Vita e organismo
Marcello Malpighi, uno dei principali fautori dell’introduzione del metodo galileiano nell’ambito delle scienze della vita, veniva lucidamente argomentando nel 1673 come una piena comprensione delle strutture della ‘macchina biologica’ passasse necessariamente da un obiettivo irrealizzabile per le conoscenze dell’epoca: una dettagliata visione delle varie fasi del processo embriogenetico che potesse avere inizio dal ‘primo sorgere’, dal preciso istante della formazione dell’embrione (Bernardi 1986):
Nella costruzione di macchine, gli artigiani usano fabbricare preliminarmente le singole parti, in modo che prima si vedano separatamente i pezzi che debbono di poi venire fra loro compaginati. Alcuni naturalisti, interessati allo studio degli animali, speravano che ciò accadesse anche ad opera della natura: infatti, essendo molto difficile sbrogliare la intricata struttura del corpo, era di giovamento esaminare nei primordi la formazione delle singole parti, ancora separate. Temo però che la vita dei mortali sia chiusa entro confini troppo incerti e che l’inizio e la fine siano altrettanto oscuri. La morte […] non appartiene né ai vivi né ai morti. Penso che alcunché di simile avvenga nel primissimo inizio degli animali. Infatti, studiando con cura la formazione degli animali nell’uovo, osserviamo nell’uovo stesso l’animale già abbozzato, talché ne viene frustrato il nostro lavoro: e non avendo colto il primo sorgere, siamo costretti ad aspettare che le parti vadano successivamente manifestandosi (M. Malpighi, Sulla formazione del pulcino nell’uovo, in Opere scelte, a cura di L. Belloni, 1967, p. 223, corsivi miei).
Il meccanicismo biologico, assunto dalla comunità degli scienziati che si riconosceva nelle istanze della ‘nuova scienza’ a paradigma interpretativo di quello che oggi definiamo regno ‘organico’, aveva trasferito al mondo della vita la chiave di lettura che così feconda di risultati si era mostrata nell’analisi del mondo fisico, e particolarmente in campo astronomico: viventi come macchine appunto, come orologi o come congegni idraulici composti da tubi, molle, leve, pompe o viti. Ma come si fa – torniamo a Malpighi – a comprendere «la intricata struttura del corpo» se non ci è possibile «esaminare nei primordi la formazione delle [sue] singole parti»?
Risalire alle origini delle ‘macchine della natura’, spiegarne meccanicamente la produzione partendo dai soli ingredienti – materia e movimento – che René Descartes (1596-1650) aveva impiegato per la costruzione del suo Mondo e del suo Uomo doveva rivelarsi ben presto, di fronte alla complessità di quelle macchine, come un’operazione impossibile da realizzare.
«Voi dite che gli animali sono macchine al pari degli orologi?» – avrebbe commentato Bernard de Fontenelle nell’XI delle sue Lettres galantes (cfr. Œuvres diverses de M. de Fontenelle, t. 2, 1728, p. 310) – «Ma avvicinate la macchina di un cane alla macchina di una cagna, potrà risultarne una terza piccola macchina; mentre due orologi potranno trovarsi vicini per tutta la vita senza produrre mai un terzo orologio».
Così, a partire dall’ultimo trentennio del Seicento, la scienza naturale dei ‘moderni’ era venuta teorizzando una sorta di autolimitazione, diremmo, ‘programmatica’, dell’indagine scientifica sull’origine del vivente. Il prezzo da pagare per una scienza che potesse trasferire efficacemente al mondo organico metodi e modelli impiegati nella lettura del mondo fisico comportava l’arresto di quell’indagine alla macchina biologica già strutturata. La sua origine, il momento cruciale della sua formazione, slittava al di là di ‘colonne d’Ercole’ oltrepassate le quali si entrava nel regno della ‘pseudoscienza’. Avrebbe lucidamente commentato alcuni decenni più tardi Charles Bonnet:
La Filosofia compresa l’impossibilità in cui si trovava nello spiegare meccanicamente la formazione degli Esseri organizzati ha efficacemente immaginato che essi già esistessero in piccolo, sotto forma di Germi o di Corpuscoli organici (Considérations sur les corps organisés, 1762, texte revu par F. Markovits, S. Bienaymé, 1985, p. 21).
A meno di non voler riaprire le porte del discorso scientifico all’azione di forze formatrici o virtù plastiche, la tesi di una preformazione dell’embrione (o ‘germe’) nel seme maschile o femminile apparve, già sul finire del Seicento, come la sola via di uscita. In tale prospettiva il momento della fecondazione diveniva un’operazione di semplice ‘attivazione’ di un meccanismo invisibile sì, ma già completo e pronto a funzionare e a dispiegarsi. Non una vera e propria neoformazione a partire dalla mescolanza dei materiali seminali indifferenziati come era stato ipotizzato dall’antica teoria dell’epigenesi, ma una pura e semplice dilatazione delle dimensioni, sino a varcare la soglia della visibilità, di ‘miniature’ dei nuovi individui (Bernardi 1986).
Uno sviluppo ulteriore, delineatosi già a partire dagli anni Settanta del secolo, avrebbe finito per spostare l’intera questione su un piano ancora diverso: la supposizione della presenza di ‘abbozzi’ o ‘miniature’ invisibili degli embrioni nei vari ‘semi’ animali o vegetali si sarebbe trasformata, per molti autori, nell’ipotesi metafisica di una creazione divina, istantanea dei germi di tutti gli esseri futuri all’inizio dei tempi: non più preformazione, dunque, ma preesistenza. Gli studi sul calcolo infinitesimale, l’idea che la materia fosse infinitamente divisibile, resero concepibile la possibilità che tali germi fossero stati incastonati (inviluppati) l’uno dentro l’altro nei capostipiti di tutti i viventi: nei «sacri lombi» di Adamo (per i sostenitori di una linea paterna di riproduzione, via spermatozoo) o nelle ovaie di Eva (per i partigiani di una linea materna, via uovo). Così scriveva Antonio Vallisneri nell’Istoria della generazione (1721):
Pare a prima vista incredibil cosa, e più de’ bizzarri poeti, che de’ savi filosofanti degna il dire, che tutto il genere umano, ch’è stato, ch’è, e che sarà sino al finire de’ secoli, stesse rinchiuso nelle ovaie d’Eva, dimanieraché, quando l’Altissimo creò la Gran Madre dalla costa d’Adamo, ponesse in essa nello stesso tempo un numero d’uova, al nostro intendimento, infinito, altre delle quali i maschi, altre le femmine contenessero […] dimanieraché in questo sistema conchiudere si possa, che Eva nelle sue ovaie tutta quanta intera la posterità tenesse inviluppata, e ristretta (ed. a cura di M.T. Monti, 2° vol., 2009, p. 279).
Una rinuncia all’indagine, si è detto, a salvaguardia del modello epistemologico prescelto: impossibilitati a fornire una risposta al problema della generazione coerente con quel modello, non restava che considerare l’origine della vita come un miracolo, un atto che non era in potere dell’uomo indagare così come non era in potere della natura, con i suoi mezzi ordinari, realizzare. Su questa posizione si sarebbe assestato il pensiero di gran parte degli scienziati per tutto il Settecento.
I problemi che avevano accompagnato, tuttavia, la riflessione scientifica sull’inizio della vita – ritorniamo al punto da cui siamo partiti – non sarebbero venuti meno neppure nell’indagine della sua fine, come avremo modo di vedere tra breve.
A quale vivente è concesso ‘morire’ e ‘risorgere’, o almeno farlo mantenendosi all’interno della sfera dei fenomeni naturali, senza dover ricorrere a un intervento divino o magico?
Un animale che dopo d’esser perito risorge, e che, dentro a certi limiti, tante volte risorge quante a noi piaccia, è un fenomeno quanto inaudito, altrettanto a prima giunta inverisimile e paradosso, che mette in moto e sconvolge le idee più ricevute dell’animalità, che ne fa nascer delle nuove, e che diviene interessantissimo alle ricerche non meno dell’oculato Naturalista, che alle speculazioni del profondo Metafisico (Opuscoli di fisica animale, e vegetabile. Opuscolo IV, in L. Spallanzani, Opuscoli di fisica animale, e vegetabile, 1776, p. 223).
L’esistenza di esseri in grado di sospendere e recuperare le funzioni vitali era stata segnalata, proprio agli inizi del Settecento, da uno dei padri dell’indagine microscopica, l’olandese Anthoni van Leeuwenhoek. Fu lo stesso scopritore degli spermatozoi, infatti, a osservare che alcuni microrganismi rinvenuti nella sabbia che si raccoglie nelle gronde dei tetti – i rotiferi (oggi nome di una classe che conta più di 1500 specie) – erano in grado, dopo aver subito un prolungato essiccamento conseguente all’evaporazione del liquido nel quale si trovavano ordinariamente immersi, di ritornare alle loro normali funzioni e attività se venivano nuovamente bagnati (cfr. Keilin 1959; Barsanti 1997 e 2000; Ratcliff 2000). Senza toccare le possibili implicazioni di carattere metafisico o filosofico che potevano esser tratte da una simile scoperta, Leeuwenhoek ne dà notizia sulle «Philosophical transactions» nel 1703 e nel 1705, assestandosi su un dato osservativo che ritiene, evidentemente, sufficiente ad affrontare la questione: il permanere inalterato, durante lo stato di essiccagione, della struttura dei rotiferi. L’integrità della struttura, dunque, a garanzia del mantenimento della vita.
Entro i primi sei decenni del Settecento l’osservazione microscopica disvela l’esistenza di analoghe proprietà in una nutrita serie di altri viventi: tra questi il nostoch (un genere di Alghe azzurre) e la tremella (una piantina acquatica), individuati rispettivamente da René-Antoine Ferchault de Réaumur e da Michel Adanson, e le ‘anguilline’ del grano (Anguina Tritici, appartenente al phylum dei Nematodi) descritte da John Turberville Needham nel 1743 (Stefani 2002, p. 16 e nota). La questione – oggi affrontata nei termini di criptobiosi – indica lo stato di vita latente con cui alcuni organismi (dai semi alle spore nel mondo vegetale, a protozoi e batteri, fino ad alcuni rappresentanti del regno animale come Molluschi, Pesci, Anfibi o Rettili) rispondono a situazioni di stress ambientale, quali una prolungata aridità o un freddo intenso, riducendo praticamente a zero le funzioni metaboliche.
I primi testimoni settecenteschi di una simile proprietà tesero inizialmente a fornirne una segnalazione, evitando di far intervenire nei resoconti delle loro osservazioni i «concetti di vita, vita latente, resurrezione e morte» che sarebbero divenuti, invece, centrali nel dibattito accesosi intorno al 1770 (Keilin 1959, p. 153). A introdurre la questione in area italiana era stato il naturalista ravennate Francesco Ginanni (cfr. la relativa voce redatta da A. Saltini, Ginanni Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 55° vol., 2001, pp. 3-5) con un brevissimo cenno all’interno del trattato intitolato Delle malattie del grano in erba (cfr. Stefani 2002, p. 43), dove aveva commentato la questione con queste scarne parole:
veramente è cosa sorprendente, che vi sieno animali, i quali perdano per lungo tempo gli usi della vita, e questa a nostro arbitrio ripiglino, ma non è ciò impossibile da concepirsi dopo aver considerato la diversità di viventi, che sono fuori della sfera di nostra vista, e dopo il sapere ormai per cosa infallibile, che se ne trovano alcuni di mole incomparabilmente maggiore, i quali passano una parte della loro vita senza nutrimento alcuno, e senza moto (Delle malattie del grano in erba, 1759, p. 341).
Occorrerà ancora del tempo perché il tema venga nuovamente affrontato e finalmente discusso in una prospettiva più ampia. Alle proprietà del rotifero e alle «Anguillette» del «Grano Sprone, o cornuto […] che ripigliano vita, e moto, se l’acqua le inumidisce» farà riferimento, verso la fine delle sue Ricerche fisiche sopra il veleno della vipera (1767, p. 153), il naturalista trentino Felice Fontana, «Fisico di S. A. Reale il Gran Duca di Toscana», Sovrintendente dei «Regi Gabinetti di macchine di Fisica sperimentale» e «Pubblico Professore Ordinario di fisica nell’Università di Pisa» (Fontana a Caldani, 16 ottobre 1766, in S. Contardi, La casa di Salomone a Firenze, 2002, p. 57).
Il fenomeno, sul quale Fontana ritornerà in lavori successivi (Osservazioni sopra la ruggine del grano, 1767; Osservazioni sopra alcune specie di maravigliosi insetti, 1768 e Saggio di osservazioni sopra il falso Ergot, e Tremella, 1775) è qui inserito all’interno di un’opera che riprende e approfondisce, giungendo alla precisa identificazione della sede e delle modalità di inoculazione del veleno, le rediane Osservazioni intorno alle vipere (gli ‘errori’ di Redi vengono trattati alle pp. 5 e 24). Per quanto scarno, il resoconto si rivela subito di grande interesse per la dimensione teorica nella quale è collocato. A differenza del commento di Ginanni, che si affrettava a riporre l’argomento nella ricca schiera di quelli che sfuggono alla nostra conoscenza, Fontana pone subito la questione all’interno di una lucida riflessione sui concetti di vita e morte. Perché il veleno della vipera «spenge la vita»? In che modo si muore? E perché alcuni viventi possono, dopo la morte, «tornare alla vita»? Che mezzi abbiamo noi, inoltre, per giudicare se un animale è morto, se non in rapporto ai nostri sensi? (Ricerche fisiche…, cit., p. 157).
Il veleno non agisce – questa la conclusione cui lo scienziato perviene a seguito della sperimentazione tracciata nelle pagine del trattato – «in nessuna di quelle tante e tante maniere, che i Filosofi hanno immaginato […] bensì togliendo l’irritabilità ai muscoli, e distruggendo in essi il principio del moto, principio, e sorgente della vita animale» (p. 156, corsivo mio).
Nel preciso istante in cui cessa il moto, continua Fontana, «l’animale finisce ancora di vivere, non essendo in tale stato il suo corpo per riguardo alla vita, punto differente da un corpo fossile, da un puro metallo» (p. 151). «Rivive» invece prontamente, non appena «ritorna il moto primiero alle parti, ed è sempre morto […] se quelle parti perdono non sono l’attual movimento, ma ancora la possibilità di riacquistarlo in appresso» (p. 152). Una simile possibilità è proprio quella di cui godono – questa l’origine dell’inserimento del tema della reviviscenza in quel particolare contesto – le anguille del grano, in essa risiede il loro potere di recuperare la vita.
A niente vale, dunque, il permanere inalterata la struttura se non è conservata in essa l’irritabilità: senza irritabilità non si ha moto, senza moto non è possibile la vita. A niente vale l’organizzazione della macchina corporea: il veleno non dis-organizza, a rigore, il corpo dell’animale ma questo, nondimeno, muore: «Rimane organizzato è vero quel corpo, ma un corpo organizzato senza moto è appunto un corpo senza vita» (p. 155).
L’equazione moto=vita, dunque, secondo la prospettiva della più coerente filosofia meccanica. In assenza di segni evidenti di movimento non si può, a rigore, che parlare di ‘morte’.
Fontana ritornerà in altre occasioni sull’argomento, non mancando mai di inserirlo all’interno di una prospettiva di portata più generale. Emblematico, a questo proposito, il commento che chiude la descrizione del carattere contagioso della malattia, causa della perdita di tanti raccolti, nel Saggio di osservazioni sopra il falso Ergot, e Tremella. Dopo essersi espresso a favore dell’animalità delle ‘anguillette’ reperibili all’interno delle galle del grano ‘cornuto’, e averle identificate come cause efficienti della malattia, fa una prima riflessione:
è dunque certo che le anguillette del Grano Ergot sono veri animali, e che vi è un animale che può morire più volte e ritornare di nuovo a vivere. La cosa è paradossa, ma vera, il paradosso è figlio dei nostri errori, il vero è parto della natura (p. XIV).
Ancora più ampio il respiro della conclusione del breve trattato nel quale vengono illustrate e discusse le proprietà e la natura della Tremella:
Un animale che muore, e che rivive, apre un nuovo Mondo d’inaudite verità al pensatore, che sole distruggono le fatiche o i sogni di tanti scrittori detti Filosofi, i quali ci hanno dato delle intiere Librerie di Romanzi credendo di darci delle sode e profonde verità: ed ecco come due punti di materia appena visibili al Microscopio in mano dell’osservatore bastano a rovinare i più sottili e laboriosi sistemi fatti da Scrittori, che abbiamo fin ora chiamati metafisici (pp. XXV-XXVI).
La riflessione sul tema del ‘ritorno alla vita’ era destinata a essere recuperata e a subire nuovi approfondimenti di lì a poco, con l’elaborazione offertane da uno dei massimi rappresentanti della scienza italiana del Settecento, Lazzaro Spallanzani, che ne fornisce pubblica trattazione piuttosto tardi – siamo nel 1776 – nel quarto dei suoi Opuscoli di fisica animale, e vegetabile. L’indagine era stata avviata, come risulta dai protocolli di laboratorio che sostanziano le pagine del Grande giornale («Finalmente mi è riuscito di trovar de’ rotiferi», annota in data 22 aprile), nel corso del 1773 e si era protratta per almeno due anni (fino al settembre 1775). Primi oggetti dell’osservazione, i rotiferi descritti da Leeuwenhoek costituiscono, come anticipato, il punto di partenza della sperimentazione, confermando appieno il possesso della proprietà ricercata, che viene commentata nella maniera che segue:
Concludiamo adunque, e concludiamolo fondatamente, che ne’ Rotiferi già fatti aridi, e smunti (e lo stesso dovrà dirsi degli altri Animali risorgenti, di che ragioneremo in appresso) rimane tolta per intiero la vita, non solo per essersi distrutto il vicendevole agire tra solidi, e fluidi, ma perché questi per lo svaporamento più non ci esistono, e perché quelli col disseccarsi, e indurire perduto hanno lo stato naturale di solidi (Opuscoli di fisica animale, cit., p. 200).
Per questo motivo, conclude Spallanzani negli Opuscoli, «una vera e rigorosa risurrezione dee dirsi quella de’ Rotiferi, quando al bagnarli rinvengono, e ripiglian vita» (p. 200).
Assestiamoci per un momento su questo dato e passiamo a vedere quali altri ‘risorgenti’ lo scienziato emiliano ha incontrato nel corso delle sue ricerche. La sabbia delle tegole, indicata da Leeuwenhoek come il luogo privilegiato in cui reperire i rotiferi, si è rivelata generosa occasione per nuove conoscenze, non meno ricche di interesse. Prima tra tutte «un Animaluccio tendente al giallognolo» dotato, se collocato nella sabbia, di «moto regolare, e progressivo, lento però a segno che a riscontro del Rotifero sembrava una testuggine, che si strascinasse, onde per segnarlo con qualche nome io non avrò difficoltà a chiamarlo Tardigrado» (pp. 223, 224).
È il primo ingresso sulla scena scientifica, o almeno il primo contrassegnato dall’attribuzione del nome con il quale questo phylum è oggi ricordato (Tardigrada), di quello che sarebbe divenuto uno dei ‘risorgenti’ per antonomasia: rotiferi, tardigradi e – questa «la terza spezie» descritta di seguito da Spallanzani – anguilline delle tegole avrebbero costituito la triade di risorgenti più nota nel panorama settecentesco. A essi Spallanzani aggiunge, poco più avanti nell’Opuscolo, le ben note «Anguille del grano rachitico» o «annebbiato» scoperte da Needham, oltre a due casi, altrettanto noti, di «certe piante» che «appresso d’esser perite rivivono»: il Nosthoc e la Tremella già osservati e studiati – precisa – da Vallisneri, Buffon, Bonnet, Réaumur, oltre che dall’amico Bonaventura Corti (Opuscoli di fisica animale, cit., pp. 237 e segg.).
È a partire da questo punto, avviandosi verso la conclusione del lavoro, che Spallanzani vira decisamente dall’ambito della descrizione a quello dell’interpretazione del fenomeno della reviviscenza, dalla sfera del ‘come’ a quella del ‘perché’, dall’accertamento degli effetti alla ricerca delle cause:
Ma quale può mai essere la cagione, onde alcune spezie di Animali, e di Piante sono così privilegiate a differenza di un numero d’altre senza fine grandissimo, che perendo una volta sono irreparabilmente perite per sempre? (pp. 238-39).
La prima ipotesi che viene vagliata, e respinta, è che la causa di tale ‘privilegio’ possa risiedere nell’estrema semplicità dell’organizzazione di questi viventi. Se questo fosse vero, allora organismi altrettanto semplici o più semplici ancora del rotifero, del tardigrado e così via dovrebbero goderne in pari misura, cosa che viene prontamente smentita dai fatti.
Se dunque la semplicità dell’organizzazione influisse nel risorgere degli Animali, i Polipi a braccia sarebbero stati verosimilmente di questo numero. Parevano destinati ad esserlo dalla pertinacia di vivere ad onta di que’ mezzi che tendono alla distruzione dell’animalità (p. 240).
Ben poche scoperte scientifiche settecentesche ebbero un’eco e un impatto paragonabili a quella – operata dallo scienziato ginevrino Abraham Trembley – delle strabilianti proprietà di un microrganismo acquatico: l’idra (il «Polipo a braccia» di cui sta parlando Spallanzani, molto più noto agli storici come «polipo di Trembley»). Questo idrozoo d’acqua dolce (Hydra viridis) sconvolse letteralmente il panorama scientifico contemporaneo per la sua capacità di riprodurre parti amputate; di formare nuovi individui completi a partire dalle varie sezioni in cui veniva suddiviso; di continuare a vivere dopo esser stato rovesciato come si fa con un guanto; di riprodursi infine, naturalmente, per gemmazione, alla stregua di una pianta. Più che comprensibile, quindi, che Spallanzani, alle prese con le ‘rigenerazioni’ animali fin dal 1765, abbia subito pensato alla «pertinacia di vivere» del «polipo» – uno degli esseri più semplici, inoltre, quanto a struttura – per testarne l’eventuale possesso della capacità di ‘risorgere’ (cfr. M.T. Monti, Spallanzani e le rigenerazioni animali. L’inchiesta, la comunicazione, la rete, 2005).
Se adunque un Animale sì manomesso, sì ridotto a brani anzi in minuzzoli non muore, non sembrava dunque credibilissimo, che al solo lasciarlo in secco non dovesse perder tampoco la potenza al risorgere? Ma i fatti decidono precisamente il contrario. Venuta meno l’acqua è indubitato, che muoion per sempre i Polipi a braccio! (Opuscoli di fisica animale, cit., p. 240).
Esclusa, dunque, la semplicità dell’organizzazione come possibile causa della reviviscenza e costretto «a procedere per indovinamenti, piuttosto che per evidenza o contezza di verità», Spallanzani passa a sondare un’altra possibilità, a proporre «una piccola Ipotesi» senza – tiene a precisare – impegnarsi «a patrocinarla». Ecco tornare in campo, senza alcun riferimento all’autore, la ‘soluzione’ già avanzata da Fontana nel 1767: la causa del fenomeno potrebbe risiedere nell’irritabilità muscolare.
Per le Sperienze Halleriane – argomenta Spallanzani – pare non si possa mettere in dubbio che negli Animali che hanno cuore il principio vitale risegga originalmente nella irritabilità di un tal muscolo (p. 242, corsivo mio).
E negli esseri che, come il rotifero e molti altri animaletti (pp. 208-209), sembrano esserne privi? In essi, argomenta,
è più che probabile che il principio di vita sia radicato nell’irritabilità de’ loro muscoli. Ciò presupposto – continua – se lo stato degli Animali sarà tale, che la natura irritabile del cuore, e de’ muscoli perisca in guisa, che sia tolta ogni speranza a rintegrarsi mai più, è per se chiaro che l’Animale non solo morrà, ma resterà morto per sempre. (pp. 242-43, corsivo mio).
Qualora, al contrario, l’irritabilità sia stata tolta in maniera che «o naturalmente, o con l’arte possa essere eccitata di nuovo, non v’ha dubbio che l’Animale sia per passare dallo stato di morte a quello di vita», fosse pure rimasto morto «per un secolo intiero» (p. 243).
La riflessione si approfondisce ulteriormente attraverso la considerazione dei casi in cui i ‘risorgenti’ non ‘risorgono’: se sottoposti, per es., a eccessivo calore o – è il caso delle Anguille del grano – a «soverchie replicate bagnature». In queste situazioni – argomenta – «guastandosi per tali Agenti la musculare struttura […] viene anche a struggersi la forza irritante, che risiede in lei» (p. 243).
La distruzione della struttura delle fibre muscolari, inibendo la possibilità di azione della forza a esse inscindibilmente legata, l’irritabilità appunto, ‘distrugge’ la possibilità di recuperare la vita.
Una macchina naturale ‘vive’, esattamente come un orologio meccanico ‘funziona’, finché la sua struttura e i suoi movimenti permangono inalterati. L’analogia con l’orologio, destinata a complicarsi enormemente rispetto all’iniziale formulazione cartesiana, aveva gradualmente ceduto terreno all’immagine di macchine più complesse, nei cui ‘tubi’,‘canali’, fibre scorrevano vari «fluidi della vita» (Bernardi 1992) e i cui organi e funzioni venivano descritti e interpretati alla luce delle nuove forze che, nel corso del 18° sec., erano entrate in gioco a spiegare il funzionamento del vivente: irritabilità muscolare ed elettricità animale in primis.
La fisiologia era venuta ad affiancarsi progressivamente all’anatomia spostando lo sguardo dal piano della descrizione e dello studio della fabrica del vivente e delle sue componenti a quello del loro funzionamento, attenta alla relazione che legava organi e apparati alle funzioni ritenute fondamentali per la vita: circolazione e respirazione in posizione preminente. L’idea di fondo, che permea la scienza della seconda metà del Settecento, è che una conoscenza delle strutture possa determinare una conoscenza delle funzioni, proprio come la presenza di determinate funzioni diviene ‘segno’ evidente della presenza di determinate strutture. In questo periodo i viventi vengono guardati, pensati e descritti nei termini ‘codificati’ da Bonnet (Considérations sur les corps organisés, 1762) come «corpi organizzati»: le ‘macchine della natura’, ora interpretate come sistemi integrati di organi e funzioni, divengono vere e proprie unità funzionali, dei «tutti organici».
Come ben evidenziato da Roselyne Rey (1994b) per l’area francese, nell’arco di pochi decenni l’approfondimento e lo sviluppo della nozione di «corpo organizzato» avrebbero finito con l’approdare all’elaborazione del concetto di «corpo organico»: il punto di arrivo di questo processo avrebbe sancito, in altri termini, la peculiarità dello status del vivente, stabilendo la sua irriducibilità al non vivente, dell’organico all’inorganico. Gli scienziati che abbiamo scelto di ricordare, Fontana, Spallanzani e, come vedremo tra breve, Bonaventura Corti (1729-1813), sono stati selezionati, tra gli altri che si sono occupati del tema, proprio in ragione delle relazioni personali intrattenute con Bonnet e per la forte presenza, sullo sfondo delle loro indagini sul fenomeno, della sua riflessione sul vivente sintetizzata nella nozione di ‘corpo organizzato’. Come osservato in precedenza, le indagini sui ‘risorgenti’ si traducono immediatamente, per questi naturalisti italiani, in occasione per interrogarsi, riflettere e tentare di definire i confini della vita e della morte.
Non la semplicità della struttura, non la sua integrità, non l’integrità dell’organizzazione dei ‘risorgenti’ danno ragione, come abbiamo visto in Fontana e in Spallanzani, del fenomeno della perdita e della riappropriazione della vita. L’accento era caduto sulla conservazione dell’irritabilità, ‘forza vitale’ per eccellenza che, a metà secolo, era intervenuta ad ‘animare’ le macchine della natura. Il mantenimento dell’irritabilità come condizione fondamentale del mantenimento del moto, nella convinzione, già ricordata attraverso le parole di Fontana, che «un corpo organizzato senza moto è appunto un corpo senza vita».
Corti narra di aver iniziato a occuparsi del fenomeno della reviviscenza nel 1773, su sollecitazione di quello «spirito indagatore» – siamo in presenza di uno dei più bei ‘ritratti’ di Spallanzani uscito dalla penna di un contemporaneo – abituato «a prendere incominciamento laddove altri han pensato di aver toccato il termine di molti arcani della natura» (Osservazioni microscopiche sulla tremella, 1774, p. 8). Oggetto dell’indagine è la Tremella, l’alga scoperta nel 1759 da Michel Adanson che aveva fatto molto parlare di sé per i movimenti manifestati dai suoi filamenti, movimenti che sembravano dotati di spontaneità: una ‘pianta’ dotata di sensibilità, dunque, una natura posta a metà tra il vegetale e l’animale, un vero e proprio anello di congiunzione – uno zoofito – tra i due regni. Senza entrare nei dettagli della disamina condotta da Corti sui famosi ‘movimenti’ della Tremella, movimenti che egli non esita a interpretare come «veri e spontanei» («per movimento spontaneo intendo quello, che ritrovasi di quando in quando realmente in un essere organizzato, e che non è sempre lo stesso, ma sovente diverso tanto nelle stesse, quanto nelle variate circostanze: che è prodotto dall’essere medesimo, e non da qualche esterior cagione», Osservazioni microscopiche, cit., pp. 17-18), soffermiamoci unicamente sulle riflessioni espresse riguardo a ciò che concerne il «perire» e il «risorgere» delle specie di Tremella da lui individuate. Il loro ordinario ciclo vitale sembrerebbe concludersi, sulla base delle osservazioni effettuate nel 1773, durante l’autunno, tra ottobre e novembre (p. 28). Muore d’altro canto la Tremella allorché l’acqua «dei vasi, o dei fossi» in cui si trova «viene a mancare». Perduto, in tali circostanze, «l’amico vitale elemento» e ormai secca, resta attaccata alla terra, ai lati del vaso, o ai corpi ai quali era vicina. «Ma la Tremella in questa maniera condannata anzi tempo a perire – così Corti introduce la sua lettura del tema – sa vendicarsi di questo torto, risorgendo» (p. 28). La casuale scoperta di questa singolare proprietà, effettuata nel corso di osservazioni tese a verificarne la natura e i moti e non rilevata – tiene a precisare – da Adanson, conduce il suo autore a un’interpretazione che non solo delinea nella maniera più completa alcune importanti problematiche e implicazioni teoriche, ma che condurrà Corti a conclusioni molto diverse rispetto a quelle sottoscritte da Fontana e Spallanzani.
Rilevata da Leeuwenhoek nei rotiferi, da Fontana nella seta equina e nelle «anguillette del grano cornuto», racconta Corti, lui stesso ha potuto riscontrarla in «certi animaluzzi» che ha denominato «brucolini della polvere delle grondaie», in alcune «anguilline seccatesi colla Tremella» e in altri microrganismi. È poi posseduta anche da alcune piante, prosegue, come il nostok, e lui sospetta che ne siano dotati anche la lente palustre e i «licheni delle tegole e delle pietre» (p. 97).
Il punto più rilevante si è quello di decidere se le Tremelle, e gli accennati animalucci risorgenti sieno veracemente morti, oppure soltanto in apparenza: poi supposta la morte verace, come accada il loro risorgimento (p. 97).
L’amico Spallanzani – riferisce anticipando le conclusioni che il naturalista scandianese renderà pubbliche soltanto due anni più tardi (gli Opuscoli usciranno solo nel 1776) – ritiene che essi «sieno rigorosamente morti», sostenendo questa sua convinzione con «prove degne di lui» (pp. 97-98). Secondo quanto gli ha comunicato privatamente, la sua idea è che la resurrezione di «quelle macchinette» sia imputabile all’irritabilità «svegliata» dal contatto con l’acqua (p. 98).
Come diverrà immediatamente evidente, la riflessione di Corti, a partire da questo presupposto, prenderà la direzione e l’ampiezza di una riflessione sull’essenza stessa della vita e della morte. Premesso, sulla base delle recenti attestazioni provenienti da Giambattista Dal Covolo (Discorso della irritabilità d’alcuni fiori nuovamente scoperta, 1764) e da Linneo, che la vis irritabilis non è una peculiarità esclusiva del regno animale legata alla sola presenza della fibra muscolare, ma documentata anche in alcuni esempi provenienti dallo stesso regno vegetale, Corti interpreta la ‘resurrezione’ della Tremella essiccata distinguendo due momenti differenti: una prima fase, contraddistinta dalla ripresa del moto dei filamenti mostrato a seguito dell’iniziale contatto con l’acqua («quelle […] primizie di segni di vita»), che ben potrebbe – a suo parere – essere interpretabile come frutto dell’irritabilità; una seconda, invece, identificata con il recupero della spontaneità di quei moti, un recupero che non avviene subito, contestualmente alla riappropriazione dei segni della vita, ma solo dopo qualche tempo. Per questo, sostiene Corti, è necessario ricorrere a una causa diversa (p. 98) ma, prima di affrontare la questione, vira con decisione verso l’interrogativo di partenza e torna a chiedersi: non potrebbero «questi esseri risorgenti» esser «morti soltanto in apparenza, e vivi in realtà»?
Per asserire con sicurezza, che sono veracemente morti, bisogna poter dire senza timore, che in essi più non persevera ciò, che per lo innanzi costituiva la loro vita. Ma ciò, che poco fa costituiva la loro vita, cos’era? (pp. 98-99, corsivo mio).
Né i moti esteriori né quelli interiori «de’ solidi, fluidi visibili, o invisibili» possono essere identificati con la vita stessa ma, al massimo, come segni, come effetti della vita. Non una dichiarazione positiva circa l’essenza della vita ma, di non trascurabile importanza, l’affermazione di una dissociazione tra moto e vita.
Ciò che costituisce il principio della vita in una serie di animali – riflette Corti – può non costituirlo per altri. Se, per es., il buon funzionamento del cuore e dei polmoni è indispensabile alla vita di una scimmia, questo requisito potrebbe risultare indifferente al mantenimento della vita di altri esseri diversamente organizzati, come anguilline, rotiferi, tremelle. Così, anche supponendo nei rotiferi la presenza di una qualche forma di cuore e di circolazione, «potrebbe lasciare il cuor di battere, e il fluido di circolare senza che l’animaluzzo perdesse la vita per questo» (p. 99).
Atteso le idee che abbiamo dell’organizzazione, e delle operazioni de’ nostri animaluzzi, e delle circostanze, in cui tornano in vita, sembra cosa probabile, che la condizione colla quale è stato loro dato il principio di spontaneità, e di vita, sia infino a tanto, che le loro parti, o la loro organizzazione non soffriranno alterazione, o laceramento notabile (p. 100).
Perché questa condizione venga soddisfatta, prosegue Corti, occorre che il processo di essiccamento avvenga in maniera graduale. Solo in questo caso, infatti, la loro organizzazione non sarà «offesa» o «sconcertata». E solo un’organizzazione non «sconcertata» – come vedremo tra breve – può rappresentare la circostanza materiale essenziale all’esercizio delle facoltà del «principio di spontaneità e di vita» che ‘anima’ la macchina corporea.
So che non senza fatica ci persuaderemo la maniera di vita, che ho fin’ora proposta negli animaluzzi, che risorgono. Ma crederemo noi senza sforzo che verissimi animali muoiano veracemente, e risorgano tante volte, quante è in piacer nostro, solamente perché le loro parti ora sien rigide, ora ammollite dall’acqua, e capaci d’irritabilità? Siam confinati tralle stranezze, ma quale delle due è più strana? (p. 101).
Perché pensare a un’autentica morte e a una reale resurrezione quando abbiamo sotto gli occhi innumerevoli esempi di vite latenti o nascoste, come nel sonno o nel letargo? E che dire, poi, del
principio che anima gli embrioni nelle ovaie degli animali, e nelle uova stesse è egli ozioso, o no? Non sappiamo nulla, fuor solamente che, verificandosi certe condizioni, che riguardano un dato grado di calore, con altre circostanze l’embrione nell’uovo si riconosce animato, a proporzione come compariscono dotati di vita i nostri animaluzzi ammolliti dall’acqua (p. 102).
Perché non ipotizzare, allora, che anche il principio che «anima gli animaluzzi risorgenti» non si trovi in «uno stato come di sonno qualora sono secchi» per passare «alla vigilia tosto che le loro parti sieno rammollite dall’acqua»? (p. 102).
Che fine farebbe, infatti, l’anima di questi esseri – principio al quale è assolutamente necessario riferire la spontaneità dei loro moti, ragione fondante della loro ‘animalità’ – una volta ‘morti’? «Non penseremo forse – così si sarebbe espresso Bonnet in una delle Note aggiunte alla nuova edizione della Contemplation – che questa Anima abbandoni la sua sede quando l’Animale si sia disseccato fino ad un certo punto, per riprenderla nuovamente una volta inumidito?».
Una vita latente, una criptobiosi appare dunque a Corti (cfr. Ch. Bonnet, Contemplation de la nature [1764], 2° vol., 1782, p. 500 nota), una lettura del fenomeno preferibile a quella sostenuta dall’amico Spallanzani: l’assenza di moto attuale, l’assenza di moto manifesto non appaiono segni sufficienti, infatti, per decidere dell’assenza di vita.
Le ‘morti’ e le ‘resurrezioni’ degli «animaluzzi» di Spallanzani avrebbero del resto suscitato, non appena uscite dai torchi, l’ilarità di Voltaire, che si sarebbe affrettato a stigmatizzare la cosa con la consueta, pungente ironia:
Sono preoccupato, Signore, per qualunque anima, anche per la mia […]. Confesso che sarei curioso di sapere perché il grande Essere, l’Autore di tutto, colui che ci fa vivere e morire, non conceda la facoltà di risorgere che al rotifero e al tardigrado. Le balene devono essere non poco invidiose di questi pesciolini d’acqua dolce (Voltaire a Spallanzani, 6 giugno 1776, in L. Spallanzani, Carteggi, Ed. nazionale delle opere, I parte, a cura di P. Di Pietro, t. 11, 1989, p. 131).
Ben diversa, invece, la sorte della posizione espressa da Corti – indipendentemente dalle sue implicazioni metafisiche – a favore della possibilità del mantenimento della vita nella più totale assenza di suoi ‘segnali’ manifesti. Ripresa e approfondita a un ventennio di distanza dallo stesso Spallanzani nell’ambito degli studi dedicati a una delle funzioni vitali per eccellenza – la respirazione – la vita ‘criptata’ degli animali letargici acquista peso e centralità nel corso delle ricerche, interrotte dalla morte dello scienziato, degli anni 1795-99. Lo studio del letargo – esempio paradigmatico della «più ampia sospensione di funzioni vitali col persistere non di meno della vita» (Monti 2011, p. 81) – segnerà infatti l’avvio dell’ultima, grande «inchiesta» della scienza spallanzaniana. Proiettata sullo sfondo della «rivoluzione chimica» lavoiseriana, tale inchiesta dimostrerà allo scienziato scandianese che, oltre ai polmoni, «la base dell’aria vitale, ossia l’ossigeno [viene] veramente attratto ed assorbito dall’organo della cute degli animali» (L. Spallanzani, Memorie sulla respirazione, Ed. nazionale delle opere, V parte, a cura di M. Ciardi, M. Stefani, 2010, p. 76).
Dopo «la dissociazione fra individualità biologica e integrità anatomica» consumatasi nel corso delle ricerche sulle rigenerazioni animali avviate trent’anni prima – ricerche che avevano ampiamente dimostrato come le funzioni si conservino «anche in parti isolate, e non solo nel ‘tutto organico’ teorizzato dal maestro» Bonnet (Monti 2011, p. 73) – a determinare la rovina di quel modello si aggiungeva la scoperta della respirazione tissutale che dissociava organo e funzione. È davvero singolare pensare che proprio chi, come Spallanzani, aveva dedicato poco meno di quarant’anni al tentativo di fornire «sostanza osservativa e sperimentale al concetto di ‘corpo organizzato’» finisca, con le acquisizioni emerse dall’ultima indagine, per essere uno dei principali artefici della sua «destrutturazione» (p. 74). Le nuove riflessioni e i nuovi tentativi che, da questo momento e su queste ‘rovine’, sarebbero stati intrapresi per individuare un nuovo fondamento e un nuovo modello teorico al quale ancorare i fenomeni del vivente, sarebbero al contempo approdati, di lì a poco, alla nascita della biologia.
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L. Spallanzani, I Giornali delle sperienze e osservazioni. Il Grande Giornale (Opuscoli, 1776), a cura di C. Castellani, Firenze 1994.
L. Spallanzani, Memorie sulla respirazione, Edizione nazionale delle opere, V parte, Opere edite non direttamente dall’autore, t. 5, [1795-1799 ], a cura di M. Ciardi, M. Stefani, Modena 2010.
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