vispistrello
Il sostantivo è volgarizzamento dal latino vespertilio con valore di " pipistrello ", presente due volte nelle opere di Dante.
In Cv II IV 16-17, a proposito delle ragioni arrecate a prova della creazione da parte di Dio delle sostanze separate, D. afferma: Né si meravigli alcuno se queste e altre ragioni che di ciò avere potemo, non sono del tutto dimostrate; che però medesimamente dovemo ammirare loro eccellenza - la quale soverchia gli occhi de la mente umana, sì come dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica -, e affermar loro essere. Poi che non avendo di loro alcuno senso... pure risplende nel nostro intelletto alcuno lume de la vivacissima loro essenza... sì come afferma chi ha li occhi chiusi l'aere essere luminoso, per un poco di splendore, o vero raggio, c[om]e passa per le pupille del vispistrello.
Sulla bontà della congettura c[om]e passa, F. Brambilla Ageno ha avanzato dubbi (Nuove proposte per il " Convivio ", in " Studi d. " XLVIII [1971] 123-124) che coinvolgono e l'assetto sintattico del passo e la stessa lezione vispistrello. Avvertendo nel doppio paragone (sì come afferma... c[om]e passa) " qualcosa di confuso e poco persuasivo ", l'Ageno ricostituisce la lezione che passa " che tutti i testimoni danno, concordemente " e che avrebbe il pregio di abolire, mediante il nesso relativo, lo iato stilistico provocato dall'improvviso insorgere del secondo paragone entro il primo (" la seconda immagine, appunto del pipistrello, lascia stranamente incompleta la prima "). Ma il passaggio dal nesso analogico a quello relativo richiede di necessità un completo dissolvimento del secondo paragone. La lezione vispistrello, infatti, su cui quel paragone poggia, è di significato assolutamente renitente agli obblighi logico-grammaticali richiesti dalla proposizione relativa. È a questo scopo che l'Ageno recupera la lezione polpastrello, palp-, presente in Bo e in " codici non affini ", gravandola di un significato arduo (" palpebra ") ma comunque tale da poter assolvere gli obblighi di cui sopra. L'intera frase sarebbe quindi da leggere: che passa per le pupille del palpastrello, e da intendere: " che, provenendo dalla palpebra, passa attraverso la pupilla ". Che si tratti d'ipotesi ardita è l'autrice stessa a riconoscerlo (" Sarebbe ipotesi troppo ardita supporre che si trattasse di un palpastrello ‛ palpebra ', imparentato con le numerose forme dialettali derivate dalla variante latina palpetrae? e che la proposizione relativa determinasse il precedente splendore o vero raggio? Si dovrebbe intendere: ‛ che, provenendo dalla palpebra, passa attraverso la pupilla ' "), tanto più che la variante palpastrello " è in verità forma diffusa, soprattutto in Emilia, per pipistrello ' " (come fa notare all'autrice Gianfranco Contini, art. cit., p. 124 n. 1). In realtà, il criterio economico messo in atto dall'autrice non risulta, in questo caso, redditizio. La lezione proposta, se corretta grammaticalmente, apre a sua volta nuovi dubbi (il passaggio dal plur. pupille al singol. palpastrello da intendere, per l'esattezza, ‛ che, provenendo dalla palpebra, passa attraverso le pupille ', la necessità, incongrua con la sua funzione simbolica e naturale, d'intendere la palpebra come origine e non come ‛ mezzo ' opacante la luce) e, soprattutto, elimina l'immagine del pipistrello, che è invece strettamente funzionale alla tessitura simbolica del passo e al richiamo ad Aristotele che quell'immagine conteneva.
D. sostiene infatti l'esistenza di ragioni la cui eccellenza nel grado di essere e di verità è tale, da soverchiare gli occhi de la mente e delle quali, pertanto, non può darsi piena conoscenza dimostrativa ma solo un giudizio di esistenza (affermar loro essere). E ciò in quanto, finché l'anima è legata e incarcerata per li organi del nostro corpo, ogni conoscenza ha come suo ‛ mezzo ' il senso e, poiché quelle ragioni non cadono sotto il senso, l'intelletto può coglierle non nella loro essenza ma soltanto nei loro effetti. E tali effetti della vivacissima loro essenza, D. simbolizza nel poco di lume che riesce a penetrare l'opacità materiale del corpo, per raggiungere i nostri occhi intellettuali in esso ‛ racchiusi '.
Di qui l'esempio del vispistrello che D. accenna contestualmente all'esplicito richiamo a quanto dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica; richiamo essenziale alla comprensione del passo dantesco ove si consideri che in Metaph. II 1, 993a 30 ss. e 993b 7-11, parlando della ‛ contemplazione della verità ', Aristotele affermava che se nessuno può attingere pienamente il vero, nessuno d'altra parte ne è totalmente privato, e che di ciò il difetto non è nell'oggetto ma in noi; e a tal fine avanzava l'esempio degli occhi del pipistrello la cui sproporzione rispetto alla luce meridiana è analoga a quella dell'animae nostrae intellectus rispetto ai naturae manifestissima (" De veritate theoria, id est contemplatio, sic difficilis est, sic vero facilis... Forsan autem et difficultate secundum duos existentes modos, non in rebus, sed in nobis est causa. Sicut enim nycticoracum oculi ad lucem diei se habent, sic et animae nostrae intellectus ad ea quae sunt naturae manifestissima ").
Nell'esempio del v., D. compendiava dunque simbolicamente il rapporto di sproporzione tra ‛ occhi sensibili chiusi ' e ‛ luce naturale ' e ‛ occhi intellettuali incarcerati nel corpo ' e ‛ luce intellettuale della verità '. Del resto l'esempio a questi fini del vespertilio nella letteratura scolastica era di uso topico, e andrà notato che il termine nycticorax (traslitterazione del greco vuxTíxopa, inteso come " corvo notturno ", " civetta " o " nottola ") era traduzione inesatta, presente nella translatio media, del greco VUXTCp (" pipistrello ") presente nella Metafisica (e v. anche Aristotele Hist. animal. I 1, 487 b 23, 488 a 25, 5, 490 a 8; III 1, 511 a 31; Part. anim. IV 13, 697 b 1-12, ecc.), traduzione poi corretta opportunamente in vespertilio dalla translatio nova (la vetustissima e la vetus hanno nottua, mentre il commento di Averroè aveva vespertilio, ma è da escludere come fonte: v. METAFISICA).
Quanto ai commentatori va ricordato l'uso restrittivo che della metafora fa Tommaso (Comm. Metaph., ad l.) in polemica con Averroè e proprio in considerazione dei limiti della conoscenza derivanti dalla temporanea unione dell'anima col corpo (per Tommaso v. anche Sum. theol. I 12 1, II I 102 6, Cont. Gent. III 45) mentre Alberto Magno (Metaph. II II 1) sviluppava ampiamente il confronto (v. VERITÀ) segnalando nel contesto la triplice resa delle translationes aristoteliche (" oculi nocticoracis seu noctuae vel vespertilionis "). Ma dello stesso Alberto assai indicativo è il testo delle Quaestiones super de animalibus XI 9, che, discutendo il problema " Utrum intellectus noster possit in cognitione primae causae ", esamina analiticamente gli stessi temi toccati da D., ricorrendo appunto alla auctoritas aristotelica dell'" oculus nocticoracis seu vespertilionis ".
Infatti, come si è detto, l'esempio del pipistrello era comunemente usato a designare l'innata incapacità della mente umana a percepire nella loro piena evidenza le verità divine (cfr. Anselmo Ep. inc. Verbi I, Bonaventura Collat. in Hexaem. V 1 7), proprio in quanto animale serotino che rifugge la luce: " Vespertilio pro tempore nomen accepit, eo quod lucem fugiens crepusculo vespertino circumvolet praecipiti motu acta, et tenuissimis brachiorum membris suspensa; animal murium simile, non tam voce resonans quam stridore; specie quoque volatilis simul et quadrupes, quod in aliis avibus reperiri non solet " (Isidoro Etym. XII VII 36).
Le suddette caratteristiche e l'opposizione simbolica luce-tenebra, sole-notte, aquila-vespertilio, fecero del pipistrello uno dei tipici animali significanti il demonio (" Vespertilio, avis nocturna. Significat idola tenebris dedita ", Papias vocabulista, s.v.) e in tal senso, in If XXXIV 49, D. afferma che le ali di Lucifero non avean penne, ma di vispistrello / era lor modo; e quelle svolazzava.