VISIONE
Fisiologia. - La v. occupa un posto privilegiato tra le funzioni degli organi di senso (v. occhio, in questa Appendice) che esplorano il mondo che ci circonda: "l'oggetto esiste qualora se ne abbia un'immagine" scrive I. Calvino nelle Cosmicomiche. Gli organi di senso traducono la realtà del mondo esterno nel linguaggio del sistema nervoso, dandocene una versione che ovviamente dipende dalle loro caratteristiche di trasduzione e di codificazione del messaggio. Il pensatore che teoricamente lavora con gli oggetti della realtà deve aver chiaro che sta lavorando con oggetti della propria mente.
L'acquisizione dell'informazione visiva avviene attraverso diversi processi, alcuni puramente fisici come la formazione dell'immagine degli oggetti sulla retina, altri nervosi a livello delle diverse stazioni del talamo e della corteccia del nostro cervello (v. anche nervoso, sistema: Neurofisiologia generale. Sistemi per il controllo di macrofunzioni (movimento e visione), in questa Appendice). La trasformazione degli oggetti del mondo esterno in immagini retiniche implica almeno apparentemente una perdita d'informazione clamorosa che riguarda la terza dimensione. L'immagine retinica infatti è un'immagine bidimensionale. L'elaborazione nervosa dell'immagine retinica comincia a livello dei recettori retinici (6 milioni di coni, 120 milioni di bastoncelli) che scompongono l'immagine in una miriade di tessere ciascuna delle quali ''vede'' una porzione piccolissima del campo visivo. È a livello dei recettori che il segnale fotico viene trasformato in segnale elettrico. Dapprima i segnali elettrici a livello dei recettori e delle cellule degli strati intermedi della retina sono di tipo continuo o analogico. È solo a livello delle cellule d'uscita della retina che avviene una codificazione del messaggio visivo in impulsi nervosi. A questo punto non c'è più nessuna apparente corrispondenza con l'oggetto del mondo esterno o con l'immagine retinica; c'è solo la scarica di migliaia e migliaia di fibre dei nervi ottici dei nostri occhi. Si potrebbe risalire all'immagine soltanto conoscendo il codice di decodificazione o lettura di questi impulsi. Ma questo codice non è ancora noto, anche se è certamente noto alla nostra corteccia visiva che dal confluire di tutti gli impulsi nervosi riesce a ricostruire in maniera ancora per noi misteriosa la percezione dell'oggetto. La stessa distribuzione spaziale dell'attività elettrica prodotta da un'immagine a livello corticale non corrisponde alla distribuzione retinica in quanto le parti della retina a più alta risoluzione hanno più grande rappresentazione corticale. A questo punto risulta già banale una vecchia ipotesi: l'immagine percettiva non sarebbe che una trasposizione a livello corticale dell'immagine retinica. Sono i vari parametri dell'immagine − contrasto, orientamento e dimensioni − che vengono codificati e opportunamente analizzati a livello corticale.
In questa sede ci limiteremo a un aspetto particolarmente importante e originale delle ricerche, che ha comportato un cambiamento della loro metodologia e ha introdotto una nuova maniera di pensare la v. e una nuova teoria dei processi che potrebbero starne alla base. Questo metodo di ricerca si rifà a quelli dell'ottica fisica, cioè alle metodologie usate per descrivere le proprietà di una lente, e corrisponde alla metodologia usata per l'analisi dell'udito, in cui viene analizzata la percezione uditiva di ogni singola armonica (onda sinusoidale).
Nel caso della v. lo stimolo più semplice, equivalente a un suono puro, corrisponde a un reticolo sinusoidale, cioè a una serie di sbarre chiare o scure il cui profilo di luminanza è sinusoidale. Come per il suono, qualunque distribuzione complessa di luminanza è descrivibile come somma di distribuzioni sinusoidali (reticoli) di opportune dimensioni e contrasto secondo la teoria matematica di Fourier. È necessario a tal riguardo introdurre alcune definizioni. Si definisce contrasto la differenza percentuale tra la massima luminanza della sbarra chiara e la minima luminanza della sbarra scura, mentre per frequenza spaziale s'intende il numero di sbarre per unità di angolo visivo (cicli/grado). Alte frequenze spaziali corrispondono a sbarre più sottili e basse frequenze spaziali a sbarre più larghe. Varie ricerche hanno dimostrato che le varie dimensioni (frequenze spaziali) non sono percepite con la stessa facilità dal sistema visivo dell'uomo. Le frequenze spaziali intermedie sono percepite meglio sia di quelle più basse sia di quelle più alte. La funzione che misura la sensibilità alle diverse frequenze spaziali viene chiamata curva di sensibilità al contrasto.
L'uomo può vedere solo all'interno di questa curva, la quale rappresenta, per così dire, la sua finestra sul mondo; oltre la curva il nostro sensore visivo non può arrivare a esplorare. La sola maniera che ha l'uomo d'ingrandire la sua finestra sul mondo è di ampliarla artificialmente tramite l'uso di alcuni strumenti, quali il microscopio e il telescopio. Il fatto che alcune dimensioni o frequenze spaziali sono percepite meglio di altre può far sorgere il problema di quali frequenze siano più importanti per il riconoscimento di un'immagine e se i canali di frequenze spaziali particolarmente rilevanti siano uno o più di uno. È opportuno al riguardo precisare cosa l'uomo voglia scoprire o riconoscere in una data immagine. Si può quindi procedere solo per esemplificazioni. Alcuni esperimenti dimostrano, per es. nel caso di un volto, che la ''forma complessiva'' di tale immagine, quella che viene definita la sua Gestalt, risiede principalmente nelle basse frequenze spaziali, mentre i dettagli, come le sopracciglia, gli angoli della bocca o i capelli, hanno il loro contenuto informativo nelle alte frequenze spaziali.
È interessante a questo riguardo ricordare qual è il comportamento del visitatore di una pinacoteca: di regola egli osserva un quadro da diverse distanze e quindi a contenuto diverso di frequenze spaziali (quelle alte vengono progressivamente filtrate allontanandosi dal quadro). A distanze ravvicinate l'osservatore apprezza meglio i dettagli delle figure e della pennellata, allontanandosi l'immagine nel suo insieme, la sua Gestalt. Poiché vi sono meccanismi propri dell'attenzione che permettono di focalizzare la nostra v. su certi contenuti dell'immagine piuttosto che su altri, è abbastanza verosimile pensare che questi meccanismi possano servire anche a selezionare filtri percettivi con bande diverse di frequenze spaziali.
La funzione di sensibilità al contrasto descrive le proprietà spaziali della v. in maniera più completa che non la semplice misura dell'acuità visiva, cioè il potere di risoluzione dell'occhio. L'acuità visiva è la misura con cui usualmente l'oftalmologo valuta le proprietà della nostra visione. Queste nuove metodiche di misura della funzione di sensibilità al contrasto sono state introdotte recentemente sia nelle cliniche oftalmologiche sia in quelle neurologiche. Si constata infatti che esistono patologie del sistema visivo in cui è compromessa la sensibilità al contrasto per frequenze spaziali basse o medie, anche se l'acuità visiva è nei limiti della norma.
Va infine ricordato che la funzione di sensibilità al contrasto varia anche con l'età del soggetto: nei neonati la v. è limitata a reticoli di frequenza spaziale bassa e alto contrasto. Dopo di che la sensibilità al contrasto aumenta progressivamente e raggiunge i valori normali nel secondo o nel terzo anno di vita. Nell'età senile si osserva una perdita di sensibilità, particolarmente alle frequenze spaziali più alte.
Bibl.: L. Maffei, L. Mecacci, La visione: dalla neurofisiologia alla psicologia, Milano 1979; D.H. Hubel, Eye, brain and vision, New York 1988.