioni socio-psicologiche. Nel caso di virtuale, la fortuna del termine va ricondotta per un verso al fatto che i significati tecnici della parola si sono sovrapposti a una sua già radicata presenza nell’uso statunitense, dove l’avverbio virtually si era affermato fin dagli anni Sessanta nel senso di praticamente o di poco meno che; per un altro alla forza di suggestione dell’ossimoro realtà virtuale, come a dire una realtà in assenza di realtà.
Reale e virtuale
L’aggettivo virtuale è stato usato in fisica, sia nell’ambito della meccanica strutturale, dove si concettualizzano per scopi di analisi le forze e il lavoro virtuali, sia nell’ambito della meccanica quantistica, dove le particelle “virtuali” sono astrazioni utilizzate in alcuni modelli della teoria del campo quantistico. Nel contesto dell’informatica, intorno al 1960, veniva sviluppata dai programmatori la tecnica della memoria virtuale, ovvero un’architettura di sistema in grado di simulare uno spazio di memoria centrale (RAM) maggiore di quello fisicamente presente.
Il concetto di virtuale o di virtual reality si è connotato come ambiguo fin dalla sua introduzione, ma è possibile distinguere alcune sue “applicazioni” relativamente precise, specie nel settore informatico.
Per realtà virtuale, infatti si intende il risultato dell’uso sistematico delle potenzialità di simulazione proprie del trattamento informatico dell’immagine, del suono, delle strutture fisiche in cui l’osservatore è inserito. Si cerca in altri termini di evocare nei diversi sensi un’illusione percettiva coerente, un’esperienza realistica quanto quella provata nel mondo esterno ma totalmente costruita: possiamo dire che mentre il cinema e poi l’audiovisivo sono un inganno della vista e dell’udito, ma lasciano liberi gli altri sensi, la realtà virtuale non si limita a imprigionare più rigidamente vista e udito (ad esempio per mezzo di caschi che escludono ogni altra immagine o suono dal campo cerebrale) ma cerca di ingannare tutte le modalità percettive. Finisce quindi con l’agire su quello che per Aristotele era il sensus communis, il perno del sistema percettivo che è la base della nostra stessa idea di realtà.
In secondo luogo il termine fa riferimento alla costruzione, per mezzo della computer grafica avanzata, di modelli tridimensionali di notevole realismo. Quest’accezione del termine, che ha dato vita al fortunato acronimo VR tuttora in uso per molte tecnologie, indica soprattutto l’uso di software sofisticati che permettono di simulare il movimento nello spazio di figure solide anche molto complesse, come quelle proprie dei film d’animazione prodotte dalla Pixar o da altre case sorte negli anni Novanta. Oggetti in 3D (tridimensionali), seppure esperiti sempre attraverso l’interfaccia strettamente bidimensionale dello schermo.
Il concetto di realtà virtuale si riferisce anche a nuove interfacce per la comunicazione tra l’essere umano e la macchina, che presentano l’apparenza della perfetta immediatezza. Si tratta, per dirla con le parole del pioniere Myorn Krueger, della forma più avanzata di interazione tra uomo e macchina. In una realtà artificiale tutto ciò che si percepisce è generato da un computer che risponde ai nostri movimenti con immagini e suoni ideati per darci l’illusione di trovarci in un mondo nuovo. La virtual reality darebbe cioè l’impressione di sopprimere ogni mediazione e anche ogni competenza pregressa per immergere (di qui l’uso del termine immersivo spesso coniugato con virtuale anche se di significato differente) il soggetto nell’universo stesso della macchina. Potremmo forse dire che il suo obiettivo è creare interfacce che si negano in quanto tali. La forma più estrema e meno realizzabile di questo modello di interfaccia è quella che ha avuto il maggior eco di stampa: il sogno del sesso virtuale, vissuto in absentia come messo in scena nel film Il tagliaerbe (1992).
Un altro campo di applicazione è quello della messa a punto di nuovi modelli di interazione ludica, che sembrano immergere il giocatore nell’ambiente immaginario dove si svolge il gioco. L’immersione può consistere nel fare vivere al giocatore la pienezza fisica dei conflitti, delle gare ecc. che in precedenza erano seguiti solo su uno schema stilizzato di gioco, o può consistere nel permettergli di farsi rappresentare da un avatar (o sostituto virtuale) che si conforma istante per istante alle sue scelte: Le forme immersive di tipo ludico si prestano anche a usi didattici come la guida simulata di un aereo simile in tutto e per tutto a un aereo reale.
Con il fortunato volume di Howard Rheingold Comunità virtuale (1994) la parola virtuale ha assunto un’ulteriore accezione, o forse nuove sottili sfumature.
L’uso dell’informatica e della telematica per creare modelli di relazione sostituitivi di quelli in precedenza basati sulla compresenza fisica o quanto meno sullo scambio interprersonale. Applicato alle comunità tenute insieme dai giochi on line o dai momenti di incontro telematici (forum, gruppi di discussione ecc.) il termine sembra indicare da un lato una sorta di equivalente delle antiche comunità con nuovi mezzi, da un altro un modello nuovo e inedito di interscambio sociale.
Le implicazioni del concetto
Se guardiamo agli aspetti strettamente tecnologici, sotto l’etichetta virtuale sono state dunque incluse realtà molto diverse, alcune di avanguardia altre relativamente banali, alcune relative soprattutto all’immagine; altre relative all’incrocio tra diversi sensi, altre ancora soprattutto alle tecnologie di rete. Difficile, su queste basi, circoscrivere le implicazioni anche filosofiche e politiche al termine nell’ambito degli sviluppi dell’informatica.
Anche nel dibattito filosofico e politico, che ha cercato di sfruttare l’alone tecno-scientifico del termine, il concetto è stato coniugato, dai diversi autori che se ne sono occupati in direzioni molto diverse.
Per l’americano Myron Krueger, già ricordato, il quale peraltro preferisce parlare di realtà artificiale, si tratta soprattutto di un manufatto a finalità espressive, di uno strumento per il superamento del limite più profondo dell’arte occidentale, la passivizzazione del fruitore: se è vero che il fascino del concetto e delle sue applicazioni sta in un’estrema illusione dei sensi (incluso, fantascientificamente, l’olfatto), la funzione di tale illusione non è comunque l’inganno ma al contrario un piacere di tipo intellettuale-estetico che mantiene sostanzialmente intatta l’esistenza di un autore e di un’opera.
Per l’italiano Elémire Zolla, autore di Uscita dal mondo (1992), si tratta di una delle possibili vie d’uscita dal mondo, e per l’incontro con la luce: un terreno inatteso di fecondazione reciproca fra la tecnologia occidentale e quel sogno di totale perdita del sé e conquista di un contatto con le energie cosmiche che in precedenza poteva essere associato solo con la mistica, soprattutto orientale. Spero che dopo aver soddisfatto la volontà di violenza e di sesso per quanto vasta essa sia, dopo aver quindi introdotto all’avventura sciamanica virtuale, gli occhiali magici mostreranno la natura illusoria d’ogni realtà, la sua scambievolezza, la sua sostituibilità, e faranno quindi accedere o molti o pochi al massimo fine, la liberazione.
Per i teorici delle cyberculture, come il citato Rheingold o il francese Pierre LévyLèvy, il mondo virtuale è soprattutto la via del superamento dell’alternativa individualismo solipsistico/ autoritarismo organizzato che sarebbe lo sbocco del capitalismo moderno. La rete virtuale delle intelligenze sarebbe collettiva ma non collettivistica, superiore al singolo ma senza imposizioni, spontanea come una folla in azione (mob) ma astuta e seducente (smart) come una persona di successo secondo la più recente formulazione di Rheingold.
Per l’inglese Benjamin Woolley, lo sviluppo della realtà virtuale è il frutto estremo della matematizzazione del mondo che sta alla base della fisica moderna da Galileo in poi, ma è anche la riprova del carattere di costrutto intellettuale della fisica stessa.
In cerca di un senso unificante
Al di là di tutte le diverse applicazioni, si può dire per riprendere la citatissima metafora di Wittgenstein che “un’aria di famiglia” circola comunque tra le diverse accezioni di virtuale. Vediamone i tratti comuni. Prima di tutto, la dissociazione della realtà dalla presenza, dissociazione che appare insieme fonte di illusioni ben più intense di quelle permesse dalle tecniche relative a singoli sensi, e fonte di esperienze profondamente nuove. In secondo luogo, la radicalizzazione di una delle tendenze più tipiche non solo dell’arte ma dell’intera cultura contemporanea: la tendenza alla sinestesia, a tradurre la fruizione in esperienza globale e multisensoriale. In terzo luogo, e soprattutto (e su questo l’intuizione di Woolley resta feconda) la centralità della simulazione nella mediazione informatica tra il percettore e l’universo che lo circonda: la macchina costruisce una rappresentazione del mondo che operativamente funziona, possiamo dire con espressione ormai convenzionale, come riproduzione tecnica del reale, ma che è sempre mediata da un apparato soggetto a regole di ordine matematico. Non è un inganno, ma è una mediazione che ci accompagnerà per una lunga fase.