visio beatifica
- È l'intuizione immediata della divina essenza (cfr. Matt. 5, 8; 18, 10; 22, 30). S. Paolo parla della sua diretta esperienza, con il rapimento al terzo cielo (II Cor. 12, 2-4), ma asserisce che è inesprimibile con il linguaggio dell'uomo.
S. Giovanni, in Apoc. 19, descrive il possesso di Dio da parte degli eletti, " le nozze dell'Agnello ", con immagini e motivi di luce. Non si tratta della verità conquistata, come fine della vita, secondo il concetto aristotelico, ma di un'azione carismatica ex parte Dei che consente al beato di vedere, per mezzo del lume di gloria, Dio, l'oggetto principale della visione, in vari gradi, proporzionalmente ai meriti e alla grazia santificante, e di partecipare alla vita intima divina. Scrive s. Paolo in I Cor. 13, 12: " Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum " . L'apostolo pone a confronto la scienza presente parziale, mediata, oscura, e quella futura che sarà immediata e chiara. S. Paolo affermò, inoltre, che nessun uomo vide mai Dio, " nec videre potest " (I Tim. 6, 16). Fondandosi su questa asserzione, una corrente patristica orientale interpretò che la v.b. non consisteva nella visione di Dio, ma di realtà che emanavano da lui. Così l'occhio umano sostiene il raggio solare, ma non può fissare il sole.
Risale a Benedetto XII, all'anno 1336, la costituzione dogmatica sulla v.b., Benedictus Deus, la quale definisce che, anche prima del giudizio finale, le anime vedono la divina essenza " visione intuitiva et faciali " . Dio non può essere per l'uomo l'oggetto immediato della conoscenza. Per via analogica conosciamo l'esistenza e le proprietà divine. Con l'elevazione dell'intelletto a una condizione soprannaturale l'uomo è in grado di conoscere, intuitivamente - non " per fantasmata ", cioè per astrazione dalle cose - la divina essenza. Col lume di gloria Dio compie il rafforzamento dell'intelletto, disponendolo alla visione e alla contemplazione. L'uomo può così raggiungere la sua unione con Dio e la beatitudine, definita da Boezio " statum bonorum omnium congregatione perfectum " (Cons. phil. III II 3); ma i momenti della felicità soggettiva che l'uomo può raggiungere sono: la conoscenza (" visio "); l'amore (" dilectio "); il godimento (" fruitio "). Le dispute, ben note anche a D., riguardavano il costitutivo formale della beatitudine, quale dei tre atti fosse il principale. S. Bonaventura (Sent. III 31, 3a) ritenne la " dilectio "; s. Tommaso (Sum. theol. I II 5) la " visio ", seguito dall'Alighieri.
L'Aquinate spiegò che l'intendere è l'azione più alta dell'intelletto, e intendere è vivere, mentre l'amore è un complemento della beatitudine (Sent. IV 49 1). L'oggetto della v.b. è Dio: i beati contemplano i misteri della fede, conoscono gli attributi divini, le vie provvidenziali, la realtà e la natura delle cose create (Sum. theol. I 89).
Per D. il cielo è il regno dei beati, il Paradiso è il beato concilio (Pg XXI 16), la verace corte (v. 17), il sicuro e gaudioso regno (Pd XXXI 25), il beato chiostro (XXV 127), la basilica celeste (v. 30). Egli introduce, gradualmente, i concetti della v.b. nel poema. Nel I canto del Paradiso parla dell'intelletto che si profonda tanto, avvicinandosi al fine ultimo dei desideri umani; e mentre parla del suo trasumanar (v. 70) nota che il primo impulso al moto delle sfere celesti è il desiderio di unirsi a Dio, e inizia il grande motivo della luce, con il cielo acceso dalla fiamma del sole. L'intensificarsi della luce nel poema avviene per ragioni di poesia, ma con un fondamento teologico. Per assurgere alla visione l'intelletto ha bisogno del " lumen gloriae " . Ineccepibile la sentenza dantesca: Lume è là sù che visibile face / lo creatore a quella creatura / che solo in lui vedere ha la sua pace (Pd XXX 100-102). Questa luce parte da Dio, dal mistero trinitario, e si fonde con il vedere e il godimento dell'eletto, chiamato alla v.b. (Oh trina luce che 'n unica stella / scintillando a lor vista, sì li appaga!, XXXI 28-29). Nella candida rosa D. vede i volti dei beati, che ispirano carità e che sono fregiati d'altrui lume (Pd XXXI 50), espressione che è una traduzione in termini visivi del " lumen gloriae " . Tutte le anime sono nell'Empireo, ma appaiono nei vari cieli, perché il poeta possa comprendere i diversi gradi della beatitudine.
D. chiarisce esattamente le proprietà della v.b.: è ‛ soprannaturale ', e perciò gli affetti dei beati sono solo infiammati /... nel piacer de lo Spirito Santo (Pd III 52-53); la regola è il volere divino: i beati altro non desiderano che tenersi dentro a la divina voglia (v. 80). Così dovendo spiegare che la v.b. è ‛ ineguale ' - questa proprietà non riguarda Dio, l'oggetto conosciuto, eguale per tutti, ma il modo di conoscerlo secondo il grado di perfezione raggiunto in vita - pone la verità dogmatica nelle parole di Piccarda, che chiarisce il perché della distribuzione dei beati di soglia in soglia (v. 82). E poiché in cielo ovunque è Paradiso, ovunque c'è la fruizione della v.b. (etsi la grazia / del sommo ben d'un modo non vi piove, III 89-90).
I teologi affermano che i beati vedono Dio " totum sed non totaliter "; è evidente che la loro visione non può esaurire tutta l'esemplarità e l'onnipotenza divina: noi, che Dio vedemo, / non conosciamo ancor tutti li eletti (XX 134-135), dice l'aquila nel cielo di Giove.
Sulla famosa disputa teologica se la beatitudine sia operazione dell'intelletto o della volontà, Beatrice commenta: e dei saper che tutti hanno diletto / quanto la sua veduta si profonda / nel vero in che si queta ogne intelletto. / Quinci si può veder come si fonda / l'esser beato ne l'atto che vede, / non in quel ch'ama, che poscia seconda; / e del vedere è misura mercede, / che grazia partorisce e buona voglia: / così di grado in grado si procede (XXVIII 106-114). Ci sono tutti gli elementi della controversia: diletto, amore, cognizione, l'atto dell'intelletto, l'atto della volontà, la mercede o merito. Il poeta non nega i primi due atti, ma osserva che il godimento si fonda non sull'amore che, a sua volta, esige un altro fondamento, ma sulla visione intuitiva di Dio. Il beato vede e si unisce all'oggetto della sua contemplazione, Dio, e per questo possesso intellettuale ama e gode. Rimane però aperta la questione di che cosa avvenga dell'intelletto quando ha raggiunto, con la v.b., il suo ultimo fine. Quest'analisi dei termini per D. è necessaria e giova a umanizzare, con esempi, il poema, ma egli risale alla fonte: il mistero trinitario. Contemplato il mistero, inadeguato all'intelletto e inesprimibile nel linguaggio umano, pone di nuovo l'accento sulla v.b., in quanto in anticipo sulla vita futura egli prova dentro di sé un aspetto della vita beata: la quiete del desiderio appagato. Non passa più da una cosa intelligibile all'altra, considera ogni cosa in un solo atto con la visione divina. I tre elementi della v.b. definiscono così l'Empireo: luce intellettual, amor di vero ben, letizia (Pd XXX 40-42). Con il suo fulgore, Dio accoglie le anime nella v.b. e le dispone in tal modo alla vista di cose soprannaturali per far disposto a sua fiamma il candelo (v. 54).
Bibl. - I.V. Walshe, The vision beatific, New York 1926; G.B. Parma, Ascesi e mistica cattolica nella D.C., II, Subiaco 1927, 426-451; E. Guidubaldi, La metafisica della luce, in D. europeo, Firenze 1965, 173-452.